Giorgio Gomel (Ebrei per la Pace) afferma che la famiglia di coloni sgozzata a Itamar non sono “nostri fratelli”: Tutti zitti. Quando però appare uno striscione nel ghetto di Roma che nega la “fraternità” a Gomel si scatena l’inferno. Gattegna prende le distanze e Pacifici non ci sta.
Riccardo Pacifici
L’intervento del nostro presidente Gattegna rischia, per chi non conosce da vicino la cronologia dei fatti, di avere una distorta lettura delle proteste romane. Nella quale ci sono due “vittime”, Giorgio Gomel e Moni Ovadia da una parte e dall’altra quelli della cosiddetta “Piazza” quali “incivili e prevaricatori”.
Gattegna lancia su questo Portale una dichiarazione che lascia intendere agli ebrei italiani e a coloro che leggono il nostro Portale dell’ebraismo italiano che nella Comunità che ho l’orgoglio di guidare non ci sia spazio al dissenso e alla pluralità delle opinioni. Cosa non vera. Anche perché Gattegna, pur non condividendo l’espressioni forti e lo strappo di Gomel, si dimentica di chiarirlo nel suo comunicato. Così facendo coloro che non conoscono i fatti avranno la sensazione e forse la certezza che Gattegna si sia schierato con Gomel e Ovadia contro la Comunità Ebraica di Roma. Ma i fatti fortunatamente sono altri.
Gomel, come spesso avviene, trova spazio senza alcuna “censura” nel mensile “Shalom” e nella foga di dissentire con il sottoscritto per avere guidato una delegazione di solidarietà e vicinanza agli abitanti degli insediamenti di Itamar, vittime di una strage aberrante (vennero sgozzati nel sonno una famiglia di cinque persone di cui tre bambini a cominciare da quello di tre mesi), non si limita ad esprimere un legittimo dissenso sull’opportunità di vivere nella Giudea e Samaria, ma si avventura nello scrivere che gli abitanti di Itamar “non sono nostri fratelli”. Ma non si ferma qua, condanna il diritto/dovere della polizia israeliana di ricercare a Nablus gli assassini violando sostanzialmente la loro autonomia e dignità (peccato per Gomel che grazie a quella indagine due giorni dopo gli assassini sono stati catturati con il confronto del dna, due fratelli di 17 e 19 anni rei confessi).
Il direttore Khan si ritrova a pubblicazione avvenuta con una valanga di email di protesta ed il sottoscritto a Yom Hazmaut viene insultato dalla “Piazza” per avere “permesso” la pubblicazione di quello strappo (il presidente della Cer non controlla Shalom). Scatta l’indignazione che difficilmente riesco a placare. Il 18 maggio, mentre io e il Segretario della Cer ci troviamo in Israele, compare una scritta volgare con vernice nera sui muri della scuola ebraica. Il 19 maggio notte dei ragazzi della nostra Comunità con gesto di civiltà la vanno prima a coprire con dei cartoni bianchi e il sottoscritto la fa poi definitivamente cancellare il giorno dopo. Tutto sembrava risolto, finché la domenica mattina del 22 maggio in un altro striscione, a questo punto organizzato e sempre sui muri della scuola scrivono “tutti gli ebrei sono nostri fratelli: Gomel e Ovadia No”. Una “pasquinata” romana che non mostra alcun insulto né volgarità se non l’ironizzare sulle maldestre parole di Gomel su Shalom ma che ancora una volta usa i muri della scuola (cosa sbagliata) per sfogare la propria rabbia e dissenso. Striscione che lunedì mattina del 23 maggio alle ore 8,10 personalmente rimuovo e alle 9 faccio cancellare tutte le nuove scritte.
La protesta insomma non è sul legittimo, anche se non condivisibile politicamente da parte mia, diritto di dissentire sugli Insediamenti (anche se Gomel e non solo lui continua in forma malvagia a chiamarle Colonie) ma sul fatto che abbia scritto che “Non sono nostri fratelli”. Gomel, persona intelligente e non sprovveduta, sapeva di colpire nel segno e sapeva, ad arte, di creare una profonda lacerazione, difficilmente risanabile. E’ riuscito con abilità e godendo delle simpatie degli pseudo intellettuali ebrei italiani, a trasformare il suo strappo e patto di fratellanza ebraica in una “aggressione” alla sua libertà di opinione. Mi dispiace, ma pur condannando l’uso dei muri della scuola, cosi come di ogni spazio della nostra città per esprimere dissenso, rivendico il diritto di dissentire da Gomel come da Moni Ovadia, reo spesso di illustrare all’opinione pubblica italiana una realtà distorta di cosa sia Israele, sconfinando in alcuni casi al suo diritto di esistere.
Mentre noi litighiamo, perdiamo di vista con gravi rischi per la nostra stessa esistenza, di comprendere quale sia il momento storico che attraversiamo in Europa, da ebrei e da europei e del fatto che Israele è accerchiata da regimi fanatici, che nonostante le “primavere arabe”, dal Libano di Hezbollah, alla Siria non più di Assad ma di Ahmadinejad e all’Egitto del “nuovo corso, dove la nuova dirigenza ed i loro Imam proclamano di voler “marciare su Gerusalemme e Tel Aviv”. La domenica della Naqbà lo hanno fatto da tre confini provocando la morte di 17 persone. Siamo in una guerra nella quale non ci saranno vincitori e perdenti ma dove potremmo rischiare di essere estinti come popolo. Nonostante questo dobbiamo difenderci dalle posizione buoniste, sempre dentro le nostre Comunità, che con l’entusiasmo di difendere il diritto agli islamici di aprire propri luoghi di culto, ci si dimentica molto spesso di ricordare che abbiamo la necessità di far chiudere quelle Moschee che sono ad oggi, non solo e nella stragrande maggioranza, controllate da organizzazioni affiliate ai “Fratelli Musulmani” e ad Hamas, ma che sono spesso covo del terrorismo Fondamentalista in cui Imam predicano l’odio contro i “crociati, gli ebrei ed i sionisti”. Ieri, mentre il nostro Rabbino capo era a parlare alla grande Moschea di Roma, una genuina protesta di musulmani democratici chiedevano a gran voce ai dirigenti di rendere trasparente la gestione di quel luogo, oggi nelle mani di amministratori nominati dalle ambasciate di Paesi Arabi e Musulmani, le cui nazioni in alcuni casi fra loro negano il diritto della libertà religiosa e l’apertura di Chiese.
Gomel, Ovadia, Lerner, con le loro espressioni mettono in serio imbarazzo non solo gli ebrei “cattivi” come il sottoscritto ma anche quelli “buoni” che da sempre hanno assunto posizione a sinistra molto moderate. Aggiungo infine che l’aberrante comparazione di una radice comune nei sentimenti di antisemitismo ed islamofobia, sostenuta a gran voce da nostri giovani emergenti rischia di confondere l’opinione pubblica. Costruendo difatti una pericolosissima associazione di idee.
Ma torniamo a noi. Non sono i “coloni” di Itamar ad esser un ostacolo per la pace in Medio Oriente ma coloro che sia dentro il partito di Abu Mazen che dentro Hamas negano ad Israele il diritto di esistere. Sono personalmente orgoglioso della standing ovation che ha raccolto il primo ministro Biby Nethanyhau al Congresso americano. Un discorso, il suo, molto coraggioso dove ha sottolineato che la real politik non potrà consentire di ritornare ai confini del 67 (cosa detta anche da Obama), ma che certamente si dovranno fare scelte dolorose e molti insediamenti potrebbero rimanere sotto il controllo del futuro Stato di Palestina. Abu Mazen non ha fatto attendere la sua risposta: nessun israeliano potrà vivere nel nostro futuro Stato!
A questo punto rivolgo a voi tutti una domanda: perché un arabo può vivere con pieni diritti a Yafo, a Haifa, a Yerushalaim, Nazareth, ecc,ecc e un israeliano non può vivere in Palestina? Le risposte ce le daremo serenamente in un convegno al quale sarà invitato Gomel, e dove Gattegna, l’ambasciatore d’Israele e un abitante di Itamar hanno dato loro disponibilità a confrontarsi. L’appuntamento è a giugno nel cortile delle Scuole ebraiche. Questo è l’unico metodo di confronto civile e speriamo che Gomel troverà l’umiltà di chieder scusa se, involontariamente come voglio pensare, ha offeso la nostra sensibilità.
La dichiarazione di Gattegna
Riferendosi alle polemiche e agli episodi avvenuti in questi ultimi giorni nell’ambito della comunità di Roma, il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna, ha dichiarato:
“L’emotività è forte, comprensibilmente forte, perché viviamo in un’epoca nella quale avvengono ancora fatti che, come la strage di Itamar, generano orrore per la loro natura e per l’efferatezza di cui rimangono vittime adulti e bambini. Ma è necessario uscire dall’equivoco. Non è sulla condanna di quel tragico evento che è emerso il dissenso e commetterebbe un grave errore e si assumerebbe una pesante responsabilità chi volesse creare confusione tra la tragedia che ha colpito la famiglia Fogel e il dibattito, anche aspro, che è attualmente in corso in Israele, nelle comunità ebraiche e in vari consessi internazionali sulla sicurezza e sui confini futuri dello Stato di Israele. Su questo argomento il confronto è aperto e non saranno singoli episodi, per quanto gravi, che potranno impedirne lo svolgimento nella maniera più aperta e democratica.
Sarebbe inaccettabile se non si potesse discutere in piena libertà di uno dei problemi più importanti per la sicurezza di Israele. Questo infatti è l’argomento principale. Non se ci si deve impegnare per la sicurezza di Israele, ma quale sia il modo migliore per garantirla.
Sfido chiunque a dire di poter esprimere certezze e verità assolute mentre tra gli stessi israeliani esiste una grande varietà di opinioni.
Ma prima di parlare dei contenuti richiamo l’attenzione su quanto importante sia imporre a noi stessi il rispetto di alcune basilari regole di metodo, la cui inosservanza ci espone al rischio di far regredire qualsiasi dibattito a rissa verbale, turpiloquio, o peggio.
L’uso di frasi provocatorie, di termini ingiuriosi o diffamatori, di minacce non è segno di maturità e di forza, al contrario è il sintomo che esistono ancora gravi problemi di corretta comunicazione e che, anche su temi di vitale importanza, a volte non siamo in grado di contribuire alla ricerca delle soluzioni migliori che possono scaturire solo da civili e vivaci confronti di idee.
Sento il bisogno di esprimere la mia solidarietà al preside della scuola ebraica di Roma rav Benedetto Carucci, responsabile di una istituto che deve restare il punto di aggregazione, di cultura e di confronto nella Roma ebraica e di una scuola i cui muri sono stati offesi e imbrattati da scritte inaccettabili e diseducative.
Sul rispetto delle regole democratiche e sulla difesa del diritto di tutti ad esprimere civilmente le proprie idee l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane si è sempre impegnata a fondo e continuerà a farlo non in maniera teorica o astratta, ma con interventi forti e puntuali nella millenaria tradizione di libertà d’opinione che ci è stata tramandata come valore irrinunciabile”.
L’Unione Informa 24 e 25 maggio 2011