Si sono visti appelli all’espulsione degli ebrei, casi di violenze contro studenti, docenti compiaciuti della resistenza di Hamas. Un rapporto del NCRI sui cyber-threats offre un quadro approfondito: almeno 200 università americane hanno ricevuto circa 13 miliardi di dollari in contributi provenienti da paesi stranieri, molti non amici, se non apertamente ostili agli Usa
In seguito al massacro compiuto in Israele lo scorso 7 ottobre, ciò che ha sorpreso molti è stata l’ondata di odio antisemita che ha investito Europa e Stati Uniti. La gran parte di questa esplosione di odio verso gli ebrei, mascherata da antisionismo ma degna dell’Europa nazi-fascista degli anni ’30 del secolo scorso, ha avuto origine in quelle Università un tempo ritenute la culla del sapere, ma che oggi sembrano essere diventate, in particolare negli Stati Uniti, il terreno di coltura dell’attivismo e dell’estremismo. Qui diversi studenti hanno lanciato appelli all’espulsione degli ebrei e molti professori hanno esplicitamente applaudito all’attacco terroristico, abbracciando di fatto l’agenda genocida di Hamas. Tra questi spicca anche Loay Alnaji, professore di Informatica presso il Ventura Community College, attualmente sotto indagine per l’omicidio di Paul Kessler. Kessler è deceduto a causa delle ferite riportate durante una manifestazione di protesta contro Israele, svoltasi pochi giorni fa a Los Angeles. Dalla ricostruzione effettuata dagli inquirenti si evince che Alnaji avrebbe colpito l’anziano ebreo con un megafono per impedirgli di sventolare la bandiera dello Stato di Israele. Nel corso delle perquisizioni effettuate preso l’abitazione del docente, la polizia avrebbe anche ritrovato diverso materiale audiovideo di natura estremista e prove della vicinanza di Alnaji alle posizioni antisemiti di Hamas.
Nella famosa Harvard University, ma non solo, si sono moltiplicati i casi di violenze verso gli studenti ebrei, mentre in quasi tutte le università della cosiddetta Ivy League, Hamas è stato apertamente celebrato come “movimento di resistenza”. Ma il fatto più sconcertante, a mio avviso, è stata la timida reazione delle leadership universitarie. Con rarissime eccezioni, i Rettori delle Università hanno rilasciato dichiarazioni ambigue sull’attacco, svicolando immediatamente nel benaltrismo e deviando la discussione sul tema della libertà di opinione e affermando la necessità di garantire a tutti la possibilità di manifestare le proprie idee. Una reazione molto diversa da quella che le stesse amministrazioni hanno avuto in passato su temi quali il razzismo o l’identità di genere, che avevano visto i vertici universitari prendere immediatamente una posizione chiara e netta che, senza alcuna esitazione, li aveva portati a censurare opinioni contrarie a quelle ritenute come le uniche accettabili. Quei rettori che hanno condannato l’attacco terroristico, hanno invece suscitato le ire degli studenti (e docenti) pro-Hamas che da quel momento non hanno fatto altro che attaccarli bollandoli come sionisti.
Se questa ondata di antisemitismo può essere spiegata come un leitmotiv della cultura occidentale, che lo ha represso per decenni ma mai del tutto sconfitto, è necessario riflettere sui processi culturali che lo hanno reso, di fatto, mainstream. Come documentato dalla giornalista americana ed esperta di antisemitismo Bari Weiss, una certa visione anti-israeliana e più generalmente anti-occidentale del mondo è stata incubata per anni nei dipartimenti di studi sociali delle università d’élite americane ed europee. Durante un lasso di tempo che copre circa 50 anni, narrazioni antisemite sono state legittimate al fine di disumanizzare gli ebrei ed etichettare Israele come l’incarnazione per eccellenza del colonialismo suprematista occidentale, verso il quale è necessario resistere a tutti i costi. Guardando attentamente i video che circolano in rete in questi giorni non si può non rendersi conto che gli studenti o più in generale i giovani intervistati ripetono a pappagallo la narrazione astorica e pseudoscientifica postcoloniale antioccidentale, e antisemita, alla quale sono stati indottrinati intellettualmente da anni passati a seguire i più disparati (e inutili) corsi offerti dalle facoltà umanistiche. D’altra parte è evidente che la struttura di gratificazione per questi insegnamenti non riposa sull’ampliamento della conoscenza e delle capacità critiche degli studenti, bensì sul loro aderire alle convinzioni del docente che finisce anche per impiegarli come cassa di risonanza per le proprie ideologie.
Ma come siamo arrivati a questo punto? A cosa si devono le fortune di un approccio teorico normativo, palesemente inconsistente e inadeguato a cogliere la complessità storica ed empirica non solo del conflitto Israelo-palestinese, ma in chiave più ampia del sistema delle relazioni internazionali?
In parte si tratta di un esempio di come certe ideologie e pratiche massimaliste possono diffondersi rapidamente nella società se vengono impacchettate in modo sufficientemente attraente e propagandate da chi, come i docenti universitari o le organizzazioni studentesche, detiene una posizione di autorità. Ma è anche ragionevole pensare che possa trattarsi di una vera e propria campagna di influenza orchestrata, e finanziata, da attori ostili situati al di fuori dell’accademia intenzionati a gettare benzina sul fuoco e a contribuire alla polarizzazione sociale.
Un recente rapporto del Network Contagion Research Institute (NCRI), un centro di ricerca indipendente che si occupa prevalentemente di studiare l’emergere e l’evoluzione dei cosiddetti cyber-threats, offre un quadro estremamente approfondito di questa situazione. Questo rapporto, frutto di diversi mesi di ricerca, mostra come almeno 200 università americane abbiano ricevuto senza divulgarne completamente i dettagli circa 13 miliardi di dollari in contributi provenienti da paesi stranieri, molti dei quali sono considerati attualmente dal governo americano come paesi non amici, se non apertamente ostili.
Il Qatar, il paese che attualmente ospita gran parte della leadership di Hamas, emerge come il maggior finanziatore straniero delle università d’élite americane. Il rapporto mette in luce come il numero di incidenti a sfondo antisemita avvenuti nei campus universitari sia positivamente correlato con l’ammontare dei fondi provenienti da regimi autoritari mediorientali. Lo studio rileva che dal 2015 al 2020, le università che hanno ricevuto denaro da finanziatori legati direttamente a governi mediorientali hanno registrato, in media, il 300% in più di episodi di antisemitismo rispetto a quelle che non lo hanno fatto. Nello stesso periodo di tempo, le università che hanno accettato donazioni da donatori privati legati a regimi autoritari hanno registrato, in media, il 250% in più di episodi di antisemitismo rispetto a quelle che non lo hanno fatto. Infine, le università che hanno ricevuto denaro da questi attori statali e non statali hanno circa l’85% di probabilità in più di sottoporre docenti non allienati a posizioni intellettuali anti-Israeliane o anti-occidentali a sanzioni disciplinari, comprese la censura, la sospensione o la terminazione del rapporto di lavoro.
Naturalmente non possiamo parlare di un meccanismo lineare di causa-effetto, ma più propriamente di un effetto moltiplicatore laddove il substrato antisemita dell’ideologia postcoloniale non è creato ex abrupto da attori ostili, ma esiste già allo stato naturale e necessita unicamente di “una spinta”. Una spiegazione abbastanza ovvia è che questi regimi anti-Israeliani, ma ostili all’occidente, sponsorizzano realtà accademiche già esistenti che hanno fatto dell’attivismo politico la propria ragion d’essere portando avanti opinioni anti-israeliane. Questo spiega anche perché la presenza di donazioni provenienti da filantropi ebrei, che in questi giorni stanno minacciando di venire meno in futuro al loro supporto, non ha avuto lo stesso effetto né è riuscita a contenere il diffondersi dell’antisemitismo nell’accademia.
Va anche comunque precisato che la gran parte del supporto finanziario proveniente da individui o istituzioni legate al mondo ebraico o allo Stato di Israele è maggiormente indirizzata verso le facoltà scientifiche. Ciò si verifica sia in America che in tante realtà europee. Inoltre è possibile che alcune università, desiderose di attrarre e trattenere ingenti finanziamenti dai ricchi paesi del Medio Oriente, promuovano posizioni e linee didattiche, a basso costo, che secondo loro soddisferebbero la sensibilità dei potenziali donatori non curandosi più di tanto delle conseguenza di lungo periodo sul resto della società. Il lavoro pubblicato dal NCRI potrebbe in questo senso spiegare almeno il perché la leadership amministrativa di tante università d’élite, il cui compito principale è quello di raccogliere fondi, sia stata così lenta a rispondere al massacro del 7 ottobre e quando lo hanno fatto abbia mantenuto uno approccio che possiamo definire ambiguo, mentre le piccole università, finanziate in gran parte dal governo americano, dalle rette studentesche o da esponenti delle comunità locali, hanno assunto fin dall’inizio una posizione più decisa. Dobbiamo poi considerare anche la possibilità che la spinta avvenga anche grazie all’impatto che i flussi migratori hanno sui cambiamenti demografici che si riflettono nelle variazioni della popolazione studentesca. Non esistono dati certi a tal proposito, anche se in questo caso sarebbe interessante capire se e come la presenza di fasce di popolazione studentesca socializzate all’antisemitismo possa aver contribuito al successo dell’operazione di influenza sociale patrocinata da paesi terzi dichiaratamente ostili a Israele o al popolo ebraico.
Infine è utile accennare, anche se brevemente per mancanza attuale di prove concrete, alla possibilità che l’antisemitismo prodotto all’intero delle realtà accademiche venga normalizzato nella società anche qui grazie all’intervento di campagne di disinformazione orchestrate da attori ostili. Si può accennare, ad esempio, al fatto che le autorità francesi stanno proprio in questi giorni indagando sul possibile coinvolgimento della Russia nella campagna antisemita che ha visto oltre 200 stelle di David dipinte sugli edifici di tutto l’Esagono e che hanno avuto l’effetto di stimolare un aumento esponenziale della violenza antisemita. La polizia francese ha già arrestato due persone, un uomo e una donna entrambi di origine moldava, sorprese a dipingere la Stella di David su un edificio a Parigi, acquisendo la registrazione di una conversazione telefonica in russo dalla quale si evince l’esistenza di una vera e propria pianificazione in stile militare per l’azione di vandalismo. La registrazione ha poi aiutato gli investigatori a rintracciare altre due persone in contatto con lo stesso centro di coordinamento, che si troverebbe all’estero. Dalle indagini sembra infine che stia anche emergendo il fatto che una fitta rete di bot, che i pubblici ministeri ritengono sia controllata dalla ben nota PMC russa Wagner Group, stia promuovendo questi eventi e le manifestazioni organizzate nelle università sui social media al fine naturalmente di aumentarne l’impatto sociale. Questa attività non si spiega unicamente nell’interesse di Mosca alla destabilizzazione del medioriente, ma anche in rapporto alla crisi ucraina sia sotto il profilo operativo che dell’attenzione mediatica, ma anche in chiave di una più ampia attività di indebolimento sociale dell’Occidente. Ciò che emerge da questo breve excursus sulle ragioni dell’ondata antisemita è che si tratti di un fenomeno che naturalmente affonda le proprie radici nella storia culturale occidentale, attingendo pienamente a un sottostrato spesso inconscio, ma anche che il suo amplificarsi e diventare più militante rientri nella strategia di guerra ibrida messa in essere da attori statali e non statali ostili nel quadro di un conflitto sempre più esteso tra blocchi politici e culturali ormai destinati a collidere.
https://www.huffingtonpost.it/cultura/2023/11/09/news/hamas_antisemitismo_wagner-14086313/