Se gli italiani mangiano “all’ebraica” (e spesso non lo sanno), gli ebrei invece si ingegnano a rendere kasher carbonara e amatriciana. Uno scambio cultural-culinario che è una costante nella storia dell’ebraismo in Italia
Ester Moscati
«È una strada a doppio senso quella che unisce la cucina ebraica italiana a quella italiana tout court. Ci sono piatti che gli italiani non ebrei gustano da secoli senza sapere nulla della loro origine ebraica, e piatti della cucina italiana che gli ebrei si ingegnano a rendere kasher (cioè “adatto”, conforme alle regole della alimentazione ebraica), prima di tutto separando, come Torà comanda, carne e latte – e relativi derivati, tipo burro, besciamella…- ed escludendo gli animali proibiti (maiale, coniglio, cavallo…)». Così spiega Daniela Di Veroli, personal chef, esperta soprattutto in cucina ebraica romana, quella della sua famiglia. «I piatti del ghetto di Roma sono quelli più riconosciuti come ebraici da tutti gli italiani: i celeberrimi carciofi alla giudia o gli aliciotti con l’indivia, per esempio, o la pizza di beridde, preparata in occasione dei brit milà. Ma molti vengono anche da altre regioni, come le venete sarde in saor, o la siciliana caponata di melanzane, le triglie alla mosaica o, ancora, la zuppa di pesce che originariamente, dagli ebrei, era preparata solo con merluzzo; poi, con l’aggiunta di pesci non kasher e frutti di mare, è diventata il caciucco alla livornese».
Un indizio sicuro per riconoscere l’origine ebraica di alcune specialità è in alcuni casi l’assenza di lievito: il Pan di Spagna, base per diversi tipi di torte o buono da gustare così com’è, ha una storia controversa: c’è chi pretende sia stato portato in Italia dall’ambasciatore della Repubblica di Genova, Domenico Pallavicini, a metà del 1700, il quale, tornando in patria, si portò il suo cuoco personale spagnolo e l’ambita ricetta che fece girare la testa alle corti europee, per la sua consistenza soffice e quasi impalpabile. Ma c’è chi afferma che la Spagna che dà il nome al dolce sia la Sefarad degli ebrei cacciati dai Re Cattolici nel 1492. Uova, farina (o fecola) e zucchero sono gli ingredienti di questa ricetta che esclude rigorosamente il lievito, come accade durante la Pasqua ebraica, Pesach.
È solo la sapiente lavorazione dei tuorli con lo zucchero e gli albumi montati a neve fermissima che consente al Pan di Spagna di sviluppare la sua paradisiaca consistenza.
E senza lievito sono anche i dolci di pasta o farina di mandorle, come la Bocca di dama; anche qui l’origine ebraica è certa, con le contaminazioni locali degli aromi siciliani di zagare e frutta. Furono cacciati, gli ebrei, anche dal Sud Italia sotto il dominio spagnolo, ma lasciarono un’eredità di sapori che dà ancora oggi ingredienti e forme alle tradizioni locali.
La cucina ebraica italiana ha una varietà di ricette esuberante e fantasiosa, che si coniuga alle tradizioni regionali e alla ricchezze di materie prime del nostro Paese: le verdure, gli olii, la frutta, e anche gli animali, come l’oca, che da secoli sostituisce il maiale sulle tavole kasher in tutte le particolari preparazioni che il suo gusto consente.
C’è una caratteristica che spesso ricorre, ed è l’agrodolce, che poi è il sapore della vita. L’aceto e il miele, la frutta secca nei piatti di carne o comunque salati. Un esempio di questo connubio è il frisinsal o Ruota del faraone, un pasticcio di tagliolini, polpettine di carne e uvette e pinoli. Composti i tagliolini come onde del mare, le polpettine di carne rappresentano gli egiziani sommersi dalle onde del Mar Rosso, mentre cercavano di riacciuffare gli schiavi liberati. Sulle tavole ebraiche si racconta la grande Storia anche attraverso la forma, gli ingredienti, l’odore dei cibi; perché, da sempre, fin dalla più tenera età, il profumo-sapore di certe pietanze è un effluvio che si espande e corrobora lo studio dei sacri testi, diventando proustianamente tutt’uno con l’apprendimento. Palato, olfatto e conoscenza, intimamente intrecciati in un processo di sinestesia cognitiva, come lo stesso Marcel Proust ci suggeriva (non a caso, sua madre era di confessione ebraica). Tutte le mamme dei ghetti italiani, infatti, insegnavano l’alfabeto ebraico ai propri figli disegnando le lettere con il miele, in modo che seguendone la traccia con il ditino, i piccoli ne imparavano la forma, finendo per associare lo studio alla dolcezza.
Strada a doppio senso, dicevamo. Gli ebrei che vogliono gustare tipici piatti italiani, come la pasta alla carbonara o l’amatriciana, hanno dovuto inventarsi il modo di sostituire alcuni ingredienti “peccaminosi”; così la carbonara si declina in due versioni, bassarì (di carne) o halavì (di latte). Chi non vuole rinunciare ai tocchetti soffritti e saporiti di carne, sostituisce la pancetta con la carne secca di manzo kasher, mette l’uovo e rinuncia al formaggio. Chi preferisce una carbonara spolverata di grana (sì, c’è anche quello kasher!) sostituisce la pancetta con delle zucchine soffritte. Stessa cosa per l’amatriciana, in cui il guanciale deve essere sostituito con la carne di manzo secca. Ovviamente, niente formaggio!
Ma le contaminazioni della cucina ebraica italiana non sono avvenute, nei secoli, esclusivamente con quella autoctona. Sapori, profumi, spezie, sono state condivise con le altre cucine ebraiche, sefardita e askenazita, portate dalle migrazioni forzate e frequenti nella storia. Così la cannella, il chiodo di garofano, un particolare modo di insaporire i fegatini di pollo o di preparare il collo d’oca ripieno o la galantina arrosto per la vigilia di Kippur, devono essere stati ingredienti e tradizioni comuni all’Europa ebraica, come dimostra questa storia, letta in un testo di Maria Luisa Moscati (Saperi e sapori): “Il 28 agosto del 1944, nel pomeriggio, arrivarono in Urbino, su dalla strada della stazione, le prime truppe di liberatori. Al seguito dell’esercito Alleato c’era anche un gruppo di giovanissimi soldati ebrei, “La brigata ebraica”, provenienti da quella che era ancora chiamata Palestina, al tempo Mandato britannico. Risalivano la penisola combattendo contro i tedeschi e al tempo stesso raccoglievano notizie e dati sugli ebrei deportati o uccisi. Molti caddero combattendo e furono sepolti a Montecassino e nel cimitero ebraico di Piangipane presso Ferrara.
C’era con loro un giovane polacco, Isacco, appena ventenne, che di motivi per combattere i tedeschi ne aveva parecchi. Proveniva dall’università ebraica di Haifa, ove si era trasferito dalla Polonia per frequentare la facoltà di ingegneria, e questo lo aveva salvato dalla deportazione.
Isacco dunque giunse nella città di Urbino in agosto e poco dopo cominciarono a ritornare le famiglie degli ebrei urbinati che avevano trascorso gli undici mesi dell’occupazione tedesca nascosti nelle campagne circostanti. Nessuna delle famiglie ebraiche poté rientrare subito nelle proprie case, occupate dagli sfollati o dai vari comandi militari. Si sistemarono perciò alla meglio, grati a D-o di aver almeno salva la vita, e alla fine di settembre, dieci giorni dopo Rosh ha-Shanà, (il Capodanno ebraico), si apprestarono a celebrare Yom Kippur (il giorno di espiazione e digiuno) con più fervore che nel passato. Poiché l’astensione da cibi e bevande dura oltre 25 ore, è consuetudine consumare, il giorno precedente, un pasto sostanzioso ed anche quell’anno, pur con mille difficoltà, si era riusciti a mettere insieme un pasto molto simile a quello allestito in altri tempi per quella ricorrenza. La pasta non era tutt’ovo e un polpettone, più pane che carne, sostituiva la galantina, ma l’uso degli aromi tradizionali e forse ancor più i mesi di privazioni patite, rendevano il tutto una vera prelibatezza.
Isacco, come pure gli altri militari ebrei che avevano chiesto di trascorrere Yom Kippur nella sinagoga, venne invitato presso una di queste famiglie al pranzo che precede il giorno del digiuno. Erano certi di fargli cosa gradita, ma ben presto si resero conto che dopo i primi bocconi, il giovane riusciva a fatica ad ingoiare il cibo finché, allontanato il piatto, non scoppiò in singhiozzi.
Soltanto molto più tardi Isacco riuscì a spiegare che sin dal primo momento, entrando, aveva avvertito un profumo a lui famigliare in quel giorno di festa, confermato poi dal sapore di una pietanza che mai più pensava di assaporare ancora e ne era rimasto sconvolto. Aveva rivisto se stesso bambino nella casa dei nonni, nella lontana Lublino, seduto a quella lunga tavola con i genitori e la sorellina, gli zii, le zie e i cuginetti, il nonno con il talled fin sul capo che recitava la benedizione e infine la nonna che portava trionfante il suo piatto di pasta, manipolata con infinito amore, condita con il polpettone calzato nel lungo collo d’oca. Nulla era più struggente del risentirne tutto ad un tratto il profumo”.
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Marchio ExpoEbraica © David Piazza