Per una “piattaforma” dell’Ebraismo Italiano
Alberto Moshe Somekh
Leggo su Kolòt l’intervento dell’Avv. Guido Fubini di Torino. E’ una replica importante, tutt’altro che dettata dall’occasione, “degna di colui che l’ha pronunciata” (come si dice da noi), persona che del resto stimo molto da anni, in tutta sincerità. Egli capisce che gli spunti satirici servono non a dividere, bensì ad unire. Mi spiegherò meglio. Ho in casa il libro del Rabb. Gilles Bernheim di Parigi “Un Rabbin dans la citè”, l’ho letto, l’ho meditato, e ha ragione Fubini quando intuisce (perché non mi risulta averne mai parlato con lui finora) che l’ho apprezzato. Uomo di grande cultura rabbinica e scientifica, il Rabbino Bernheim si trova a presiedere la Consulta di Bioetica del Concistoro Rabbinico di Francia. Egli rappresenta una corrente oggi “minoritaria” del Rabbinato (ortodosso) del suo paese, che peraltro in passato ha annoverato l’allora Gran Rabbino Renè Samuel Sirat.
Questa corrente sostiene che l’apporto fornito dalla cultura accademica non può essere ritenuto trascurabile per l’Ebraismo. Concordo pienamente sul fatto che l’Ortodossia in questi ultimi anni si è fatta sentire su temi peraltro estremamente importanti per la salvaguardia della nostra identità, ma ne ha trascurati altri non meno rilevanti. Il Rabbino non serve soltanto ad effettuare ricerche sulla kashrut dei mono- e di-gliceridi, senza nulla togliere all’urgenza di tali ricerche, nè la vita comunitaria può limitarsi allo scimmiottamento di un chassidismo di maniera, ben diverso da quello autentico, anche se tutti concordano che ciò può iniettare nuova vivacità: nel mondo occidentale le aspettative devono essere di necessità più ampie e più profonde. In questo concordo, a grandi linee, con le osservazioni di Fubini: è necessario a livello europeo (non solo italiano) lanciare una “piattaforma” per quella che chiamerei un’ “ortodossia etica”.
L’Ebraismo Italiano, nel suo piccolo, sta facendo Teshuvah, nel senso che si sta pian piano riappropriando di conoscenze e comportamenti dimenticati da tempo. E’ un fatto a sua volta importante. Ma mi passi Fubini che molta strada resta ancora da fare, proprio sul versante da lui indicato. E qui mi riferisco a due tematiche a sfondo etico sulle quali la classe dirigente “politica” dell’Ebraismo italiano è lungi dall’aver trovato una consonanza di vedute, come sarebbe auspicabile, e sulle quali il dibattito rischia anzi di inasprirsi.
1. Si dovrebbe evitare di criticare Israele, o di avallarne le critiche fatte da altri, sui mass-media. Quest’atteggiamento, giustificato in genere da motivi politici (non essere “confusi” con Israele per non doverne condividere le sofferenze) è riprovevole secondo l’insegnamento dei nostri antichi Profeti. Nel cap. 58 di Isaia troviamo scritto: “non ti disinteressare di chi è della tua stessa carne”. Ferma restando la piena liceità di un dibattito interno su questi temi, la solidarietà famigliare e nazionale dovrebbe prevalere in ogni caso e unire gli Ebrei della Diaspora con i nostri fratelli di Eretz Israel nei confronti del mondo esterno.
2. Si dovrebbe evitare di avallare, in nome dell’Ebraismo, posizioni che toccano le scelte comportamentali di singoli individui in nome di un’acritica ed astratta “tutela delle minoranze”, quando tali scelte contrastano manifestamente con la via etica della Torah. Senza volersi arrogare a giudici di casi personali, è peraltro noto che la Torah proibisce l’omosessualità non solo a noi Ebrei, ma anche ai Noachidi, cioè all’umanità in genere. Se c’è una cosa per la quale il mondo che ci circonda ci rispetta, questa è la difesa dei valori, che il mondo ha perduto e che si aspetta di ritrovare in noi.
In tutti i casi del genere “non ho trovato di meglio del silenzio”. Si è abituati a domandare alla religione di piegarsi alla politica. Questa volta si chiede alla politica di far proprio il punto di vista della religione, e soprattutto dell’etica.
Rav Dott. Alberto Moshe Somekh
Rabbino Capo di Torino
Chi ha paura dello Stato laico?
Giovanni De Martis
L’intervento di Donato Grosser sulla “illusione dello Stato laico neutrale” mi è parso importante perché eleva il ragionamento dal cortile italiano a questioni di più ampia portata. Tuttavia alcuni ragionamenti di Grosser mi sembrano opinabili. Non vi è alcun dubbio che negli Stati Uniti d’America vi sia un partito (quello Repubblicano) che trova consensi anche in un elettorato che si ispira a principi religiosi. D’altro canto non vi è altrettanto dubbio sul fatto che il Partito Democratico abbia convincimenti che possono essere in contrasto o, almeno, non ispirati a pensieri e appartenenze religiose.
Ciò posto, le diverse idee e i diversi programmi dei Partiti che democraticamente si contendono il governo della cosa pubblica non sono in alcun modo in contraddizione con la laicità dello Stato. Al di là e al di sopra dei programmi dei governi rimane immutata una carta fondamentale a a base dello Stato. Il Primo Emendamento alla Costituzione statunitense recita: “Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibirne il libero culto; o per limitare la libertà di parola o di stampa; o il diritto che hanno i cittadini di riunirsi in forma pacifica e di inoltrare petizioni al governo per la riparazione di torti subiti”. A me pare che sia proprio questo Emendamento che rende gli Stati Uniti d’America uno Stato laico. Quando una Amministrazione, sia essa Repubblicana o Democratica, abrogherà questo emendamento credo che non si potrà parlare di “illusione di Stato laico” semmai di morte dello Stato laico.
Per rimarcare i “pericoli” rappresentati da uno Stato laico che non sia mera “illusione” Donato Grosser ci ricorda la legge francese che vieta l’ostentazione di simboli religiosi nelle scuole pubbliche. Non è esatto dire che si tratti di una legge che vieta alle musulmane di coprirsi il capo: questa è una semplificazione sviante. Grosser paventa che la logica che ha portato alla creazione di questa legge sia destinata più o meno inevitabilmente ad introdurre altri divieti o addirittura misure legislative anti ebraiche. Credo sia il caso di rassicurare Grosser su questo punto proprio perché il dispositivo francese ha una logica schiettamente laica. La legge francese 2004-228 del 15 marzo 2004 vieta l’ostentazione di simboli religiosi nei collegi, nelle scuole e nei licei pubblici. In perfetta logica con la laicità dello Stato francese non estende il divieto alle scuole private che si regoleranno come meglio credono. Nella visione e nella logica laica chiese, sinagoghe e moschee non sono luoghi pubblici. Credo perciò che non sia il caso di adombrare una possibile filiazione logica che dalla legge 228 porti alla proibizione di atti di culto. Anzi francamente mi pare spericolato pensarlo.
Come d’altro canto mi pare spericolato un teorema che Grosser avanza. Grosser infatti scrive: “dobbiamo essere memori del fatto che alcune persecuzioni anti ebraiche da parte di persone e di gruppi privi di principi religiosi (ne sono esempi quelle dei nazisti, degli stalinisti e degli ebrei comunisti della Yevsekzia) sono state peggiori di quelle dei domenicani”. Quale connessione vi sarebbe tra nazismo e stalinismo e stato laico? L’uno e l’altro regime sono l’evidente negazione dello Stato laico che si propone esplicitamente di tutelare la libertà dei propri cittadini in ogni suo aspetto. Mi sembra che Grosser veda lo Stato laico soltanto come qualcosa retto da “gruppi privi di principi religiosi”. Se è così l’idea nella sua semplificazione confonde e distorce la realtà. Rileggere la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 26 luglio 1789 credo sia cosa utile per comprendere come “gruppi privi di principi religiosi” possano pensare lo Stato pubblico moderno come garante della libertà dei gruppi portatori di principi religiosi. Una rilettura approfondita consentirebbe anche di non adombrare paralleli con la Germania nazista (retta dal Fuhererprinzip) e con lo stato sovietico stalinista retto da un partito unico negatore delle libertà individuali.
Infine Grosser conclude avvertendoci: “Dobbiamo accettare il fatto che in uno Stato democratico la morale religiosa ha il diritto di essere a fondamento del diritto pubblico quanto le ideologie dei laici e dobbiamo stare in guardia per la difesa dei nostri diritti a vivere da ebrei contro le discriminazioni nei nostri confronti indipendentemente da che parte arrivino”.
All’opposto – io credo – che qualsiasi persona di buon senso sia essa religiosa o no dovrebbe meditare sul fatto che è nella natura di molte religioni ritenere di essere detentrici e portatrici di verità assolute. La morale religiosa nasce da questo convincimento connaturato. Quale livello di tolleranza si può sperare se queste sono le fondamenta su cui poggia? Dare alla morale religiosa la possibilità di essere fondamento del diritto pubblico significa rassegnarsi all’idea di dover ammettere la liceità e la rinascita legale di tasse speciali sugli appartenenti ad altre religioni nella migliore delle ipotesi. Sarebbe lecito ad una religione posta a fondamento dello Stato introdurre legalmente principi discriminatori e di divisione tra i cittadini su base confessionale. Come potrebbe uno Stato fondato sulla morale religiosa non finire prima o poi per legiferare sull’obbligo di assistere alle funzioni religiose? Chi garantirebbe la libera espressione della libertà di pensiero di colui che non crede? C’è forse un esempio storico di governo teocratico che possa essere portato ad esempio di tolleranza e tutela delle libertà individuali?
Ognuno deve stare in guardia per difendere i propri diritti ma stare in guardia significa anche e soprattutto avere chiara la consapevolezza e la memoria storica per ricordare che nessuna religione giunta al potere si è mai fatta garante della libertà religiosa. Con buona pace dei suoi detrattori è il tanto vituperato Stato laico democratico ad averci dato il diritto a tale libertà. Mi rimane il timore che la disponibilità a rinunciare allo Stato laico sia il primo passo verso la rinuncia ideologica al diritto alla libertà.