Alessandro Schwed
Sere fa, in televisione, un film iniziato. Barbe, riccioli, lo shtetl. Mi succede come ogni volta che vedo la gente danzare in circolo, le mani sulle spalle di quelli accanto; ebrei in una strada stretta; persone con un naso come dico io; certi lungagnoni con gli occhiali che sono a casa. Torno al mio golfo. Ma qui dobbiamo essere in Ucraina e la casa è perduta dall’aprile del 1943. Sto al televisore come se mi apprestassi a gustare il brodo di Pessach della mamma, e mi bevo tutto lo shtetl. Una intera scodella di bonomia ebraica. Guardo tutto per non perdere un appuntamento e mi cresce un languore, o un tremito, e non capisco in quale porta mi sto infilando. Infatti, i cosacchi. A cavallo; tra le vie strette. Ubriachi. A folate. Le sciabole verso un orizzonte che non c’è. La gente dello shtetl scappa, che ti dicevo che non poteva durare, le bancarelle rovesciate, lo sai che quelli tornano sempre, i vecchi acciuffati come i topi dal gatto – e adesso che faremo? – Ognuno si nasconde nei buchi che trova, in anfratti, dietro la spazzatura. La morte ebraica viene a caso. Un collo è agganciato a un balcone con sotto un corpo. I piedi scalciano nell’aria. Fatto: la morte. Eppure prima eri vivo. Vorrei sapere come faccio, adesso che la commedia è un dramma.
Ecco, è la trasposizione del 1968 de “L’Uomo di Kiev”, il romanzo di Bernard Malamud. Che mio figlio non veda che mi sono scomposto, che i braccioli della poltrona sono afferrati, che mi scenderebbe una lacrima. Un cosacco taglia un gatto con la sciabola, lo getta dove capita. Il corpo volteggia nell’aria, a planare le budella sulla faccia dell’ebreo di Kiev. L’ebreo si ritrae ma il gatto è già sul volto, e io faccio tutto quello che fa lui: lui soffre, io soffro; lui si ritrae e io mi ritraggo. Sono chiunque sta scappando. Sono lo zio Laslo, che non ho mai conosciuto, sono lo zio Shlomo di cui non so neanche la faccia. Se no, sono lo zio Jeno visto una volta in un kibbutz e subito perduto, era così vecchio. Sono tutte le foto sulla scrivania, sono la piccola cugina Judith al telefono-giocattolo prima di Auschwitz; sono ognuno dei tre zii sul divano, svaniti chi sa dove. Sono a Kiev nel 1911; sono a Gerusalemme nel 585 avanti Cristo, e un soldato babilonese mi mette un ferro a una caviglia.
Poi sono a Firenze, una notte del 1958. Eccomi a letto. Mio padre guarda un film in sala da pranzo, il televisore Admiral è nuovo. Ci sono i tedeschi in bianco e nero. Il babbo è solo. Sento sparare, raus, juden, la voce del babbo mugola. Corro: è lì col volto bianco, aggrappato alla poltrona, e non guarda. Deve essere a Vienna nel 1933, che studia Medicina. Imre è a un congresso di ebrei sionisti, frastuono sulle scale, arrivano le camice brune, la porta trema. Quelli vogliono ammazzarci tutti. Il ragazzo biondo guarda la finestra, è il terzo piano. Decide che adesso si butta. E’ sportivo. Gioca a tennis, nella nazionale ungherese giovanile; nuota nel Balaton, d’inverno ci pattina. Calcola che ce la fa. Si spezza i talloni e le caviglie. “Centocinque micro-fratture, figlio”. “Oh, babbino”. “Ma no. A tennis non mi facevano più giocare. Ero ebreo”.
Il film. Guardalo, e dimmi se Kiev non confina con Auschwitz. Sbrighiamo questa vertigine. L’uomo, un ebreo non osservante, a un tratto è accusato dello stupro di una ragazza cristiana che invece gli si è offerta, e che in effetti lui ha respinto. Viene prosciolto grazie al raro sostegno di un avvocato liberale. E’ l’inferno. Nel momento in cui cade l’accusa di stupro, in quella stessa stanza, senza soluzione di continuità, il medesimo inquisitore lo accusa di un infanticidio rituale, commesso per procurarsi il sangue di un bambino cristiano per il rito della Pasqua ebraica. Accusa inverosimile, inverosimilmente accettata da tutti. Alzo le mani dai braccioli, agli ebrei puoi imputare tutto come a nessun altro: “Gli ebrei sono cannibali”, “Sì, sono cannibali, arrestiamoli!”. “Gli ebrei sono massoni”, “Sì sono massoni, bruciamoli subito tutti!”. “Gli ebrei vengono dallo spazio”, “Sì, vengono dallo spazio, hanno una lingua segreta, eliminiamoli dalla faccia della Terra!”. Allo spuntare della nuova accusa, l’ebreo di Kiev rimane impassibile. E’ lì solo coll’involucro del corpo, il sacco temporaneo che porta in giro. Avvezzo ai calci, agli insulti, in anestesia perenne, e l’odio del mondo diventa il grandioso ritornello di Ravel. L’uomo di Kiev è corpo-guscio, corazza che cammina, carne sopravvissuta, variazione genetica. E’ Kafka, dato che l’oblio porta via tutto fuorché l’odio agli ebrei e l’abitudine ebraica a essere odiati; e come il mare sputa a riva quello che la riva gli ha appena sputato, la scoria antisemita non cessa di gettarsi sulla martoriata riva ebraica.
In fila dietro a un carro armato
Dieci anni fa avrei considerato il film una grande drammatizzazione della Storia alle nostre spalle. Il rintocco di una vicenda conclusa, sigillata. Ora no. Il film mostra una incessante contemporaneità. Vedo Israele. Vedo questo umore latente; vedo la maschera dell’avversione a qualsiasi ragione e sentimento ebraici. E che se questa diciamo così idea – annichilire Israele – fosse agitata contro un’altra comunità, alla fine il normale corpo dell’odio non reggerebbe al ritmo dell’odio per gli ebrei. Certo, non esistono più ghetti; i pogrom, le camere a gas. Ma c’è la testarda esistenza di Israele. La gente sbuffa: “E’ un popolo bellicoso”.
Succede che nella vita ebraica a un tratto tutto si capovolga. Si tratta di insulti, di non potere più passare da una strada, di andarsene. Che stai nell’orto a svuotare l’arnia, e a un tratto arrivano i babilonesi con la spada, i romani con le legioni, gli spagnoli con l’alabarda e il turibolo, i cosacchi con la sbronza e la sciabola, i tedeschi con la cultura neoclassica e la svastica, i kamikaze con la cintura che esplode e il paradiso. Succede sempre che a un tratto, ovunque tu sia stato ebreo, in tutti i tempi in cui un ebreo sia stato ebreo, hai dovuto morire senza sapere perché; e nel buio, per bussola, il fatto che tuo padre te lo aveva detto; e a tuo padre lo aveva detto suo padre; e indietro così, padre prima di padre, per generazioni. Così come adesso sei padre di tuo figlio, e gli devi insegnare di essere sempre di sentinella; di stare pronto. Di mangiare in punta di sedia.
Guardo l’odio che piove sull’uomo di Kiev. Nell’aria del mondo ci deve essere qualcosa di più della diceria pasquale che gli ebrei hanno ucciso Dio. Magari tutto è cominciato quando qualcuno decise che doveva essere scelto un capro più puro degli altri, e poi sacrificato, un capro espiatorio per placare gli dei. Doveva essere quel momento in cui il cuore non contiene più la libidine della morte, e la pianta dell’omicidio diventa jungla. Come scoprire che sia l’inferno, se non appicchi il fuoco a qualcuno universalmente noto come colpevole, questo termostato che sa sfogare la pazzia? Gli ebrei. Questo sacerdozio passivo che non deve spezzare l’accordo generale su di chi sia la colpa di tutto; questa gente che è al mondo per accogliere qualsiasi richiesta: ora andate via. Ora tornate. Ora state zitti. Parlate. Fateci ridere. Morite.
Mio padre era nato in Ungheria nel 1910, dalle parti del Balaton, nella cittadina agricola di Kishkunfelegihaza. Quando aveva sette anni, i suoi compagni di gioco, dei bambini non ebrei, lo condussero in cima al campanile di una chiesa. Gli fecero guardare bene di sotto, e gli dissero: “O adesso ti fai subito battezzare, o ti buttiamo”. Mio padre disse di sì, ma poi scappò, e fu salvo. Gli rimase questo fatto di avere le vertigini e dopo non voleva più affacciarsi a un davanzale, a un terrazzo, su un panorama. Ma quando ebbe ventidue anni, dovette buttarsi da una finestra e lasciarsi ingoiare. Con la questione della vertigine, abbiamo un patto. Sono uno qualunque di quelli in fila dietro a un carro romano, sull’arco di Tito.
Il Foglio 8 settembre 2006