Per la studiosa israeliana la valorizzazione delle origini comuni, sottratta agli estremismi, può essere un collante positivo per riscoprirsi cittadini
Simone Disegni
«Prima gli italiani»; «Débout la France »; «America First». Varianti ungheresi, polacche, catalane, britanniche. Lo spettro del nazionalismo rispunta al centro dell’agenda politica nelle mani di leader sfrontati e reazionari, da far rabbrividire. Ma ne è concepibile una versione liberale? È questa la sfida di Yael “Yuli” Tamir, accademica israeliana, grande allieva di Isaiah Berlin, figura di primo piano della vita politica di Tel Aviv, ex ministro laburista, ora presidente dello Shenkar College. Già cinque lustri fa, nello scenario post- Guerra Fredda del 1993, Tamir aveva proposto il suo concetto di “nazionalismo liberale”. Ora, di fronte alla pressione crescente della minaccia populista l’intellettuale israeliana torna col suo Why Nationalism (Princeton University Press) a spronare i liberali di tutto il mondo: non snobbate l’ideale nazionalista, adeguatamente governato, è una fonte di identificazione popolare e di coesione sociale.
Conosciamo bene la potenza del nazionalismo come fattore di divisione, esclusione, guerra. Ma in che modo esso può rivelarsi invece una risorsa di fronte all’inaridimento delle fonti della democrazia? «Per stabilizzare il sistema politico bisogna che abbia un significato per la comunità. Perché dobbiamo collaborare? Perché dobbiamo redistribuire le risorse in modo da ripianare le distanze sociali? Se non diamo alle persone una ragione di fondo, ciascuna vorrà andare per la sua strada. Questo è esattamente ciò che è avvenuto negli ultimi 20-30 anni, e possiamo vedere quanto ciò sia stato devastante per l’esistenza stessa di un quadro democratico. Urge ricostruire il principio di solidarietà. Il nazionalismo liberale riconosce che in tutti i tempi questa si è sempre basata su un ethos e su una narrativa comune, che spieghino alle persone la ragione per cui stanno insieme. Certo, ogni volta che si crea un contratto, che si crea un gruppo, qualcuno rimane escluso. Avere un ethos però non significa che dobbiamo rinunciare a prendere in considerazione i diritti e i bisogni di coloro che non sono membri della nazione».
Due esigenze contraddittorie. «Ma dobbiamo trovare un punto di equilibrio. Perché, se si percorre sino in fondo la strada della nazione, si finisce per opprimere le minoranze e perseguire le etnie “diverse”. Ma se ci si dimentica del tutto del nazionalismo, si finisce per rompere il contratto sociale e smarrire il senso di solidarietà. E a farne le spese è la tenuta del sistema stesso, cioè tutti noi».
Dunque il nazionalismo può fornire nella sua visione un sostituto delle tramontate ideologie socialiste, liberali, conservatrici? «Sì. Penso che se si usa il suo potere saggiamente, allora si ottiene l’unico argomento che permette davvero alle persone di sostenere quello sforzo comune massimo che è la costruzione di un sistema di welfare».
Eppure, nel pensiero del suo maestro Isaiah Berlin, il nazionalismo non era visto come un’energia positiva, ma come una forza che «devi conoscere per controllare» perché può diventare pericolosa. «Ed io sono della stessa idea: sostengo che dobbiamo imparare a lavorare con il potere della nazione, col sentimento nazionale, esaltandone quegli aspetti che ci rendono pronti a lavorare l’uno con l’altro, a contribuire al benessere del nostro prossimo».
Ma i migliori interpreti delle pulsioni nazionaliste sono leader estremisti che minacciano la democrazia: Orbán, Trump, Salvini. «Se non proponiamo un approccio liberale progressista al nazionalismo, continueremo a regalare la scena a persone di questo genere che abusano del nazionalismo, portandoci verso la sua interpretazione estrema. Il mio è un appello a tutte le persone che credono nella solidarietà, nella giustizia, nel liberalismo».
C’è ancora posto nella sua visione di nazionalismo liberale per il progetto “post-nazionale” per definizione dell’Unione Europea? «Credo che l’Ue debba reinventarsi, perché ha dimenticato alcuni dei suoi principi: la partecipazione, il sostegno agli Stati membri più deboli, l’equilibrio tra costi e opportunità dell’adesione. Quando intere nazioni sentono di essere state abbandonate, si sentono dominate da altri membri dell’Unione, allora è evidente che questa rischia di crollare. C’è bisogno di riesaminare le grandi idee di fondo e adottare una visuale più cauta: l’Ue era fondamentalmente un’unione di nazioni».
La Repubblica 23.5.2019 (Grazie a Informazione Corretta)