Da una derashà di Rav Sacks
La parashah di Emor si apre con delle norme restrittive per i kohanim, circa la loro possibilità di rendersi impuri. Un sacerdote non può toccare un cadavere o trovarsi sotto lo stesso tetto con esso. Deve evitare il contatto con i morti, all’infuori dei suoi consanguinei. Per il Kohen gadol la norma è ancora più restrittiva. Non può rendersi impuro neanche per un parente stretto. L’unica eccezione a questa legislazione riguarda il met mitzwah, il morto insepolto, che non abbia nessuno che si occupi della sua sepoltura. In tal caso la dignità umana prende il sopravvento sulla purità rituale.
Molte delle norme contenute nel libro di Vaiqrà e nel libro di Bemidbar, ad esempio quella della vacca rossa, che serviva per purificare coloro che fossero entrati in contatto con dei cadaveri, sono molto difficili da capire per noi oggi. Era così anche ai tempi dei chakhamim. Rabban Yochanan ben Zakkai era famoso per avere affermato che non è la morte a contaminare, né l’acqua della vacca rossa a purificare. D. ha emesso un decreto e non hai la facoltà di trasgredirlo.
Sembra che queste norme non abbiano nessuna logica, sono semplicemente delle imposizioni divine. Il contatto con il cadavere, la nascita, la tzara’at; tutti questi fenomeni sono per noi fonte di perplessità. Poi nella parashah di Emor troviamo l’esclusione dal servizio nel Santuario dei sacerdoti con difetti fisici, ciechi, zoppi, deformati, storpi o nani. Perché è così? Eravamo convinti che il Signore guarda a cose differenti rispetto agli uomini. Questi ultimi guardano l’apparenza esteriore, ma il Signore guarda al cuore. Perché la tua apparenza esteriore dovrebbe precluderti la possibilità di prestare servizio come sacerdote nella casa di D.? Eppure, tutto questo ha una suo logica, che dipende dall’idea di santità. D. trascende lo spazio e il tempo, ma ha al contempo creato spazio e tempo, oltre alle creature che li popolano. D. rimane nascosto. Lo stesso termine ebraico che viene usato per designare l’universo, ‘olam, deriva dalla radice di ne’elam, nascosto. Come dicono i mistici, la creazione implica l’idea di tzimtzum, una contrazione da parte della divinità, perché altrimenti né noi, né l’universo potremmo esistere. In ogni punto, l’infinito prenderebbe il sopravvento sul finito.
Tuttavia, se D. rimanesse permanentemente nascosto al mondo fisico, sarebbe come se fosse assente. Dal nostro punto di vista, non ci sarebbero molte differenze fra un D. inconoscibile e uno inesistente. Per questo il Signore ha fissato il santo come punto d’incontro fra eterno e infinito e tempo e spazio. La santità nel tempo è rappresentata dallo Shabbat, nello spazio dal Mishkan e poi dal Bet ha-miqdash. L’eternità divina si trova nel massimo contrasto con la nostra mortalità. Tutto ciò che vive un giorno morirà, tutto ciò che è fisico smetterà di essere. Persino il sole si estinguerà. Nel contatto fra il Tabernacolo-Tempio e ciò che è oltre spazio e tempo è insito un pericolo. Come per la materia e l’antimateria, la combinazione fra fisico e spirituale è potenzialmente esplosivo, e deve essere sorvegliato. Quando si svolgono questi esperimenti, avere la minima contaminazione potrebbe rivelarsi fatale. Lo spazio sacro deve rimanere libero dalla mortalità. Essere impuro non vuol dire avere qualcosa di sbagliato o peccaminoso. L’impurità ci parla della mortalità. Questo vale per la morte, ma anche per la nascita. La tzara’at ci rende consapevoli della nostra corporeità. Lo stesso vale per la deformità. Non c’è nulla di sbagliato in tutto questo, ma tutte queste cose focalizzano la nostra attenzione sul mondo fisico, e sono quindi incompatibili con il Tabernacolo, destinato alla presenza di ciò che fisico non è, che non muore o decade.
Una manifestazione evidente di questo si trova nei primi capitoli del libro di Giobbe. Giobbe perde tutto, il suo bestiame, i suoi figli, ma la sua fede rimane intatta. Il Satan propone allora di sottoporre Giobbe ad una ulteriore prova, coprendo il suo corpo con la lebbra. La logica sembra assurda. Come si può considerare una malattia una prova più dura della perdita dei propri figli? Non lo è, ma quello che il libro intende dirci è che quando il tuo corpo è coperto di pustole è molto difficile pensare alla spiritualità. Non si parla di verità ultime, ma di come è fatta la mente umana. Maimonide dice nella Guida dei perplessi (3,27) che non si può pensare alla verità se si ha fame, sete, non si ha un tetto, o si è malati. Chi è colpito da una malattia, e sa che sta per morire, pur essendo vivo, sente di non far più parte del flusso della vita. Tutti sappiamo che moriremo, ma per lo più ci sentiamo parte della vita e del fluire del tempo, che andrà avanti per sempre.
Platone definisce il tempo un’immagine mobile dell’eternità, La coscienza della morte allontana questa percezione, ci separa dal resto della vita. Questa è la logica dell’impurità. Non ha nulla a che fare con la razionalità, ma dipende dall’emozione. Come diceva Pascal: il cuore ha le sue ragioni, di cui la ragione non sa nulla.
Impurità non vuol dire contaminazione. E’ ciò che ci rende consapevoli della mortalità, del fatto che siamo esseri fisici in un mondo fisico. Molti sistemi ritengono che sulla terra tutto sia mortale. Ciò che è immortale è in paradiso. Per l’ebraismo esiste la santità in questo mondo, anche se soffre delle limitazioni dello spazio e del tempo. Ma la santità deve rimanere isolata. Di qui le norme molto stringenti dello Shabbat e del Mishkan.
Il sacro è il punto di incontro fra cielo e terra, il punto in cui apriamo spazio e tempo all’incontro con la divinità, che è al di là dello spazio e del tempo. E’ ciò che ci consente di sentirci qualcosa che non muore, il punto in cui redimiamo la nostra esistenza dalla contingenza e sappiamo di entrare in contatto con qualcosa più grande di noi.