Addii. È morto il rabbino che ha attraversato il Novecento. Uomo del dialogo, certo, ma anche una personalità che non ha mai rinunciato ad esprimere il suo punto di vista, anche quando affermava cose sgradite ai cattolici e alla sinistra
Iaia Vantaggiato
Con Elio Toaff si chiude il “secolo lungo”. Il secolo che ha contato i morti di due guerre mondiali, che ha visto mortificate le vittime delle leggi razziali, che ha conosciuto le atrocità del nazifascismo e dei campi di sterminio ma anche le speranze della Resistenza e della nascita dello Stato di Israele, uno Stato alla cui esistenza rav Toaff ha sempre tenuto. Un secolo letteralmente passato per il camino al quale però Elio Toaff ha sempre opposto una fiera resistenza. Un grande Maestro, questo è stato, ma soprattutto un gran combattente.
Occhi sempre accesi da una curiosità innata e poi quel sorriso benevolo e accogliente. Il secolo lo attraversava e lui attraversava il secolo accettandone ogni sfida. Se n’è andato sfiorando i cento anni – una settantina meno di Abramo – e come Abramo se n’è andato lasciando aperta la sua finestra sul mondo. Lì, di fronte al Tempio Maggiore di Roma, alla comunità che tanto ha amato e che di un grande amore l’ha ricambiato nonché a chiunque – come lui – avesse avuto voglia di dialogare fuori dagli schemi.
Classe 1915, rav Toaff nasce a Livorno e lì, sotto la guida del padre Alfredo – rabbino della città e grande cabbalista – studia al Collegio rabbinico ma nello stesso tempo frequenta la facoltà di giurisprudenza presso l’Università di Pisa dove si laurea nel ’38. Scuole e università, in quel momento, vengono interdette agli ebrei, ma lui è in regola con gli esami e ce la fa. Per un soffio. E’ il primo soffio della sua vita.
Subito dopo la laurea arriva ad Ancona dove viene nominato rabbino e dove vive dal 1941 al 1943. Non sono anni facili: abiure, paure e gente che scappa. Nelle sinagoghe si prega per la salute della Casa regnante. L’armonia tra la comunità ebraica e lo Stato italiano va tenuta salda. Ma il giovane Elio, non ancora trentenne, non ci sta. E’ una consuetudine che va abolita.
E’ sola la sua prima alzata di testa.
Dopo l’8 settembre, Elio Toaff, sua moglie Lia Luperini e il figlio Ariel scappano in Versilia. Siamo nei pressi e nei giorni di Sant’Anna di Stazzema dove le SS, in poco più di tre ore, massacrano 560 civili. Donne, bambini, anziani. Solo per caso Elio Toaff scampa alla fucilazione per mano nazifascista. E sceglie i monti, la Resistenza, il gruppo di Giustizia e Libertà. Continua ad alzare la testa e a combattere.
Dopo la guerra tutto sembra calmarsi. Dal 1946 al 1951 diviene rabbino capo a Venezia dove, tra l’altro, insegna lingua e letteratura ebraica all’Università di Ca’ Foscari. Un uomo di studio e di riflessione, un Maestro cui ancora un volta affidarsi. Ma Elio Toaff non si ferma neanche stavolta. L’aliyah clandestina, l’immigrazione ebraica in Palestina, continua. Ed è rav Toaff a radunare e nascondere tutti in Laguna. Da lì, è certo, riusciranno a partire. A ricordarlo è Ada Sereni, cognata dell’allora ministro comunista dell’agricoltura Emilio Sereni.
E’ il 1951 quando Elio Toaff approda a Roma. Dopoguerra, comunità ancora impaurita e allo sbando. E lui apre le finestre. Ma fa di più. Comincia a parlare coi cugini d’Oltretevere e diventa quello che giornali e televisioni in queste ore immortalano come l’uomo del dialogo. Ma al momento – siamo nel 1965 – ha parole durissime contro l’enciclica Nostra Aetate: “Io non mi fido”, dice. Ma poi, nel 1986, il papa Giovanni Paolo II esprime il suo desiderio di visitare la Sinagoga di Roma e l’invito viene accolto. Il 13 aprile rav Toaff è lì a riceverlo.
Era davvero un uomo del dialogo, Elio Toaff, ma sapeva essere duro come il ferro, quando necessario. Accade nel giugno 1982, quando nel corso di una manifestazione della Cgil, un gruppo di manifestanti depone una bara di fronte al Tempio di Roma per protestare contro l’invasione del Libano. Rav Toaff scrive una lettera durissima al segretario della Cgil Luciano Lama. La stampa, spaventata, la ignora. Solo il manifesto dà a quella lettera il massimo risalto. Lama risponde con una replica imbarazzata, evasiva. Poi se ne rende conto e scrive una seconda risposta, stavolta senza ombre. Ma Toaff non si fermò neppure di fronte al presidente più amato dagli italiani, Sandro Pertini quando, nel settembre dello stesso 1982, in un attentato fu ucciso – di fronte a quel medesimo Tempio – un bambino di soli due anni, Stefano Gaj Taché. Toaff chiese a Pertini di non partecipare alle esequie: “Non posso garantire la sua sicurezza”. Pertini ci andò lo stesso. Era un combattente anche lui.
Il Manifesto – 21.4.2015