Educata da religiosi cattolici ed ebrei
Vittorio Robiati Bendaud
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola – Ci sono storie passate che sorprendono e che obbligano a pensare, invitando il loro lettore a saperne qualcosa di più, a verificarne l’esattezza e la grandezza. Alcune di queste storie raccontano delle eccezioni o addirittura, forse, delle anomalie. Ambientata nel XVII secolo, nelle terre della Serenissima Repubblica di Venezia, la nostra storia vede coinvolti nobiltà e popolani, rabbini eruditi e clero sapiente, un padre e una figlia, una ragazza intraprendente e la prestigiosa università di Padova. Andrebbe ricordato che, all’epoca, l’università di Padova, legata al potere ecclesiastico, era ancora una delle principali e più celebri sedi universitarie del mondo; che la Serenissima era una potenza economica e militare temuta, fondamentale nella scacchiera mediterranea; che la Chiesa cattolica era impegnata in formidabili battaglie culturali, scientifiche e dottrinali; che gli ebrei, infine, dal 1555, per volere di papa Paolo IV, erano stati rinchiusi nei ghetti, luoghi dell’infamia e dell’esclusione, anche se a Venezia, per altri motivi, il ghetto esisteva già dal 1516.
Nel 1646 nacque Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, una donna che, sin da giovanissima, si rivelò un enfant prodige. Quella dei Cornaro Piscopia, o meglio dei “Cornér”, era un’illustre e blasonata famiglia veneziana di antica origine. Giovan Battista, procuratore della Repubblica Serenissima, si innamorò di una donna del popolo, Zanetta, l’amò e da lei ebbe dei figli, tra cui Elena Lucrezia, che riconobbe suoi. Soltanto successivamente l’amore tra il procuratore veneziano e Zanetta poté essere coronato, non senza difficoltà legate allo status nobiliare di lui, dal matrimonio.
Giovan Battista, uomo colto e fuori dall’ordinario, come testimoniato anche dalle scelte che riguardarono la sua vita affettiva, si accorse presto delle rare doti intellettuali della figlia. Parimenti accadde con il confessore di Elena Lucrezia, Giovan Battista Fabris, che si raccomandò con il padre affinché la giovinetta studiasse. Fu così che il Fabris, egli stesso letterato insigne, divenne il primo insegnante di latino della piccola Cornaro Piscopia. A lui presto si accostò un altro prete, un sacerdote greco, anch’egli uomo di lettere e cultura, originario di Candia, Alvise Gradenigo, che le insegnò il greco antico, mentre per il latino successe al Fabris il canonico di San Marco Giovanni Valier. Agli studi letterari si affiancarono poi quelli scientifici, affidati con ogni probabilità al gesuita piemontese Carlo Maurizio Vota, intellettuale e diplomatico.
La giovane Elena Lucrezia ebbe dunque pieno accesso alla Bibbia in latino e in greco, rendendosi così conto che vi era una lacuna grave nella sua preparazione: le difettava infatti la conoscenza della lingua originale della Rivelazione, l’ebraico. E il buon Giovan Battista Cornaro Piscopia si dovette industriare per far avere alla figlia un maestro che le corrispondesse.
La saga dela famiglia Aboàf
Il Cornaro puntò molto in alto, ma fu, cosa per molti versi incredibile, accontentato. Venne contattato il rabbino Aboàf. A molti italiani, ivi inclusi moltissimi ebrei italiani, il nome di Shemuel Aboàf dice purtroppo poco o niente; a non pochi rabbini ortodossi di tutto il mondo, per converso, è un nome che dice molto.
Quella degli Aboàf (o Aboàv), al pari degli Abravanel, era un’illustre famiglia sefardita, una delle glorie dell’ebraismo ispano-portoghese, la cui storia è, più propriamente, una saga. Una delle ultime grandi opere religiose dell’ebraismo spagnolo, prima dell’espulsione degli ebrei nel 1492, fu lo scritto Menoràth ha-Ma’òr (il Candelabro illuminato, sec. XIV) del rabbino Itzkhàq Aboàv; vi fu un altro Itzkhàq Aboàv, rabbino anch’egli, conosciuto come “l’ultimo genio di Castiglia”, che proprio all’indomani dell’editto di espulsione del 1492 si recò da re João di Portogallo per scongiurarlo di accogliere alcune famiglie di ebrei spagnoli esuli; vi fu poi un noto marrano, tale Immanuel Aboàb, che, ritornato all’ebraismo, divenne un apologeta del suo popolo, fino a tenere un discorso pubblico in difesa degli ebrei nel 1603 a Venezia dinanzi al Doge Marino Grimani; vi fu, infine, il celebre rabbino Itzkhàq Aboàv de Fonseca, che visse tra Amsterdam e Amburgo, che divenne il primo rabbino americano (successivamente al 1641) servendo per un certo periodo la comunità di Recife in Brasile, e che, nel 1656, fu tra i principali firmatari della scomunica al filosofo Barùch Spinoza.
Rav Shemuèl Aboàf, il rabbino con cui studiò Elena Lucrezia, nacque ad Amburgo nel 1616. Giovanissimo si trasferì per volere paterno a Venezia al fine di studiare con il rabbino Davìd Franco. Dal 1650 al 1694, anno della morte, fu rabbino a Venezia, ove insegnò a moltissimi futuri maestri di Israele e ove ricoprì il ruolo di membro del Beth Din (il Tribunale Rabbinico) veneziano. Il Tribunale Rabbinico di Venezia era all’epoca rispettato e temuto in tutto il Mediterraneo e rabbini veneziani erano soliti ricoprire le cattedre rabbiniche di Amsterdam, Londra, New York, Philadelphia. A Shemuèl Aboàf, uomo pio e profondamente devoto, pervenivano quesiti religiosi e rituali dagli ebrei di tutto il mondo, ivi inclusi illustri rabbini, tra i più insigni dei suoi contemporanei. Il figlio, Rav Ya‘aqòv ben Shemuèl Aboàf, pubblicò postuma l’opera responsistica del padre, il celebre Devàr Shemuèl (Venezia 1702), che ancora oggi rappresenta una delle principali fonti della normativa rabbinica per gli ebrei di Italia.
Shemuèl Aboàf inquisì a Venezia assieme al collega Mosheh Zaccuto (mistico e rabbino insigne), Nathàn di Gaza, principale araldo del Sabbatianesimo, un’eresia ebraica dell’epoca, legata al falso messia Shabbetai Zevì, convertitosi all’islam. Al termine del colloquio Nathàn di Gaza fuggì immediatamente dalla Serenissima. Shemuèl Aboàf, infine, per tutta la vita raccolse fondi, specie dalle comunità dell’Europa orientale, per gli ebrei residenti in Terra di Israele, costretti a vivere nella sottomissione e nell’umiliazione.
Stimata in varie accademie
Elena Lucrezia Cornaro Piscopia ebbe modo di studiare a lungo l’ebraico e la Bibbia privatamente con lui, Shemuèl Aboàf, un uomo che oggi sarebbe definito un rabbino “ultra-ortodosso”. Fu probabilmente qualcosa che, da prospettive diverse, sorprese entrambi. Lei, una donna, non-ebrea, colta e devota; lui, un’autorità rabbinica di primo piano, colto e devoto. La sinergia funzionò e i rapporti tra loro pare siano stati sempre buoni e cordiali, di grande stima.
Tutto questo ha dell’incredibile… eppure è storia. E dall’Aboàf la giovane Cornaro apprese anche lo spagnolo, la “lingua franca” degli ebrei sefarditi, normalmente parlata da loro da Amsterdam a Istanbul, da Venezia a Livorno.
Elena Lucrezia, nonostante il parere contrario dei genitori, decise di abbracciare l’ordine benedettino, dato che questa scelta le dava la possibilità di continuare a studiare pur aderendo alla vita religiosa. La Cornaro incontrò il grande maestro anconetano Carlo Rinaldini, matematico e filosofo italiano, amico del Galilei, docente a Pisa prima e a Padova poi, nel 1667. Accolta e stimata in varie accademie (l’Accademia dei ricoverati di Padova, l’Accademia degli infecondi di Roma, l’Accademia degli intronati di Siena e altre), il 25 giugno 1678, ormai trentaduenne, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia fu la prima donna laureata al mondo: un’italiana presso un’università italiana. Per i successivi settant’anni non vennero laureate altre donne a Padova.
La laurea fu in filosofia, in relazione ad alcuni passi di Aristotele, poiché il vescovo si era opposto a laureare una donna in discipline teologiche. Poiché era una donna, peraltro, non le fu concesso l’insegnamento universitario. Pochi anni dopo, nel 1684, ormai provata da una lunga malattia, pianta dalla sua città, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, straordinaria eccezione o anomalia italiana, morì.