Gershom Scholem e la sua Berlino. Einaudi ripubblica i «ricordi giovanili» dello scrittore e studioso che nel 1923 lasciò la Germania per Gerusalemme. Il tema centrale è quello dell’assimilazione
«Negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale — racconta Gershom Scholem all’inizio del suo libro di memorie intitolato Da Berlino a Gerusalemme — Berlino era tutto sommato una città molto tranquilla. Durante i miei primi anni di scuola andavo con la mamma a trovare i nonni a Charlottemburg con il tram a cavalli, partendo da Kupfergraben e attraversando il Tiergarten, che era ancora un vero, grande parco. Solo la metà delle strade era asfaltata, e in molti quartieri, soprattutto nell’est e nel nord, gli omnibus a cavalli strepitavano ancora sul selciato. I primi autobus furono una novità sensazionale, e salire sull’imperiale era un ambito piacere».
La comunità ebraica alla quale appartenevano gli Scholem, una tipica famiglia delle media borghesia di orientamento liberale che, da piccoli e modestissimi inizi, aveva risalito la scala sociale grazie al proprio lavoro — erano proprietari di una tipografia — raggiungendo il benessere, contava all’epoca 144 mila persone. A Berlino esistevano ovunque sinagoghe, scuole e licei ebraici, circoli culturali e politici di ispirazione ebraica, e stava nascendo il sionismo. Ma la pratica religiosa non era particolarmente seguita, mentre l’assimilazione all’elemento tedesco, nonostante il montante antisemitismo, era molto avanti. Un giovane ebreo che non fosse appartenuto alla minoranza fedele ai precetti si trovava, da un lato, di fronte a un progressivo sfaldamento spirituale dell’ebraismo, dall’altro, di fronte a una confusa mescolanza di tradizioni e di costumi, al desiderio della maggioranza degli ebrei di sentirsi parte della nazione germanica.
Il tema dell’assimilazione — al quale Giulio Busi, nella sua postfazione, dedica osservazioni illuminanti — è l’argomento centrale di questo libro imprescindibile per comprendere la tragedia dell’Olocausto. Scholem lo chiama autoinganno: «L’incapacità di giudizio della maggior parte degli ebrei in ciò che li riguardava direttamente, benché fossero altamente capaci di ragionevolezza, discernimento e lungimiranza quando si trattava di altri fenomeni, questa inclinazione all’autoinganno, rappresenta uno degli aspetti più importanti e sciagurati dei rapporti fra ebrei e tedeschi». Gli ebrei volevano essere tedeschi; volevano partecipare alla vita pubblica e a quella politica; volevano — e tra coloro ci fu Martin Buber — combattere in guerra nell’esercito tedesco. I loro collegi, al di là di alcuni elementi del rituale ebraico, erano rigidamente nazionalisti. Nelle famiglie, come in quella di Gershom Scholem, la figura dell’ebreo ortodosso, proveniente in prevalenza dall’Europa orientale, era vista con fastidio. E se qualcuno — per esempio un appartenente al gruppo Jung Juda — proponeva di istituire in una scuola religiosa un corso che comprendesse lo studio dell’ebraico, delle fonti bibliche e del Talmud, il progetto veniva lasciato cadere. «Oggi — scrive Scholem — nessuno mi crederà se dico che, prima della Grande guerra, la numerosa e ricca comunità ebraica di Berlino si rifiutava ostinatamente di permettere l’istituzione di un simile corso».
In quanto al sionismo, il sentimento più diffuso era quello della diffidenza. Basterebbe ricordare che cosa disse in proposito Hermann Cohen, un grande filosofo, veneratissimo, capo della scuola neokantiana di Marburg, autore di un libro intitolato La religione della ragione secondo le fonti dell’ebraismo, a un altro importante studioso, Franz Rosenzweig, traduttore di preghiere e poesie liturgiche, autore di un libro intitolato Stella della redenzione, quando quest’ultimo gli chiese che cosa avesse in fondo contro quel movimento. Come se volesse rivelargli un segreto, Cohen gli sussurrò all’orecchio: «Quei tipi vogliono essere felici!». Secondo lui, come secondo molti altri, quegli uomini che, invece di immergersi nell’ancestrale magia del mondo ebraico, non delimitabile in uno spazio terreno, fondavano colonie e villaggi, perdevano il loro tempo inutilmente.
Per reagire a questa dispersione dell’identità, il giovane Scholem chiede aiuto alla storia. E ai libri. L’esperienza decisiva l’ha avuta una domenica di primavera del 1913: in uno stesso giorno ha imparato a memoria la prima pagina del Talmud e letto un commento al primo capitolo della Genesi. Da quel momento, la sua ansia di imparare l’ebraico, di riappropriarsi della tradizione, di conoscere ogni testo, ogni glossa, ogni commento, non conosce limite. Pur frequentando le lezioni di matematica, e con tale interesse e profitto da ricevere, dopo la laurea, l’offerta di una cattedra universitaria, non smette di leggere, leggere e poi ancora leggere, di trascorrere settimane nelle biblioteche, di scovare libri antichi e preziosi nelle librerie antiquarie. Finché non incontra lo Zohar (Il libro dello splendore), il misticismo ebraico e la qabbalah, nello studio della quale si getta con tutta la passione della scoperta e la furia filologica che non lo abbandonerà mai, diventando ben presto uno dei più grandi conoscitori di quel mondo misterioso e affascinante, fitto di simboli inestricabili, delle combinazioni numeriche più ardite.
Insomma, lui così giovane, scacciato di casa da un padre deluso che non sia messo negli affari, curioso di ogni nuovo incontro «è già Scholem». Un ragazzo che immediatamente diventa amico e sodale di Walter Benjamin; che passeggia nei parchi col mitico Agnon (futuro Premio Nobel), ascoltando da quella tenera voce le sue meravigliose leggende; che parla a tu per tu con Martin Buber; e scrive articoli; fa conferenze nei circoli, dove ad ascoltarlo c’è anche Felice Bauer, la fidanzata di Kafka.
Il ritratto che nella terza età della sua vita fa della Germania ebraica e non ebraica dei primi anni del Novecento quest’uomo famosissimo, inesorabilmente critico e litigioso, autore di libri importantissimi, ma soprattutto di quel capolavoro che è Shabbetay Sevi. Il messia mistico (la storia di un pazzo visionario che alla metà del Diciassettesimo secolo volle persuadere se stesso e gli altri di essere il Messia, e per riscattare l’ultima impurità del male si fece musulmano), ebbene, questo ritratto è stupefacente e grandioso: le università, le biblioteche, i giornali, le riviste, i sionisti e gli antisionisti, la borghesia torpida e un mare di cultura. E un intero popolo, cieco, sull’orlo di un abisso.
Altrettanto grandioso, ma per altri motivi, e per chi sappia leggere fra le sue righe, abbandonando Scholem alla inesausta ostinazione del filologo, nonché del bibliofilo in giro per le botteghe di Mea Sharim, è il capitolo finale del libro — che avremmo voluto più impastato nella bellezza dei luoghi, e più lungo — nel quale, siamo nel 1923, l’autore racconta il suo arrivo e i suoi primi anni nella Terra Promessa e a Gerusalemme. Anche qui ci troviamo in una situazione abbastanza incredibile. Scholem sembra che non «veda» nulla. Non ci descrive neppure una volta la mura della città, il deserto della Giudea, il grano della Galilea, il mare di Jaffa. Il suo interesse è, e continua a essere, uno soltanto: la carta stampata, magari consumata dalle cimici, nella quale può esserci una precisazione fondamentale sulla Parola di Dio. Ma quei contadini — che ci appaiono fra un libro e un altro — piegati a dissodare la terra di Israele, quei mormorii delle preghiere che salgono dalle «case ungheresi», quelle quattro strade fuori delle mura, quell’unico cinema, quella voglia di continuare a esistere in un luogo perenne, sono commoventi. Così come è commovente la descrizione, sempre così asciutta, dell’inaugurazione, nel 1924, dei primi edifici dell’Università di Monte Skopus, oggi una delle più famose del mondo: con Lord Balfour nella luce del tramonto, a pronunciare in piedi l’elogio del popolo ebraico sui gradini dell’anfiteatro che guarda la valle del Giordano.
8 febbraio 2018 (modifica il 8 febbraio 2018 | 22:26)
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