Sarà presentato al Festival internazionale del Film il lavoro di Gianfranco Pannone. Una lunga storia attraverso le testimonianze di tre generazioni. Un ritratto di una comunità che è parte integrante del tessuto economico e culturale della capitale
Alessandra Vitali
RICOTTA e marmellata di visciole, o ricotta e cioccolato. Dipende dai gusti. Pochi a Roma non conoscono la torta del Forno Boccione. Pasticceria kosher piccola e spartana, gestita da un drappello di signore energiche di diverse generazioni. È il profumo della tradizione quello che esce dalla porta a vetri in via del Portico d’Ottavia numero 2. Siamo nel cuore del Ghetto di Roma, voluto a metà Cinquecento da Papa Paolo IV che con la bolla Cum Nimis Absurdum revocò tutti i diritti concessi agli ebrei. E sentenziò la nascita di quel “serraglio” lungo il Tevere.
Con il passare del tempo, da luogo di contenzione il Ghetto è diventato via via baluardo della tradizione, da area malsana fatta di stradine anguste e case senza servizi si è trasformato, grazie a diversi cambiamenti dell’assetto urbano e ristrutturazioni, in una delle zone più belle della capitale; così come, dopo secoli di persecuzioni, gli ebrei romani sono divenuti parte integrante del tessuto economico e culturale della città. Una storia lunga e affascinante che il regista Gianfranco Pannone ha saputo sintetizzare in Ebrei di Roma, il documentario che verrà presentato in occasione del Festival Internazionale del Film di Roma (giovedì 15 novembre alle 20.30 al cinema Barberini, ingresso gratuito), un racconto fatto di immagini e di testimonianze che legano il presente della comunità a un passato fatto di tragedia e di orgoglio.
“Avvicinarmi alla Roma ebraica con Agostino Mellino, che firma con me il soggetto di questo film documentario – spiega Pannone – è stata un’esperienza che mi ha arricchito molto, sono sempre stato affascinato dalla cultura ebraica, tant’è che due anni fa ho dedicato agli ebrei di Roma due cortometraggi. Quella che vorrei offrire è una fotografia di un piccolo grande mondo, miracolosamente vivo”. Un mondo fatto di strade e di vestigia di Roma antica, di famiglie e di cognomi inconfondibili – Sonnino, Sermoneta, Terracina, Limentani – di riti religiosi dentro e fuori dal Tempio Maggiore (la sinagoga, una delle più grandi d’Europa, fulcro della comunità), di memoria, come il ricordo del 16 ottobre del 1943, il sabato nero, quando le SS rastrellarono 1024 persone. Dai campi ne tornarono solo sedici, fra quelle sedici non c’era nessuno dei duecento bambini portati via.
Alle immagini del presente si affiancano quelle del passato con alcuni preziosi documenti dell’Istituto Luce e a fare da collante ci sono i racconti di tre testimoni che rappresentano altrettante generazioni: David, Giovanni, Michela. David Limentani (anni fa braccio destro dell’ex Rabbino Capo Elio Toaff), il più anziano è a capo di un’attività commerciale di cui rappresenta la settima generazione; Giovanni, quarant’anni, ha deciso di investire nel campo dell’enogastronomia ebraica e, come altri suoi coetanei, coltiva un forte sentimento religioso in cui mangiare kosher, cioè conforme alle leggi di Dio, così come rispettare lo shabat e le altre festività ebraiche diventa anche una riscoperta della propria identità. E poi c’è Michela, mamma trentenne, guida turistica del Ghetto: lei accompagna i turisti lungo un itinerario le cui tappe testimoniano le vicende drammatiche dei “giudei de Roma”, dalle persecuzioni dei papi alla Shoah. In tutti e tre, l’orgoglio di rappresentare un pezzo di cultura nel cuore della capitale.
(08 novembre 2012) © RIPRODUZIONE RISERVATA
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