Alessia Di Consiglio-Levi
“Succo איפה a boire?” Ovvero: “Dov’è il succo da bere”? Bisogna adattarsi a questi ed altri miscugli linguistici quando si cresce un bambino poliglotta. Gli olim in generale si dividono in due fazioni: quelli che “Siamo in Israele e si parla ebraico” e quelli che “A casa la nostra lingua, che tanto l’ebraico lo imparano fuori”. Io e mio marito non ci abbiamo nemmeno pensato più di tanto: era scontato, visto che tra di noi parliamo italiano, farlo anche con i nostri figli. Con la prima, E., che ora ha quasi quattro anni e che è rimasta a casa con me un annetto prima di andare al nido, è filato tutto liscio. Anche se ancora non mi spiego perché abbia l’accento milanese del padre e non quello romano mio avendo passato molto più tempo con me, per non parlare della “R” israeliana, nonostante i miei sforzi e l’impegno costante a farle ripetere scioglilingua come “trentatre trentini”, “sopra la panca” ecc..
Con la seconda, K., due anni appena compiuti, nido dai sei mesi con staff e bimbi francofoni, ancora non abbiamo capito in che lingua parla. Sicuramente capisce perfettamente l’italiano, e molti oggetti ce li indica col nome italiano, ma parlando di sé preferisce dire, אני (anì), e non “io”, oppure שלי (shelì) anzichè “mio”. Un grande passo avanti comunque, considerando che fino a pochi mesi fa mugugnava e basta.
Eh sì, ci vuole pazienza. I bambini bi o tri-lingui possono metterci di più a incominciare a parlare rispetto ai loro coetanei. Molti genitori si spaventano, la prendono come un ritardo, si scoraggiano e abbandonano la lingua meno usata. Peccato. Non parlo dei bambini che la seconda lingua la rifiutano, esistono anche quelli e lì c’è poco da fare, ma non è detto che non la recuperino da grandi. Non è vero, secondo Antonella Sorace, direttrice del Bilingualism Matters Center di Edimburgo, che per il cervello del bambino, al contrario di quanto accade per gli adulti, imparare due lingue parallelamente equivalga a uno sforzo e a uno stress che complicano il suo sviluppo. Per i bambini è un processo naturale come camminare. Nel lungo termine, questa “ginnastica” che fa il cervello a passare da una lingua all’altra, spesso si associa a un migliore livello di attenzione e di capacità di multitasking. E sebbene all’inizio il vocabolario di ciascuna lingua sembri essere più limitato, quello complessivo è più ampio. Più vantaggi che svantaggi quindi.
Certo, la contaminazione linguistica è quasi impossibile da evitare. Molti termini in ebraico rendono molto di più il concetto che gli equivalenti in Italiano e viceversa. Infatti E. dice che non è stanca, ma che “אין לה כח” (ein la koach – letteralmente ‘non ha forza’): nessun’altra espressione in italiano o ebraico la soddisfa come questa. Sempre secondo Sorace, questa capacità di esprimere un concetto in modi diversi, comporta vantaggi nelle abilità di lettura e scrittura in età scolastica. Vedrò e vi farò sapere. Nel frattempo, posso dirvi che E. si esprime perfettamente in italiano. Non subendo l’influenza di dialetti o slang e non avendo neanche la tv in casa, il suo italiano è principalmente letterario. Le piacciono moltissimo i libri e leggiamo sempre prima di andare a letto. Leggiamo in italiano, perché in ebraico la lettura della sottoscritta è decisamente lenta e monotona. Insomma, E. parla come un libro. La cosa mi fa ridere e mi esalta allo stesso tempo. Per dire che è triste dice di essere “molto dispiaciuta”, oppure “affaticata” anziché stanca.
La mia esperienza quindi, per ora, è molto positiva. Mi diverte (e mi inorgoglisce) vedere le mie figlie passare da una lingua all’altra, le provoco chiedendo di tradurmi le parole, le incoraggio quando si imbattono in un termine che non conoscono. Consiglio a chiunque abbia la possibilità di insegnare una lingua di non rinunciarci! I frutti si vedranno poi.
Kolt Ha-Italkim – BOLLETTINO DI INFORMAZIONE DEGLI ITALIANI IN ISRAELE Anno XVII n. 69 Dicembre 2017 – Tevet 5778