Carlo Di Stanislao
La risonanza della voce femminile, nella prima metà del Novecento, è in generale molto limitata, e ciò vale ancor più per le donne ebree, penalizzate dall’appartenenza ad una minoranza che di per sé ne condiziona l’emergere sulla scena culturale, che si vedono accomunate alle sorti delle loro contemporanee non ebree dal pregiudizio, tanto infondato quanto radicato, che l’uomo debba essere il solo depositario della vera professionalità.
“La letteratura ebraica al femminile” è stato il titolo di una tre giorni di letture, interventi e commenti da parte di professori ed esperti provenienti da atenei sia italiani che esteri nelle aule dell’Università Statale di Milano, per trattare delle donne, scrittrici, poetesse e anche registe che hanno da sempre animato la letteratura ebraica di tutto il mondo, con vari interventi (ma anche concerti) per accompagnare il pubblico in un viaggio alla scoperta di artiste che, dalle prime attestazioni di poesia in yiddish antico, hanno poi prodotto una vasta letteratura figlia della tragedia della Shoah, portando dall’Oriente alla Germania, dall’Egitto all’Argentina, dall’America all’Andalusia e ancora fino a Cuba, l’Austria, Israele, la sensibilità femminile all’interno dell’ebraismo.
Questo lo scorso anno, con vasto consenso di pubblico e non soltanto ebreo. A luglio, poi, a Roma, sesta edizione Del Festival internazionale di letteratura e cultura ebraica, intitolato “Un paese per giovani” ed ampiamente dedicato alla produzione femmminile di ieri di oggi.
A Padova, dal 29 agosto, infine, prende il via “Ebraicità al femminile. Otto artiste del Novecento”, mostra che evidenzia l’opera e la specificità delle donne artiste italiane appartenenti alle comunità ebraiche, aperta sino al 12 ottobre, negli gli spazi espositivi del Centro Culturale Altinate San Gaetano, con il patrocinio dell’assessorato alla cultura del Comune e sostenuta dalla comunità ebraica della cittadina veneta.
Al centro della mostra, come stella di prima grandezza, l’opera di Antonietta Raphaël, a cui, di recente, la figlia Giulia Maffai (celebre costumista cinematografica) ha dedicato un “medaglione”: “La ragazza col violino”, dal titolo di un suo celebre quadro e ritratto in prosa dell’Italia dal fascismo al dopoguerra, rivisitata attraverso la lente di una famiglia di artisti.
Oltre alla Raphaël, altre sette artiste del Novecento, penalizzate dall’appartenenza ad una minoranza che di per sé ne condiziona l’emergere sulla scena culturale, accomunate alle sorti delle loro contemporanee non ebree dal pregiudizio, tanto infondato quanto radicato, che l’uomo debba essere il solo depositario della vera professionalità; dall’altro, il ruolo che esse hanno ricoperto nell’arco dei secoli in seno all’ebraismo, le porta ad una posizione maggiormente defilata nell’ambito sociale e, viceversa, centrale nella realtà famigliare.
Marina Bakos, che ha curato l’esposizione insieme a Virginia Baradel, sottolinea che la vita e le opere di queste artiste (come ad esempio, oltre alla Raphaël, quella di Adriana Pincherle), in seno alla tradizione ebraica, dimostra che, in ogni caso, il valore della cultura è basilare nella formazione individuale e collettiva. Valga per tutti l’esempio di Margherita Sarfatti, che leggeva i classici romantici nelle lingue originali (Goethe in tedesco, Ruskin in inglese e Stendhal in francese) e all’inizio del ’900 era già apprezzata giornalista d’arte, destinata a diventare regista indiscussa (e mal tollerata dagli apparati politici del regime) della fondamentale stagione del Novecento Italiano. Ricordata come la “scrittrice amante di Mussolini”, nel 1909, divenne direttrice della rubrica d’arte de “l’Avanti” e, nel 1922, fondò, con galleristi e artisti, tra cui Mario Sironi, il “Gruppo del Novecento”.
Iscritta al partito socialista, la Sarfatti conobbe, nel 1912, Benito Mussolini con il quale ebbe, inizialmente, un rapporto conflittuale, progressivamente trasformatosi in un legame affettivo profondo. Nel 1926 ne scrisse la biografia dal titolo “Dux”. Dopo il matrimonio con Elda i rapporti con lui si raffredddarono e fu costretta a lasciare l’Italia a causa delle leggi razziali, per farvi ritorno solo nel 1947 e morirvi nel 1961, lasciando nel suo ultimo libro “Acqua passata” le memorie della sua vita e dei suoi amici con la parola “fascismo” che vi compare una sola volta. Il suo personaggio, mentre cerca di vendere opere d’arte di Leonardo Da Vinci per sovvenzionare la causa fascista di Mussolini ai potenti politici e uomini d’affari americani degli anni trenta, è presente nel bel film, del 2003, “Il prezzo dfella libertà”, ambientato in una New York con un clima culturale in pieno fermento, in cui la censura che incombe e i nuovi capitalisti che non sono disposti a subire facili ironie, costringono Orson Welles a rinunciare alla messa in scena dello scandaloso musical ‘Cradle will rock’, scritto da Marc Blitzstein, perchè sospettato di simpatie comuniste ed il pittore Diego Rivera, che deve decorare, su incarico di Nelson Rockfeller, il Rockfeller Center, a battersi, sostenuto dagli studenti della Accademia dui Belle Arti, per poter completare la sua opera.
Nella formazione della Sarfatti, fondamentali furono i romanzi di Hugo e di Balzac, che le fecero conoscere le ingiustizie economiche e l’oppressione a cui erano soggette le donne e i deboli.
L’incontro con George Bernard Shaw rafforzò queste idee che erano ormai delle convinzioni. Era questa l’epoca in cui scrittori e intellettuali denunciavano apertamente le convenzioni conservatrici trovando in Margherita Sarfatti una decisa sostenitrice. La sua grande intelligenza nonché apertura mentale la portarono a interessarsi anche a scrittori irriverenti come Gabriele D’Annunzio, che ammirava tanto quanto Oscar Wilde. Insieme i due scrittori erano da lei visti come strumenti attraverso il quale “i perfidi anni Novanta tagliavano i ponti con la rigidità puritana del periodo vittoriano”. Arricchita da una formazione così vasta per quantità ma soprattutto per genere, Margherita si trovò però a dover risolvere il conflitto tra la cultura classica, che aveva appreso dai suoi maestri, e le teorie moderne che la sua mente vorace le chiedeva di indagare. Questo contrasto interiore era poi aggravato dall’ambiente famigliare piuttosto religioso. I Grassini erano ebrei ma lei era cresciuta leggendo la Bibbia e i forti legami del padre con il mondo ecclesiastico le avevano mostrato con molta eloquenza le contraddizioni della morale cattolica. Fu a questo punto della sua evoluzione intellettuale che Margherita, ancora diciassettenne, incontrò la causa del femminismo e la teoria del marxismo. Il suo ingresso fra i socialisti italiani avvenne con la pubblicazione di un articolo su una rivista letteraria socialista di Torino. Il pezzo, che sarebbe stato il primo di tanti, era firmato “Marta Grani”. Margherita aveva coniato questo pseudonimo mettendo insieme la prima e l’ultima sillaba del suo nome e del suo cognome. L’accostamento alle idee marxiste era avvenuto grazie ai continui regali: libri e opuscoli socialisti che un suo spasimante le inviava con la speranza di poterla conquistare.
Dopo la pubblicazione dell’articolo, che scatenò l’ira di Amedeo Grassini, la Sarfatti fu accolta nella comunità socialista che subito la ribattezzò la “Vergine rossa” in onore a Louise Michel, femminista che nel 1871 aveva capeggiato la rivolta della Comune di Parigi, primo esperimento di attuazione delle idee socialiste. L’adesione della giovane Grassini alle teorie marxiste lasciava perplessi i suoi maestri che come in passato però, non poterono nulla di fronte alla sua fermezza con la quale seppe trascinare tra le braccia del socialismo anche il futuro marito, Cesare Sarfatti. Di 14 anni più grande di lei, Cesare proveniva da un’ottima famiglia ebrea veneziana il cui cognome derivava da “Zarfatti” ovvero dall’appellativo dati a tutti gli ebrei di origine francese che si erano trasferiti in Italia ai tempi delle persecuzioni di Filippo IV.
I due, con i due figli, si satibilirano a Milano dal 1902 e da allora Margherita cominciò a scrivere per “L’Avanti”.
Ma, in evidente contraddizione con la loro fede socialista, Cesare e lei vivevano in un bell’appartamento di via Brera e sostenevano una vita agiata a cui non mancava nulla, con Margherita e sempre impreziosita da gioielli costosissimi che Anna Kuliscioff, di cui divenne presto amica, non avrebbe mancato di notare, e aggiungiamo, disprezzare. La compagna di Turati apriva il suo salotto agli attivisti del partito, ma non impediva la presenza di intellettuali e artisti dissidenti come Marinetti. Erano questi i momenti che piacevano di più a Margherita la quale avrebbe preso il salotto di Anna Kuliscioff ad esempio. Il rapporto tra le due donne conobbe momenti di grande tensione dovuti alla prepotenza della compagna di Turati ma anche alla pari forza caratteriale della più giovane “Vergine rossa”.
La Sarfatti vestiva abiti di sartoria e gioielli costosi, non aveva mai voluto attenersi alle usanze delle donne del partito che le faceva apparire volutamente sciatte e proletarie, quali per la maggior parte non erano, e questo atteggiamento di Margherita, che sembrava dettato dalla vanità, non piaceva alla Kuliscioff che “sempre inappuntabile, vestita di nero con camicette candidissime” era invece fredda e priva di ogni fronzolo puramente estetico. Questa differenza tra Margherita e le altre femministe rendeva in qualche modo il suo personaggio incompatibile con questo movimento e scopriva una superficialità di adesione alla causa che pur non essendo riconosciuta da tutti i critici dell’intellettuale italiana rimane sicuramente un elemento non trascurabile.
Per tornare alla mostra di Padova, vi si potrà scorgere, di là della comunanza di genere, come gli artisti ebrei del Novecento, che appartengono alle classi medio-alte e alla élite culturale, concepirono oncepiscopono un’arte variamente declinata: alcuni, intrinsecamente latina e mediterranea (volta ad esaltare i miti di una grandezza nazionale), altri, attenta agli sviluppi dell’avanguardia europea, per riaffermare tutta la libertà creativa insita nel liberalismo italiano. Mediando continuamente tra la vita pubblica e la vita privata, tra l’identità religiosa e quella nazionale, essi realizzarono un operato sostanzialmente legato e concorde a quello che andava consolidandosi sulla scena della cultura europea contemporanea.
Fra le artiste in mostra la slava Eva Fisher (nata nel 1920 a Daruvar), doìilplomatasi all’Accademia di Belle Arti di Lione, che fece ritorno a Belgrado in tempo per subire i vandalici bombardamenti nazisti sulla città (1941) senza dichiarazione di guerra. Ebbe così inizio un periodo travagliato fatto di fughe e costellato da privazioni e duri sacrifici. Insieme alla madre e al fratello minore, Eva venne internata nel campo di Vallegrande (Isola di Curzola) sotto amministrazione italiana che non conobbe (Eva è lieta di dirlo) ferocia alla pari di quella nazista. Per una malattia materna ebbe un permesso d’assisterla insieme al fratello, nell’ospedale di Spalato dove ancora ottenne un permesso di trasferirsi a Bologna. Eravamo nel 1943 ed Eva Fischer con i suoi si nascosero nella città sotto il falso nome di Venturi. Ricorda spesso quel tempo infausto ove però la mano dei buoni non si sottraeva al pericolo di dare aiuto e solidarietà ai perseguitati.
Fu determinante allora l’aiuto di Wanda Varotti, Massimo Massei ed altri ancora del Partito d’Azione (Eva è membro ad honorem dell’Associazione Nazionale Partigiani).
A guerra finita Eva Fischer scelse Roma come sua città d’adozione: intenso è l’amore che ella porta a questa città. Entrò immediatamente a far parte del gruppo di artisti di Via Margutta coi quali contrasse indelebili amicizie. Di quel periodo è la sua amicizia e consuetudine con Mafai e Guttuso, Tot, Campigli, Fazzini, Carlo Levi, Capogrossi, Corrado Alvaro e tanti di quella generazione di artisti che avevano maturato idee luminose entro il buio della dittatura.
Intensa fu l’amicizia con De Chirico, Mirko, Sandro Penna e Franco Ferrara allora già brillante direttore d’orchestra; venne così il tempo di lunghe e notturne passeggiate romane anche con Jacopo Recupero, Cagli, Avenali, Giuseppe Berto e Alfonso Gatto nonché Maurice Druon non ancora ministro della cultura francese che andava scrivendo le pagine de “Le grandi famiglie”. Fu in quel tempo che Dalì vide e s’innamorò dei mercati di Eva mentre lo stesso Ehrenburg scrisse sulle “umili e orgogliose biciclette”.
Con Picasso s’incontrarono nella bella casa di Luchino Visconti parlando a lungo d’arte contemporanea e del sussulto intimo che porta alla creatività. Picasso la esortò a progredire nella luce misteriosa delle barche e delle architetture meridionali. Venne così il tempo di Parigi dove Eva abitò a lungo a Saint Germain des Près e cercò di Marc Chagall divenendone amica devota e profonda ammiratrice. Egli le raccontava di sogni colorati nonché del fascino dei racconti biblici.
Zadkine ospitò generosamente Eva ammirandone il coraggio d’una ricerca intensa e costruttiva e il fascino d’una cultura mitteleuropea tutt’altro che trascurabile e in quell’epoca realizzò “paesaggi romani” con le loro trasparenze e lontananze come se il tempo si fosse in qualche modo fermato sulle rovine della Città Eterna.
Dunque venne la volta di Madrid, dove, finalmente esposta nei musei, fu al centro di dibattiti nell’Atelier di Juana Mordò fra l’artista marguttiana e i pittori spagnoli ancora in lotta contro il franchismo. Eva portò loro la testimonianza di un’arte rinata in un mondo libero fatta di tentativi nuovi, magri discutibili ma al cospetto di tutti gli sguardi e tutti i giudizi.
Nel 1990 espose presso il Museo dell’Olocausto “Yad Vashem” di Gerusalemme, di cui alcune opere costituiscono dal 1991 la “Fondazione Eva Fischer” a Kfar Sava, in Israele.
Nel 1992 Ennio Morricone le dedicò un CD di 12 brani, intitolato A Eva Fischer Pittore e nel 2008 Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, le ha conferito l’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica.
Info: ingresso libero; orario: 10-13 / 15-19 chiuso il lunedì
Comune di Padova – Settore Attività Culturali: Tel. 049 8204529 – donolatol@comune.padova.it; http://padovacultura.padovanet.it
Comunità Ebraica di Padova Tel. 049 8751106 – cebra.pd@tin.it
http://www.svagonews.com/2013/08/28/articolo6861