Anna Colombo
Ieri sera a Milano grande festa: si inaugurava il rinnovato mikve di via Guastalla dopo lunga e sofferta ristrutturazione. Erano presenti centinaia di donne per una festa tutta al femminile che ha visto diversi e qualificati interventi con intermezzi di canto e musica. In esclusiva per Kolot siamo riusciti ad ottenere il testo dell’intervento della rebbetzin Anna Arbib Colombo.
Questa sera è Rosh Chodesh Hadar, il capo mese di Hadar in cui cade Purìm e i nostri Maestri hanno insegnato che: Mishenichnàs Hadàr Marbìm Besimchà, da quando inizia il mese di Hadàr si deve aumentare la gioia. Ho quindi pensato di tenere una breve lezione proprio sulla Simkhà, e in particolare sul rapporto che vi è tra la gioia di Purìm e la simkhàt hanissuìn, quella per il matrimonio. Potrebbe sembrare una forzatura ma a mio avviso non lo è. Tutta la storia di Purìm gira attorno a un rapporto matrimoniale. Achashveròsh perde la moglie e sposa Ester, strappata con forza a Mordekhài che secondo la tradizione ne era il marito. E poi Haman, che spinto dal consiglio della moglie prova ad uccidere Mordekhài per poi finire impiccato sulla forca che aveva preparato. Ma il rapporto con Purìm sarà trattato solo alla fine del mio discorso. Per ora, iniziamo un percorso che, attraverso le fonti rabbiniche ci condurrà pian piano al tema della gioia matrimoniale e, diciamolo subito, a quello della famiglia come radice della continuità del popolo ebraico.
La lingua ebraica, o meglio, il lashòn hakòdesh, la lingua della Torà, ci aiuta spesso ad entrare nella profondità dei concetti. Ed è da un vocabolo che vorrei partire: dalla parola Kallà, che significa sposa ma, credo non vi siano esempi simili in altre lingue, significa anche nuora. Un padre e un figlio possono dunque riferirsi alla medesima donna con lo stesso appellativo affettuoso: Kallatì.
Il termine Kallà deriva da un vocabolo forse più noto: Kol, tutto. Kallà significa dunque colei che ti completa e Kallatì, la mia completezza. Un padre non è completo finché non vede il proprio figlio pronto a portare nel futuro la famiglia che egli ha iniziato, e un figlio non è completo finché non trova la sua compagna o, come dirò più avanti, quella parte di sé che gli manca fin dal primo giorno della sua vita.
La Kallà è colei che porta il futuro e la completezza. Detto così potrebbe sembrare un luogo comune se non portassi le fonti ebraiche su cui basare tale pensiero. Al capitolo 23 di Bereshìt la Torà dice: veavrahàm zakèn ba baiamìm vaashèm beràkh et avrahàm bakòl. Abramo era anziano, molto anziano, e Hashèm lo benedisse in tutto. I commentatori discutono che cosa si intenda con questo “bakòl”, il tutto di cui si parla nel versetto. Rashì riporta più di un commento e Rambàn a sua volta commenta il commento di Rashì. Ma questa sera vorrei riportare una spiegazione un po’ particolare. Alcuni affermano che Bakòl, derivi dalla parola Kallà. In tal senso il versetto andrebbe letto in questo modo: Hashèm benedisse Avrahàm decidendo di fargli trovare una Kallà per suo figlio. E tale spiegazione sembra essere il senso più logico del versetto in quanto, come si legge nella Torà, Avrahàm dopo aver ascoltato questa benedizione mandò immediatamente il proprio servitore a cercare una sposa per Itzchàk. Volendo riproporre il passo con le mie parole, potrei forse azzardare questa chiave di lettura: Ad Avrahàm, Hashem aveva dato terre e ricchezze, fama e onore, gli aveva dato un figlio ma tutto questo non era nulla senza una Kallà, senza una nuora che avrebbe permesso al popolo ebraico di esistere.
Quanto deve aver sofferto molti anni dopo Itzkhàk, che dal padre Avrahàm imparò la sacralità della famiglia, quando vide che il proprio figlio Esav si unì a donne idolatre così lontane dal rispetto per la sua tradizione. “Ti voglio benedire perché sto andando verso la morte”, disse a Esav. Itzkhàk sarebbe vissuto ancora per più di sessant’anni, eppure da quel momento sentì di andare verso la morte perché non avrebbe avuto da Esav una kallà. Gli rimaneva ora un solo figlio su cui contare, Iaakòv. Veitèn lekhà et birkàt avrahàm, che Hashèm ti dia la benedizione di Avrahàm, gli disse. Quale benedizione? Ai Maestri sembra chiaro: Hashem aveva benedetto Avrahàm “Bakòl”, con una kallà, con una sposa per suo figlio e con una nuora per se stesso. E subito dopo mandò Iaakòv a cercare una moglie. Il passo di Torà che parla di come Iaakòv cerca il proprio Zivvùg, la propria sposa, è bellissimo, soprattutto se riletto alla luce del commento dei Maestri. Iaakòv, derubato da tutto e padrone di niente si avvia a cercare la suakallà. Ha con se solo la benedizione di Avrahàm, il senso che nella vita si può non aver nulla ma che si ha tutto se si desidera un futuro ebraico. “Iaakòv alzò i suoi piedi e si avviò”, dice il Testo. “Iaakòv correva”, dice Rashì: “Iaakòv ballava”, commentano altri. Fu il primo ebreo a ballare per un matrimonio e da qui la fonte della Halakhà per cui durante un matrimonio si deve ballare. “Come si balla davanti ad una sposa?”, si chiedono i Maestri del Talmud. Non come si canta, non che cosa si dice, ma come si balla? Non avevano altro da chiedere i Maestri sul matrimonio? Torneremo dopo a questa domanda. Per ora ci basti dire che la fonte del ballo matrimoniale è il comportamento di Iaakòv che nell’assoluta povertà sente il desiderio di ballare quando si reca a prendere la sua Kallà. In una parola: vive la Simkhàt Nissuìn, la gioia del matrimonio perché sa che il matrimonio è tutto e il resto non conta.
Iaakòv giunge da suo suocero Lavàn. Lavàn non sa che cos’è una famiglia o meglio lo sa molto bene e sa anche che Iaakòv e il popolo d’Israele può vivere e sperare solo grazie alla famiglia. Ma Lavàn non vuole la vita del popolo ebraico, lo vuole cancellare. Ma come fare? Non c’è che un modo, vietare a Iaakòv di avere una Kallà. Lo raggira. Quando vede che Iaakòv si innamora della figlia lo fa sposare con la seconda. Poi cerca di portargli via i figli. Lavan, diranno i Maestri, sa bene che l’unico modo di impedire il futuro al popolo ebraico è quello di impedirne i matrimoni. Vi ricordate la Hagadà di Pesach quando si dice che Lavan è peggio del faraone?! Il faraone era violento verso i figli degli ebrei, ma Lavan voleva Laakòr et hakol, sradicare tutto il popolo ebraico. Et Hakòl significa tutto. Ma la parola Hakòl non è forse l’anagramma della parola Kallà? Hakòl, il tutto, non è forse la sposa? Il matrimonio? Il futuro e la completezza? Ecco il nemico di Israele. Ecco il pericolo. La perdita del futuro.
Lavàn non riesce nel suo intento; la benedizione che Avrahàm ha trasmesso a Itzkhàk e che questi ha dato a Iaakòv è troppo forte e Iaakòv torna in Eretz Israel con le sue Kallòt, con le spose e con le nuore, con la sua integrità raggiunta e con la certezza del futuro per se e per suo padre.
Ma in Israele lo aspetta un’altra guerra. Lì lo attende suo fratello ‘Esàv che lo vuole uccidere. Il testo della Torà ci racconta che una volta entrato in Eretz Israèl, Iaakov è costretto a lottare contro un angelo che, secondo Rashì, rappresenta l’odio di Esav verso Israele. Iaakòv non sarà sopraffatto ma quell’angelo lo colpirà ad una gamba impedendone il movimento. Rabbì Itzkhàk Hutner, noto tra i Maestri dell’ultima generazione come “il genio di Varsavia” propone un profondo commento a questa lotta. Iaakòv mentre correva a cercare la sua Kallà, il suo futuro, la sua sposa, ballava. Ma per ballare si deve saltare e muovere le gambe in libertà. Esàv riuscì a fermare il ballo di Iaakòv. Lo colpì ad una gamba per dirgli simbolicamente: Se non ti posso battere con le armi, cercherò di farlo in un altro modo. Ti toglierò la gioia del ballo; Ti auguro di non ballare più al matrimonio dei tuoi figli; che essi possano un giorno non capire che solo sulla famiglia e sul rapporto tra marito e moglie si gioca il futuro di Israele.
Vi ricordate la domanda dei Maestri del Talmud? Ketzàd merakedìm lifnè hakallà? Come si balla di fronte ad una Kallà? E’ così importante il ballo? Certo! Ballare al matrimonio significa che Esav non è riuscito nel suo intento. Che la gioia più intima, più profonda si deve esprimere soprattutto durante un matrimonio ebraico in quanto si dimostra di aver capito che quando una coppia si unisce per trasmettere dei valori ebraici ai propri figli tutto Am Israel può contare sul futuro.
Il Talmud in Berakhòt 6b insegna:
Disse Rabbì Chelbò: chi è presente ad un matrimonio e non balla è un trasgressore mentre colui che rallegra gli sposi è come se ricevesse la Torà dal Sinai. Rabbì Abbàu insegna: Chi porta gioia agli sposi è come se offrisse un sacrificio al Santuario. Rabbì Nachman invece dice: E’ come se ricostruisse una parte di Gerusalemme distrutta.
E’ dunque così importante la gioia durante un matrimonio? Certo! Solo colui che non comprende che il matrimonio avvicina la redenzione la ricostruzione non può gioire. Solo chi non comprende che la Torà non è solo quella che si studia nelle aule ma è anche e soprattutto quella che si crea attraverso un matrimonio, quando marito e moglie si uniscono per il loro futuro e per quello del popolo ebraico intero, solo chi non comprende tutto ciò, non è in grado di essere besimkhà durante il matrimonio.
E’ interessante notare che secondo il Maimonide, il contrario di simkhà, di gioia, non è ‘azvùt, tristezza. Alla fine delle regole di Sukkòt, nel suo Mishnè Torà, egli scrive che colui che non riesce a gioire durante la festa è un trasgressore e che per colpa di coloro che non provano felicità nel corso dell’osservanza dei precetti la punizione divina colpisce il mondo poiché è detto nella Torà: “Per la colpa di non aver servito il Signore con gioia sono stato colpito da dolori”. Quale colpa vi è mai in colui che non prova allegria durante l’osservanza di una Mitzvà? Non è forse l’azione quella che conta? Il Rambam è a riguardo molto chiaro: “Sappi che colui che non prova gioia è un egoista, uno che pensa solo a se stesso, e l’egoismo è una grave colpa”. Il contrario di gioia, per il Maimonide, non è dunque la tristezza ma l’egoismo, o meglio, l’egoismo è ciò che porta l’essere umano alla tristezza. Sentirsi completo, credere di non aver bisogno dell’altro ti rende insensibile a tutti e a tutto. Chi non conosce il detto dei Maestri: Chi è ricco? Colui che è contento della sua parte. Ma chi è mai contento di ciò che ha? Siamo dunque tutti poveri? Forse. Ma un bel commento di rav Mordekhài Elon ritiene che i Maestri intendessero dire anche qualcos’altro: ezehu ‘ashìr? Hasamèach bechelkò: Chi è veramente ricco? Ricco è colui che è contento perché si sente solo una parte. Solo chi è convinto di aver bisogno degli altri per essere completato può unirsi agli altri, e solo chi è unito agli altri può raggiungere la felicità, quella vera, quella interiore. Quando vedo due sposi e non riesco a essere felice, quando non ballo per loro e assieme a loro, non vuol dire che sono triste ma egoista. Significa non capire che non solo lo sposo e la sposa stanno trovando la loro parte mancante ma anch’io ho bisogno di loro per la mia continuità e che l’intero popolo d’Israele può sperare nel futuro solo grazie all’unione di un Chatan e di una Kallà.
‘ultima Mishnà di Taanìt racconta che un tempo le ragazze uscivano nel giorno di Kippùr in abiti bianchi e in cerchio, passando accanto ai ragazzi si dichiaravano pronte al matrimonio. Ci si potrebbe giustamente chiedere se il giorno di Kippùr, un momento dedicato alla Teshuvà, sia quello più adatto per proporre matrimoni e fidanzamenti. Solo chi non capisce la sacralità dell’unione matrimoniale può porsi questa domanda. Il 10 di Tishrì, il primo Yom Kippùr della storia d’Israele, il popolo ebraico ricevette da Moshè le seconde tavole ella legge, quelle che non furono spezzate per il peccato del vitello d’oro. Yom Kippùr è il vero giorno del Matan Torà e non vi può essere Torà senza un matrimonio, senza un Chatan, senza una Kallà che lo completa che insieme si prefiggono di rendere concreto il sogno di eternità del popolo ebraico.
I Maestri, tra questi il citato rav Hutner, con un gioco di parole, spiegano che il vocabolo Kippurim, oltre che kippur, significa anche: “come Purim”. Kippur e Purìm sarebbero dunque due festività strettamente legate tra loro. A Kippùr gli ebrei ricevettero laTorà scritta ma nel giorno di Purìm, dopo la salvezza da Haman, l’intero popolo, dice il Talmud nel trattato di Shabbàt, capì che solo attraverso l’accettazione della Torà orale, dello studio, delle Mitzvòt dei Maestri, Israele avrebbe avuto un futuro. Kippur e Purim, la Torà dal cielo e la Torà studiata dall’uomo, la Torà dall’alto e quella dal basso che si uniscono e vengono vissute nella casa per l’eternità d’Israele. Haman, il discendente di Esav, colui che colpì Iaakov per fermarne il ballo e il matrimonio non firmò forse il decreto di morte per Israele con un anello? E l’anello non è forse ciò che lo sposo offre alla sposa nel giorno del matrimonio? La risposta ebraica ai propositi di distruzione è chiara: con un anello, quello del matrimonio, resteremo in vita.
Oggi si inaugura un Mikvè. Molti non capiscono il motivo di questa mizvà. Mi azzardo a fornirne uno.
Duemila anni fa viveva in Eretz Israel il grande Rabbì ‘Akivà. Fino a quarant’anni non studiò. Era povero e viveva assieme alla moglie in un pagliaio. Il Midrash racconta che Hashem chiese ad Elihau Hanavì di scendere nel mondo per aiutare quella coppia di sposi che non aveva nulla. Ed Elihau si presentò alla porta del Pagliaio vestito da povero. Akivà lo vide e gli regalò metà della sua paglia. “Tieni”, gli disse, “Tu sei più povero di me e a me non serve tutta questa paglia”. Elihau l’accettò e se ne tornò in cielo. I Maestri si chiedono in che modo il profeta abbia mai aiutato Akivà. Ci saremmo infatti aspettati ben altro aiuto. Ebbene il Talmud continua il racconto narrando che la moglie di Akivà, dopo aver visto la scena chiese al marito di andare a studiare. Akivà era convinto che non avrebbe appreso gran che, ignorante com’era e non più tanto giovane. Solo la moglie credeva in lui e lo spinse a recarsi alla scuola. Solo lei aveva capito che chi ha un cuore così grande da offrire metà del poco che ha per aiutare l’altro può diventare un vero Maestro. Elihau Hanavì era riuscito nel suo intento. Akivà, grazie alla moglie aveva ritrovato il proprio ebraismo. Era stata la sua Kallà, aveva donato a lui e a noi suoi alunni l’eternità e la completezza. Passarono molti anni. Akivà era ormai il grande Rabbì Akivà. Nessun Maestro era alla sua altezza e i romani lo sapevano. Per questo decisero di ucciderlo. “Continuerò fino alla fine a studiare e a insegnare”, disse ad un ebreo che convinto di salvarsi dai problemi si era allontanato dalla strada della Torà. “La Torà” disse, “è come l’acqua e noi ebrei come dei pesci. Se usciamo dall’acqua allora moriremo veramente”.
Kippùr e Purìm, la Torà scritta e la Torà orale, la Torà dall’alto e la Torà dal basso è paragonata all’acqua. Anche il Mikvè è formato da acqua piovana che scende dal cielo e da acqua che proviene dal basso, che raggiunge la grande vasca grazie al lavoro umano. Nel momento in cui la sposa si immerge nell’acqua del Mikvè, si immerge simbolicamente nella Torà millenaria, entra nella storia di Israele fatta di migliaia di anni di studio e di vita, di miracoli e di incessante lavoro umano. In quel momento la Kallà assume su di se il compito di portare la sua famiglia e il popolo ebraico nel futuro e lentamente fino al tempo della redenzione, quando anche grazie a lei Gerusalemme sarà ricostruita e il nostro popolo si ritroverà assieme in Eretz Israel. Amen.
Anna Arbib Colombo
Per gentile concessione dell’autrice