Milka Ventura Avanzinelli
Bollettino dell’Amicizia ebraico-cristiana di Firenze, n. 1-2, gennaio-giugno 2014
Tre “uscite”
Solo tre volte nella Torà si fa menzione di Dina, la figlia di Lea e di Giacobbe, e sono tre situazioni caratterizzate in vario modo da una “uscita”, anche se quella che non esce, nemmeno nell’episodio più drammatico, è proprio la voce della protagonista. La prima volta è nel capitolo 30 della Genesi, quando se ne annuncia la nascita. La seconda è nel capitolo 34, dove Dina è una ragazzina che esce «per vedere le donne del paese» e viene violentata da Shekhem, principe cananeo di quel paese e suo eponimo. La terza è quando il suo nome figura fra quelli dei figli di Giacobbe che escono dalla terra di Israele per scendere in Egitto (Gen 46,15), al tempo della carestia.
Al tema delle donne che “escono”, nella Bibbia, fu dedicato anni fa un seminario al quale partecipai insieme a un gruppo di psicologhe.[1] Da quello studio riprenderò alcuni spunti, quando affronterò la più dolorosa di queste tre ricorrenze, quella a cui il testo riserva lo spazio più ampio; ma prima vorrei dedicare l’attenzione che merita all’unico, scarno versetto che registra la nascita della sola figlia di Giacobbe/Israele di cui il testo faccia menzione.
La nascita
Il racconto che va da Genesi 29,31 a 30,20 è la storia di una competizione fra due sorelle che si contendono un unico marito a colpi di figli, un ripetersi di scontri, che Rachele definisce «lotte divine». Poi, al v. 21, quando sono ormai nati i sei figli di Lea e i quattro delle concubine, la Torà dice: «E [Lea] partorì una figlia, e le pose nome Dina». Non una parola di più. Nessuna spiegazione per quel nome, nessun “cantico di nascita”,[2] nessun ringraziamento all’Eterno, come era accaduto per tutti i figli nati prima. Ma all’inizio del versetto successivo, proprio accanto al nome di Dina, si legge: «E Dio si ricordò di Rachele, la ascoltò e le aprì la matrice», e da quel ricordo nascerà Giuseppe. Il testo non dice “perché” Dio si ricorda di Rachele; lascia solo intuire “quando”. Ed è su questo “quando” implicito nell’accostamento dei due versetti che nasce la domanda: perché proprio ora Dio “si apre” al dolore di Rachele ed ha compassione della sua matrice serrata? Un midrash racconta che quando Lea si accorse di essere di nuovo incinta ebbe un moto di compassione per la sorella. Conoscendo il disegno divino che assegnava a Giacobbe dodici figli maschi, pensò: «Io ho già sei figli, e le nostre schiave hanno due figli ciascuna. Se anche questo figlio che sta per nascere dovesse essere un maschio mia sorella resterebbe inferiore anche alle schiave, perché non potrebbe dare a Giacobbe più di un figlio».[3] Perciò Lea pregò, e fu esaudita, che il figlio che portava in grembo fosse una femmina: Dina, il cui nome, benché il testo non lo spieghi, richiama il giusto giudizio.[4]
La nascita di Dina segna dunque un momento particolare nella storia della discendenza di Giacobbe: l’uscita da una fase dominata dalla conflittualità fra le donne per il possesso dell’uomo, ed il passaggio a una ritrovata – anche se forse solo provvisoria – solidarietà sororale.[5] Il Midrash si chiede infatti: che cosa ricordò Dio, che lo mosse a compassione verso Rachele? e nello stesso spirito del racconto precedente risponde: ricordò che Rachele aveva avuto pietà di sua sorella, quando Labano l’aveva data con l’inganno a Giacobbe. Rachele, nonostante il suo dolore, le aveva rivelato i segni di riconoscimento concordati con Giacobbe, per evitarle di essere esposta alla vergogna di un rifiuto.[6] Secondo un’altra tradizione, il merito di Rachele era stato quello di mantenere il silenzio, non facendo niente per informare Giacobbe dell’inganno tramato da suo padre.[7]
Tuttavia, benché ai Maestri non sia sfuggito il nesso fra ricordo e compassione, nessuno sembra essersi posto il problema del rapporto profondo che unisce quelle tre donne – Lea, Dina, Rachele – o del significato che questa nascita di una bambina può avere rispetto alla grazia della fecondità concessa finalmente anche a Rachele.
In qualche modo qualcosa matura nelle «lotte divine» fra Lea e Rachele, da cui i nomi dei primi dieci figli di Giacobbe traggono il loro significato: Re’uven e Shim`on (la vista e l’ascolto della sofferenza), Levi (il legame), Yehudà (la lode), Dan (il giudizio), Naftali (la lotta), Gad (la buona sorte), Asher (la felicità), Yissakar (la ricompensa), Zevulun (la dimora). Sono nomi dati dalle donne in ricordo delle potenze e dei sentimenti che in quello scontro hanno preso parte. Forse proprio quell’esporsi senza maschere né dissimulazioni, quel lasciarsi attraversare dalla potenza dei propri sentimenti, anche di quelli meno nobili, provoca, alla fine, la nascita di un principio mediatore.
Se consideriamo le due donne in un’ottica intrapsichica e le guardiamo come figure interiori, si può forse dire che finché la sposa-amante e la moglie-madre rimangono scisse, la loro vita è dilaniata da una lotta che si origina in un intollerabile senso di mancanza. Sia Lia che Rachele sembrano agire come chi è separato da una parte essenziale di sé, e la sofferenza indotta da questa privazione è forse all’origine della volontà di prevalere su colei che è sentita come rivale perché vive la propria vita mancante. Ma dopo la nascita di Dina non si parla più di lotte fra le due sorelle, come se questo “femminile nuovo” generatosi nello scatenarsi delle passioni operasse una riconciliazione fra due figure contrapposte, che tuttavia la Torà vuole unite nel vincolo coniugale con uno stesso uomo (un vincolo che sarà proibito dalla normativa sinaitica ed ha quindi quel carattere di eccezionalità che invita all’interpretazione simbolica). Il termine wayyizkòr (ricordò), con cui si annuncia l’intervento divino che opererà quella riconciliazione, è posto accanto al nome di Dina,[8] come se il ritorno di un Dio che ascolta e ricorda fosse preparato da questa nascita che nessuno commenta: un evento silenzioso che chiede silenzio, quasi una pausa di riflessione in attesa di un verdetto. È nello spazio vuoto fra il nome di Dina e il ricordo divino che qualcosa accade: la venuta silenziosa di Dina ha aperto un varco e una via d’uscita: il gesto divino che aveva dato inizio al racconto, rendendo Lea fertile e Rachele sterile (29,31), ritorna ora, commosso, a rendere giustizia. Ritorna dopo la nascita di una bambina, figlia di Lea ma forse simile a Rachele, se come lei susciterà la passione di un principe. Una nascita che questa volta non segna un accrescimento di prestigio o di potere; segna invece, forse, l’accoglienza di una vulnerabilità in cui le due donne possono riconoscersi entrambe, e grazie alla quale Rachele può sentire sciogliere in sé i nodi della chiusura che la rendeva sterile e trovare la compassione divina (rachamìm) che le apre il grembo (réchem).
È la nascita della bambina che ricongiunge le due donne in una nuova coscienza della propria identità femminile e nella consapevolezza della sua tragicità.[9]
La violenza
I toni della tragedia risuonano in tutta la loro drammaticità nell’episodio più ampio che la Torà dedica a Dina. È la storia ben nota della violenza che Dina subisce da parte di Shekhem, principe cananeo figlio di Chamor, una violenza che verrà atrocemente vendicata dai fratelli materni di Dina con l’uccisione di tutti i maschi della città e con una indiscriminata razzia.
Per affrontare questo tema scabroso, proverò a soffermarmi su alcuni termini, impiegati nel racconto, e in particolare su due forme verbali derivate entrambe da una radice `-N-H, il cui primo significato è “rispondere”, usato nel testo per definire la reazione dei fratelli che «risposero (wayya`anù) con inganno» (v. 13), ma che fra i suoi molti significati comprende anche quello del “tormento” e della “afflizione”, che si ritrova nel testo nella forma intensiva `inné usata per descrivere l’ultimo atto della violenza di Shekhem. Senza voler risalire alle possibili diverse etimologie semitiche, seguirò invece il metodo del Midrash, che procede per assonanze, associazioni ed analogie e suggerisce qui una problematica relativa alla “risposta” che l’uscita di Dina suscita.
Ma prima ancora è necessario sottolineare, ancora una volta, che Dina, nella migliore tradizione delle donne bibliche, “esce”, come era uscita sua madre incontro a Giacobbe – «tale madre tale figlia», commentano poco benevolmente i rabbini – e come uscivano le donne per andare ai pozzi, dove a volte incontravano i loro sposi; come uscirà Tamar per sedurre Giuda, riscattandosi da una proiezione collettiva di morte per riaffermare il suo diritto alla generatività e alla vita; come uscirà Miriam lungo le sponde del Nilo, per vegliare sulla sorte del fratello; come uscirà Rut, verso una terra che promette nuova vita e una discendenza salvifica; come uscirà Ya`el (e poi Giuditta) per fiaccare il nemico; come uscirà Avigail incontro a David, per scongiurare un massacro; come usciranno le figlie di Gerusalemme per festeggiare il ritorno dell’Arca o il matrimonio della Sulammita; come uscirà Ester, mettendo a rischio la propria vita per salvare il suo popolo dallo sterminio… e l’elenco potrebbe continuare.
Nonostante la dominante tradizione rabbinica che legge il Salmo 45,14 come una raccomandazione per le donne a restare “nelle stanze interne”,[10] è innegabile che le donne bibliche “escono” e, quando escono, spesso risultano disturbanti, eccessive, stravaganti, se non addirittura colpevoli. Ma il più delle volte la loro uscita, alla fine, risulta benedetta. Non è il caso di Dina, purtroppo.
Dina esce dalle tende paterne per andare incontro all’altro, al nuovo, al simile. Non è altro che una ragazzina sola che cerca delle compagne: così ce la presenta il testo, che non esprime giudizi sulla sua uscita; ma diventa, nell’immaginazione rabbinica, una «girellona», una che se le va a cercare, una che si lascia affascinare dai rituali pagani delle donne del paese.[11] Tutto il male che succede dopo è solo colpa sua e del fatto che non è rimasta “nelle tende”.[12] E questa non è che una delle “risposte” impietose che la sua uscita suscita:
Dina esce «per vedere le giovani donne del paese» e trova una non richiesta risposta – violenta – del maschile al potere (il principe) e una altrettanto non richiesta e ancor più violenta risposta del maschile familiare (i fratelli).
Ma proviamo ad analizzare più da vicino la “risposta” di Shekhem. Non certo per giustificare il suo agire, ma per “distinguere” fra questo e gli altri due episodi in cui la Bibbia racconta di uno stupro.[13] Se riprendiamo lo spunto suggerito dall’affinità delle due forme verbali usate per “rispondere” e “tormentare”, possiamo ipotizzare che il gesto prevaricatore che reca offesa a Dina possa essere interpretato come un “eccesso di risposta” da parte di Shekhem, più che uno spregio. Una risposta che è non solo eccessiva ma anche “prematura”, se guardiamo all’etimo del nome Shekhem, che ha il significato di “alzarsi presto, cominciare presto, fare qualcosa precocemente”. Forse Shekhem non ha saputo – o voluto – aspettare il momento giusto. Non ha saputo ascoltare l’implorazione che la Shulammita del Cantico rivolge a nome di tutte le donne: «Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e le cerve dei campi, non risvegliate, non destate l’amore, finché non voglia» (Ct 2,7; 3,5).
Ci sono altri indizi, nel testo, che impongono cautela nel considerare l’agire di Shekhem un gesto di spregio. La scelta dei termini per descrivere l’affronto che Shekhem fa a Dina non è casuale. Innanzitutto è significativo che il narratore non usi qui il verbo letamme’ (contaminare): l’idea che Dina sia stata “contaminata” è solo nel resoconto che arriva agli orecchi di Giacobbe e nella consapevolezza che ne hanno i fratelli. Il narratore biblico usa invece altri verbi, tutti seguiti da un complemento oggetto femminile: «la vide (wayyàr’ otàh) … la prese (wayyiqqàch otàh), giacque [con] lei (wayyishkàv otàh) e la tormentò (waye`annéha)». Se escludiamo l’atto del “vedere”, che appartiene allo stico precedente e non implica volontà offensiva, si può notare un crescendo di gravità che percorre tre stadi:[14]
1) Dina viene presa;
2) viene posseduta contro il suo volere, dato che si usa l’accusativo otàh e non la preposizione `imàh;[15]
3) e infine viene “tormentata”, o “umiliata”, “oppressa”. Il verbo è lo stesso che Esodo 1,11 usa per descrivere l’oppressione esercitata dagli egiziani sui servi ebrei e in vari casi indica lo stupro.[16]
È come se il narratore volesse far capire che Shekhem va oltre ogni limite, ed è per questa prevaricazione del limite che un incontro che avrebbe potuto essere l’inizio di una relazione diventa invece portatore di distruttività e di morte. L’atteggiamento abusante di Shekhem è responsabile del gesto empio che distrugge il principio di relazione di cui Dina è portatrice. In altri termini la violenza di Shekhem aliena gli aspetti benefici dell’archetipo femminile, facendo scomparire per primo il lato “gentile”, “curioso”, “aperto”, della “fanciulla”. Subito dopo anche un secondo aspetto viene meno, quello della “nutrice”: dice infatti il testo che, dopo l’episodio di Shekhem, «morì Debora, nutrice di Rebecca». Rimane così spazio solo per la componente distruttiva e vendicatrice. Tutto l’episodio di Shekhem, prima con lo stupro di Dina e poi con la violenza dei fratelli, è la storia di una presenza femminile morente, una storia che provoca l’uscita di scena di quattro generazioni di donne: Dina scompare, Debora muore e insieme a lei muore Rebecca (secondo il Midrash),[17] Rachele morirà di parto di lì a poco, come a marcare una fase in cui la storia di Israele è segnata dalla mancanza di una presenza femminile significativa.
Il racconto biblico lascia pensare che ci sia bisogno di un lungo periodo di sofferenza prima che le donne ritornino “importanti”: dopo l’episodio di Dina c’è la storia di Giuseppe venduto dai fratelli e portato in Egitto. Se si esclude la pericope di Tamar – che merita una trattazione a sé e che comunque lascia in sospeso la sua valenza per la storia d’Israele – ci si accorge che è solo nel momento della carestia e dell’esilio che si ritorna a parlare delle donne come protagoniste del racconto: le levatrici Shifrà e Pu`à, Iocheved e Miriam, la figlia del faraone. È nel vuoto dell’esilio che l’aspetto salvifico e nutritore riprende vita. Così come sarà dopo la carestia e le morti degli uomini che si parlerà di Rut e Naomi, e sarà dopo il peccato, la sconfitta e l’esilio di Israele che si racconterà la storia di Ester.
Sembra che ci sia bisogno di una sconfitta che spodesta la coscienza dominante maschile, perché la donna possa esprimere la sua essenza. Bisogna andare in esilio perché le donne – spesso le straniere – riprendano l’iniziativa e si facciano carico del loro ruolo.
In questa chiave di lettura Dina rappresenta un’eccezione. Di solito le donne “escono” in primo piano in una situazione di crisi: Ester, Rut, Giuditta. Perfino l’episodio di Tamar si colloca in un momento di crisi in cui Giuda si è allontanato dai suoi fratelli. Quando Dina esce, invece, tutto sembrerebbe andare bene: Giacobbe è arrivato sano e salvo a Shekhem e ha teso i suoi accampamenti “al di fuori” della città. Sembra quasi che Dina esca da questo “stare al di fuori” (in ebraico: di faccia).[18] Al di là delle interpretazioni che vedono in questo episodio una storia simile a quella di Elena di Troia, dove si prende a pretesto un oltraggio fatto a una donna per mettere a sacco una città che il proprio percorso impone di conquistare,[19] o vi individuano le tracce di un «conflitto preistorico» nella storia tribale del primo Israele,[20] dietro l’uso storico c’è sicuramente un substrato mitico, che forse traspare proprio da quella motivazione che spinge Dina “fuori” in direzione di un “dentro”. Dina, come la pastorella del Cantico, è «colei che cerca (ha-mevaqqéshet)», ma non cerca l’amato perduto; Dina cerca qualcosa che non trova: «le donne del paese». Questo movimento di andare dentro la città per vedere le donne, può avere più di un significato. Ne possiamo individuare almeno due:
1) la ricerca di una “interiorità” introvabile in una situazione dove sembra mancare un temenos femminile: Israele è accampato “al di fuori”, Dina ha solo fratelli maschi, Rachele si augura di partorire un altro maschio.
2) il desiderio femminile di allacciare relazioni e di entrare in rapporto con la terra attraverso le donne che la abitano.
Se seguiamo il primo filo, che si riallaccia a quel versetto dei Salmi in cui si dice «tutta la gloria della figlia del re è all’interno» e lo leggiamo nel senso di una necessaria valorizzazione dell’interiorità in uno spazio femminile significativo, viene da pensare che forse Dina paga per prima il prezzo della “menomazione” di Giacobbe: forse l’integrità conquistata nella lotta con l’angelo[21] lo ha alienato dal rapporto terreno con le donne ed ha reso difficile il realizzarsi in pienezza della loro identità femminile. La “sciancatura” di Giacobbe,[22] dovuta al colpo al nervo sciatico (gid-ha-nashé, un nome che richiama le donne, nashìm),[23] può essere vista anche come alienazione della capacità “virile” che causa il suo silenzio e gli impedisce di agire in prima persona in difesa della figlia. Giacobbe, infatti, «tacque» in attesa del ritorno dei figli dai campi.[24] È così imbarazzante questa inerzia di Giacobbe, che il Midrash cerca di correggerla, raccontando che mandò alla tenda di Shekhem prima dodici servi, perché la riportassero a casa, poi due ragazze per esserle di conforto.[25] Ma nel testo non c’è traccia di queste premure paterne. Quella di Dina è un’uscita non protetta,[26] una sortita adolescenziale, una fuga dalle tende paterne che la espone senza difese al potere dominante all’esterno – potere maschile, violento, basato sul possesso: Shekhem la prende, i fratelli la ri-prendono. Non credo si possa dire che è un’uscita inconsapevole, semmai c’è una consapevolezza immatura, che manca di senso della realtà, e c’è una letteralizzazione dell’interiorità: dentro la città non c’è il temenos che lei cerca, ma c’è lo stesso universo maschile che nella famiglia di Giacobbe. Dina cerca forse una solidarietà fra giovani donne, ma cerca delle donne che non possono risponderle; le cerca in una realtà dove le donne non hanno voce, o dove la loro voce non viene ascoltata. Il mondo cananeo non è migliore di quello delle tende da cui è fuggita e in cui non verrà ascoltata nemmeno la voce di Rachele, quando, prima di morire, darà a suo figlio un nome che gli verrà cambiato dal padre, incapace di capire il senso profondo di quell’ultimo atto d’amore.[27]
La stessa Dina è una voce assente, e il suo silenzio è un vuoto che il testo biblico evidenzia in tutta la sua drammaticità, un vuoto che va ascoltato come tale, senza cercare di riempirlo: è il simbolo dell’anima ammutolita. È passato il tempo in cui Dio diceva ad Abramo «Ascolta la voce di Sara», come a voler dire che lei conosce la Sua volontà. Ora non si è più capaci di ascoltare la voce delle donne, né si è capaci di rispondere: il vuoto, il silenzio si dilatano fino a coinvolgere Giacobbe, che non ha parole e serba tutto dentro.
Allora, oltre a segnare una fase di “mancanza” di una presenza femminile, l’episodio di Dina sembra voler essere una denuncia dell’incapacità di ascolto della “voce” femminile da parte della società circostante: la tribù di Giacobbe e quella di Chamor. (Non è un caso che il rito di purificazione che segue l’episodio della violenza richieda non solo di sbarazzarsi degli «dei alieni che sono nelle loro mani», ma anche «dei pendenti che sono sui loro orecchi», ornamenti tipicamente femminili). È un’incapacità di ascolto che – come si è accennato – si perpetua nel Targum palestinese e in tanta esegesi rabbinica, quando i commentatori distorcono il desiderio che Dina ha di “vedere” in una voglia di “essere vista”[28] e la definiscono una yetzenìt,[29] una ragazza troppo estroversa.[30] Secondo questa ottica Dina ha la colpa di non vergognarsi, e per questo, nell’ottica maschile, deve essere punita. Ma in questo modo è proprio l’uomo che perde la donna, come riconosce Giacobbe quando, nel raccontare a Giuseppe il momento più doloroso della sua vita, che segue dappresso quegli avvenimenti (Gen 35,17-18), gli dice: «mèta `alày Rachèl – morì per me Rachele» (Gen 48,7).
Il tentativo di riparazione
Abbiamo visto che il testo, pur senza tacere la violenza perpetrata su una ragazzina indifesa, tuttavia non descrive l’agire di Shekhem come un gesto di spregio, ma lo presenta come un “eccesso di risposta istintuale” e dice poi che Shekhem s’innamora di Dina e la “rassicura”, usando un’espressione – dibbèr `al lev, letteralmente “parlò sul cuore” (della fanciulla) – che può significare convincere, consolare, rincuorare[31] e che qui può implicare sia il tentativo di consolarla dal trauma subìto sia la volontà di rassicurarla dal senso di colpa e dalla paura della punizione sia il tentativo di convincerla ad accettare le sue profferte di amore.[32]
Ben diversa sarà la reazione di Amnon, che violenta la sorella entro le mura domestiche, una sorella che non tace, ma non viene ascoltata: per Amnon viene prima l’“amore”– che è in realtà solo brama di possesso, una passione malata[33]– e i tre verbi dello stupro non sono tutti gli stessi: wayyechezàq mimmènna (la prese con la forza, o fu più forte di lei), waye`annéha (la tormentò, o le fece violenza), wayyishkàv otàh (giacque [con] lei). È detto chiaramente che Amnon fa uso della forza e, soprattutto, è alterato l’ordine delle azioni: qui l’offesa non è ciò che va oltre il limite del trasporto istintuale, è addirittura precedente al rapporto, è l’oltraggio premeditato contro la donna che chiede espressamente di essere rispettata. E infatti, dopo la violenza, Amnon non si attacca a Tamar, non la consola, ma concepisce verso di lei un odio feroce e la caccia fuori (2Sam 13,1-22). La storia di Dina e Shekhem parla un altro linguaggio.[34] Anche se ha suscitato una risposta violenta e inadeguata, l’uscita di Dina ha in qualche modo costellato il sentimento, e attraverso la funzione del sentimento quel tipo di violenza istintuale può trasformarsi, anche se a fatica, in una reciproca presa di coscienza e consentire alla vittima di elaborare la sua ferita e curarla. Il tentativo di riparazione di Shekhem è nettamente maschile e prevaricante, poiché tende al possesso e pretende di poter comprare quello che niente può comprare: “colei che cerca”. Tuttavia ci sono anche i segni di una diversa coscienza nell’uomo (chiamato “ragazzo” in 34,9) che ha perpetrato l’offesa: l’offerta di un “dipiù”, la prontezza del giovane che non indugia (lo’-echàr) a compiere quanto gli è stato richiesto, sono i segni di una coscienza del proprio torto e di un attaccamento alla fanciulla reale.[35] L’aggadà non manca di sottolineare che i verbi usati per definire l’innamoramento di Shekhem – «si attaccò … amò … la rassicurò» – sono gli stessi usati per l’amore che lega Israele a Dio e viceversa.[36]
La violenza dell’uomo nell’atto sessuale è spesso volontà di punire la donna per aver scatenato in lui un aspetto istintuale prevaricante, tentativo di rigettarlo violentemente fuori di sé proiettandolo sulla donna; affinché l’operazione sia efficace è necessario presupporre da parte della donna quell’animalità perversa che si vuole espellere da sé. Ma Shekhem non si giustifica accusando Dina di averlo provocato. Al padre chiede: «Prendimi questa bambina (ha-yaldà)» e in questo modo, riconoscendo Dina come “bambina”, forse si fa coscientemente carico della propria violenza. Allora, forse, ciò che rende irreparabile l’offesa che Dina ha subìto è proprio la risposta dei fratelli, che non si curano di chiederle che cosa davvero desideri, ma agiscono con lei da padroni, preoccupati più del proprio onore che non del bene della sorella:[37] dopo avere ingannato Shekhem, suo padre e i sichemiti con la falsa promessa di una unione dei due popoli in cambio della circoncisione di tutti i maschi, approfittano della loro invalidità per uccidere tutti gli uomini (commettendo un vero e proprio chillùl ha-berìt, una profanazione del patto), depredare la città e riprendersi la loro sorella.
Perfino Giacobbe, preoccupato delle conseguenze che quella violenza potrebbe scatenare contro di lui e la sua famiglia, non approva il loro operato. Le sue parole possono essere lette come un segno di codardia, ma la sua condanna verso chi gli ha precluso un rapporto di pacifica e leale convivenza con gli abitanti del paese è sincera e sarà ribadita al momento della morte, quando, pronunciando le sue benedizioni ai figli (maschi), condannerà loro agire violento:
Simeone e Levi sono fratelli: le loro spade sono strumenti di violenza. Non entri l’anima mia nel loro consiglio, non si unisca la mia gloria alla loro adunanza! Poiché nella loro ira hanno ucciso degli uomini, e nella loro arbitrarietà hanno tagliato i garretti ai tori. Maledetta la loro ira, perché è stata violenta, e il loro furore perché è stato crudele! Io li dividerò in Giacobbe e li disperderò in Israele. (Gen 49,5-7)
Simeone e Levi dovranno rinunciare ai loro diritti primogenitura a favore di Giuda e saranno privati di una loro eredità nella terra: Simeone sarà assorbito da Giuda e non comparirà più come tribù a sé già nelle benedizioni di Mosè in Dt 33; Levi, capostipite della stirpe sacerdotale, dipenderà dalle altre tribù. Benché sia ormai difficile da rintracciare e in alcuni casi apertamente contestata,[38] sono evidenti le tracce di una tradizione critica, sull’agire di Simeone e Levi, che va dai versetti citati sopra a un passo di Osea – dove si legge: «Come orde in agguato, gruppi di sacerdoti assassinano sulla strada di Shekhem, commettendo delitti abominevoli. Fra la gente d’Israele ho veduto azioni immonde e in Efraim prostituzione. Israele è impuro!» (Os 6,9-10) – fino al commento medioevale di Rashi, per la quale chi davvero si contamina è proprio Israele, e Giacobbe rimprovera i figli dicendo: «il vino nel vaso era chiaro, e voi lo avete intorbidito».[39] Parallela a questa c’è invece l’altra tradizione, forse maggioritaria, riportata a nome di Rabbi Yehudà bar Shim`on, che tende a giustificare l’azione dei fratelli.[40]
Lo stupro è sempre una nevalà, una cosa indegna, scellerata, un sacrilegio, un crimine odioso contro la donna e contro la sua sessualità; ma, forse, quando l’offesa non è deliberata il danno può non essere irreparabile e il sentimento può essere costellato, perché non è distrutto il principio di relazione. Forse – e tutti questi forse sono d’obbligo in un tema così delicato che per secoli ha visto le donne vittime e colpevolizzate – se l’uomo prende coscienza della propria violenza, la donna può riconoscere e accettare la peculiare diversità dell’altro. E può anche superare l’inevitabile senso di colpa che le viene dalla paura di aver provocato l’aggressione e riconciliarsi con la propria trasgressività. In una uscita come quella di Dina sono presenti molte fantasie, anche se a livello inconscio. Come nella Shulammita del Cantico che esce per le strade, di notte, a cercare il suo amato (e trova le guardie che abusano di lei), forse anche in Dina agisce la fantasia di un amato che sappia schiudere le porte del giardino serrato e liberare l’onda reclusa della sua femminilità che sta sbocciando. Allora, forse, in questo caso, c’è una possibilità di “riparazione” – mentre non c’è nel caso di Amnon e Tamar, dove l’offesa è addirittura precedente all’atto dello stupro e la violenza, premeditata, agisce l’ombra in tutta la sua distruttività e può produrre soltanto odio e repulsione da entrambe le parti.
Così come Shekhem, innamorandosi di Dina, prende coscienza della sua prevaricazione, Dina può prendere coscienza del proprio desiderio, della sua inconsapevole volontà di suscitare il desiderio dell’altro che può renderla “pozzo d’acqua viva”. In questo senso la “ricerca delle donne” da parte di una Dina non ancora donna[41] può essere letta come ricerca di coloro che sanno suscitare il desiderio; prenderne coscienza potrebbe aiutare Dina a curare la sua ferita e a recuperare la sua sessualità violentata.
Dina, “figlia” dei suoi fratelli
So che molte femministe si scandalizzerebbero di questa mia lettura,[42] ma ho sempre sentito, nella storia di Dina, il dolore della doppia violenza che ha subito. Anche a distanza di anni, continuo a pensare che in fondo i fratelli abbiano voluto punire la sua uscita e che il burrascoso incontro con Shekhem avrebbe potuto avere un esito meno drammatico, anche per lei. Non voglio dire che il matrimonio sarebbe stato una “riparazione” accettabile, ma che una trattativa condotta da un padre premuroso avrebbe potuto tenere conto dei desideri e dei sentimenti di Dina, qualunque essi fossero. Invece Giacobbe è una figura paterna “carente” – e questo corrisponde, a livello interiore, a una carenza di funzione paterna che espone la “fanciulla che esce” a un inevitabile abuso. È un padre che non si assume la responsabilità di comporre la situazione nel modo più “riparativo” per la figlia e lascia spazio allo scatenarsi della violenza vendicativa dei fratelli. Nei due fratelli matrilineari di Dina – Simeone e Levi – possiamo forse vedere l’ombra devastante di un archetipo materno di cui può essere costellato solo il lato distruttivo. Simeone e Levi sono figli di una madre deprivata della sua componente erotica, che attraverso i figli ristabilisce lo stesso ordine edipico che forse ha impedito a Giacobbe di assumere fino in fondo il ruolo di padre ed ha impedito a Lea la congiunzione con la controparte maschile; quell’ordine edipico, dove i figli si sostituiscono al padre, che è evidente nella frase che Chamor rivolge ai fratelli – non al padre – di Dina nel v. 8, «Mio figlio desidera la vostra figlia», e in quella dei fratelli al v. 17: «prenderemo la nostra figlia e ce ne andremo».
La madre reale di Dina – Lea, la moglie non amata – è assente dal racconto di Gen 34: il narratore si limita ad evocarla una sola volta, proprio all’inizio, quando dice «E uscì Dina, figlia di Lea che l’aveva partorita a Giacobbe».[43] Mi chiedo se questo non significhi che Dina esce proprio da quell’essere figlia di Lea, della donna disprezzata che non ha saputo suscitare la passione dello sposo e che ha dovuto ridurre la sua sessualità a mera funzione riproduttiva, la donna che anche dopo la morte di Rachele verrà disdegnata da Giacobbe, il quale – secondo il Midrash – le preferirà Bilhà, la schiava di Rachele.[44]
Dicevo prima che Dina è figlia di Lea, ma forse è più vicina a Rachele, ed è a Rachele che Dina vuole assomigliare quando sente avvicinarsi il momento della sua fioritura. Allora, come Rachele che andava ad abbeverare il gregge, anche Dina esce dalle tende, esce per liberarsi da una madre forse in difficoltà con questa figlia che si fa donna e comincia a suscitare su di sé il desiderio dell’uomo. Esce alla ricerca di altre donne, forse per condividere la loro danza e l’orgoglio del corpo esibito,[45] per liberarsi da questa immagine materna che la imprigiona. Ma la violenza di Shekhem, il suo non sapere aspettare il momento giusto, fa terra bruciata di quell’aurorale fiducia in una femminilità diversa. La risposta inadeguata di Shekhem riporta Dina sotto il controllo della Madre negativa interna, riconsegnandola nelle mani dei fratelli materni per una vendetta che non punisce solo il suo violentatore ma anche il suo stesso essere donna. In qualche modo Dina rivive e ripropone la scissione dell’archetipo femminile che aveva caratterizzato le lotte di Rachele e Lea: identificandosi solo con Rachele, nel suo sogno adolescenziale perde la possibilità di costellare l’aspetto positivo della Madre, che avrebbe potuto proteggerla.
Il Midrash racconta che, dopo il tragico episodio di Shekhem, Shim`on sposò la sorella. È uno sviluppo che apre una prospettiva sulla figura psichica del fratello-amante, un personaggio geloso che, se non tenuto a freno da un forte intervento paterno, può impedire alla donna qualsiasi rapporto intimo, facendo valere il suo diritto di “riprendersela” quando altri rapporti rischiano di deprivarlo del suo potere assoluto.[46]
Non è un caso che l’altro episodio in cui la Bibbia dedica ampio spazio a una violenza fatta a una fanciulla sia proprio quello di Tamar e Amnon (2Sam 13,1-22). In quel caso è proprio il fratello – anche se di madre diversa – che veste i panni dello stupratore. Anche qui il padre non agisce: David, a differenza di Giacobbe, si adira molto, ma come lui rinuncia a qualsiasi iniziativa in difesa della figlia, per non offendere il figlio maschio «per il quale aveva molto affetto».[47] È ancora una volta il fratello materno Assalonne che si assume l’incarico della vendetta (vv. 23-33). Tamar, Amnon e Assalonne – come Dina, Shim`on e Levi – sono figli di un padre che che è senza “voce” per la propria figlia (e qol, la voce, è uno dei termini per la Shekhinà, il lato femminile del divino): una figura paterna carente che lascia che l’ordine edipico sia ristabilito dai figli. Sono figure di uomini che conquistano, sì, una loro integrità grazie a un rapporto intimo con il divino, ma sembra che quell’integrità rimanga al livello dell’archetipo e non investa coscientemente la loro realtà concreta: non ne fa uomini “interi”, capaci di integrare il proprio lato femminile e quindi di relazionarsi alle proprio donne in modo consapevole e autorevole.
3) La discesa in Egitto
Che cosa ne è di Dina dopo la tragedia di Shekhem? Il testo non lo dice: Dina esce silenziosamente di scena e ricompare, soltanto come nome, insieme a quelli delle famiglie dei fratelli che scendono in Egitto. Ma il Midrash non la abbandona e immagina in vario modo il seguito della sua storia. Una tradizione – ripresa anche da Giacoma Limentani[48]– la vede andare in moglie a Giobbe,[49] ma qui preferisco seguirne un’altra, dove si racconta che dall’incontro fra Dina e Shekhem nacque una figlia, una bambina che i fratelli avrebbero voluto uccidere, per eliminare la testimonianza della vergogna.[50] Ma Giacobbe decise di salvarla: fece coniare per lei un medaglione con inciso il nome di Dio e glielo mise al collo, abbandonandola poi al suo destino.[51] Grazie a quel medaglione la bambina fu protetta dall’angelo Michele, che la fece arrivare fino in Egitto, nella casa di Potifarre, il quale la adottò e le pose nome Asenat, quella Asenat che sarebbe poi diventata la moglie di Giuseppe.
La leggenda, tarda, che identifica in Asenat la figlia di Dina e Shekhem[52] racconta anche che fu proprio Asenat a salvare la vita al giovane Giuseppe, sussurrando all’orecchio del padre adottivo quale fosse la vera versione dei fatti di cui veniva accusato da sua moglie.
In questo racconto, come in altri affini, sembra che si voglia in qualche modo rintracciare un segreto legame fra Giuseppe e Dina, recuperando quanto la vicinanza delle loro nascite faceva intuire, quasi a voler ricongiungere le discendenze delle due sorelle.[53] È una sorta di principio femminile “riparatore” che riaffiora anche in due racconti biblici successivi. Nel primo, narrato in Numeri 27 e Giosuè 17, si parla delle cinque figlie di Zelofcad, che per prime acquisiscono il diritto all’eredità tribale – e la tribù è quella di Manasse, figlio di Giuseppe e, secondo la leggenda, nipote di Dina. Sembra quasi che la doppia porzione di eredità assegnata a Giuseppe voglia in qualche modo ricostituire il diritto di Dina, come se i discendenti di Giuseppe e di Dina ereditassero nella terra proprio le porzioni di Simeone e Levi, privati della terra a causa della violenza agita a Shekhem. Il secondo racconto che riconnette la storia di Giuseppe a quella di Dina e che sembra voler dare alla riparazione un significato sacrale è quello che si legge in Giosuè 24,26: nel momento in cui il popolo si insedia sulla terra promessa e si prepara a rinnovare il patto con il Signore, Giosuè raduna tutte le tribù a Shekhem,[54] scrive le clausole dell’alleanza nel libro della legge e poi erge una “grande pietra” proprio ai piedi della quercia (o terebinto) che era nel santuario del Signore. La quercia era stata nominata più volte alla fine dell’episodio di Dina:[55] sotto una quercia in Shekhem erano stati sepolti i gioielli nel rito di purificazione (Gen 35,4); sotto una quercia a Bet El era stata sepolta Debora (Gen 35,8). Poco lontano dal luogo del raduno del popolo di Giosuè, su quella parte del monte che Giacobbe aveva acquistato dal padre di Shekhem, vengono sepolte le ossa di Giuseppe, che i figli d’Israele hanno portato con sé nella loro “uscita” dall’Egitto. Shekhem è dunque luogo consacrato, sede di un santuario e di un monumento memoriale, custode delle ossa di Giuseppe, oltre ad essere una città levitica di rifugio nel territorio della tribù di Efraim, figlio di Giuseppe e forse nipote di Dina e di Shekhem.[56]
Ma Shekhem – oggi Nablus, nella West Bank, e in epoca cristiana principale insediamento dei samaritani – resta da sempre anche un luogo di conflitto; la sua quercia sacra fu testimone di altri episodi violenti, all’epoca di Gedeone e Avimelekh (Gdc 9), ed è proprio a Shekhem che si compì la divisione del regno che era stato di David e Salomone in due tronconi separati e contrapposti (1Re 12,1-17). Perfino nei Salmi quel luogo è nominato in un contesto di guerra: «Dio ha parlato nel suo santuario: “Io trionferò, dividerò Shekhem e misurerò la valle di Sukkot”.». C’è da sperare che non si debba attendere l’era messianica perché quella violenza cessi di riprodursi, ma non si può fare a meno di ricordare che, secondo la leggenda, discenderà da Dina e Giuseppe anche il messia ben-Yosef che preparerà, con la sua morte tragica, la venuta del messia ben-David.
[1] Le relazioni conclusive del seminario “Le donne che escono: quattro figure femminili della Bibbia” furono presentate nell’aprile 1995, a Gerusalemme, al convegno dell’Associazione Israeliana di Psicologia Analitica. Sono poi state pubblicate separatamente: M. Ventura, “Biblical Women who move out: the case of Dinah”, Spring 63 (1998); A. Uncini-L. Poli, “Vashtì ed Ester: due immagini di una identità”, in Jung e l’ebraismo, a cura di Patrizia Puccioni Marasco, Giuntina, Firenze 2001; M. C. Barducci, “Una donna chiamata Tamar”, in Ead. Il velo e il coltello, Vivarium, Milano 2006.
[2] Le espressioni con cui le madri – più raramente i padri – danno nome ai figli sono state identificate come un vero e proprio genere letterario. Cfr. F. van Dijk-Hemmes, Traces of Women’s texts in the Hebrew Bible, in A. Brenner, F. van Dijk-Hemmes, On gendering texts. Female and male voices in the Hebrew Bible, Leiden, Brill, 1996, pp. 6-109; vedi soprattutto pp. 97-103: “Birth songs and naming speeches”, dove sostiene che i naming speeches, ricchi di giochi linguistici basati soprattutto sulle assonanze, sono caratteristici della tradizione orale (ivi, p. 97). Si tratterebbe quindi di testi trasmessi oralmente dalle donne ma messi per scritto da uomini, con tutte le esclusioni, le correzioni e i purgamenti conseguenti (ivi, p. 108).
[3] Cfr. Bereshit Rabbà 72,6; M.M. Kasher, Encyclopedia of Biblical Interpretation (EBI), vol. 4, p. 104.
[4] Cfr. bBerakhot 60a; Rashi ad loc.; Tanchuma Wayyetzé 8; Midrash Ha-gadol I, 478-79; L. Ginzberg, Le leggende degli ebrei, tr. it., vol. 2, Milano, Adelphi, 1997, p. 172 e note.
[5] Secondo il Midrash Ha-gadol (loc. cit.) tutte le mogli di Giacobbe unirono le loro preghiere alla preghiera di Giacobbe e insieme implorarono Dio di rimuovere la maledizione della sterilità da Rachel.
[6] Cfr. Ekhà Rabbà proemio 23.
[7] Cfr. Bereshit Rabbà, 73,4. Grazie a quel silenzio Rachele avrebbe meritato anche di contribuire alla discendenza di Giacobbe con una doppia porzione, le tribù di Manasse ed Efràim. Cfr. Tanchuma Wayyetzé 6 e EBI, vol. IV, p. 241.
[8] In ebraico il verbo viene prima del soggetto: «Si ricordò Dio di Rachele …».
[9] Quando scrivevo il mio primo saggio su Rachele (“Nella terra di Labano”, Anima 1988, pp. 77-88) non avevo ancora visto il libro di Mieke Bal (Lethal love, Indiana University Press, Bloomington e Indianapolis, 1987, pp. 84-86), la quale coglie nella rinuncia al proprio privilegio da parte di entrambe le sorelle l’elemento risolutore del “problema” della scissione dei due aspetti del femminile. Tuttavia Bal colloca quella soluzione nello scambio in cui Lea cede alla sorella le mandragore del figlio (la fertilità) e Rachele le cede in cambio di poter dormire con il marito per una notte, che per Bal sembra equivalere a cederle l’amore del marito. Bal trascura completamente l’evento della nascita di Dina e il significato profondo che questa riveste all’interno dell’universo femminile.
[10] «Tutta la gloria della figlia del re è all’interno», dove l’interpretazione rabbinica non necessariamente va letta come una volontà di escluderle dallo spazio pubblico (come in Maimonide, che vorrebbe che le donne non uscissero di casa più di una volta al mese), ma si potrebbe anche intendere come una valorizzazione dell’interiorità. L’idea che le donne debbano stare in casa è comunque presente già nei testi del Midrash più antico (Sifré a Deuteronomio 242; Bereshit rabbà 80,12, Qohelet Rabbà 10,1, e altri).
[11] Cfr. Bereshit Rabbà 18,2; 45,5; Pirqé deRabbi Eli`ezer 38,4; Targum Ps-Yonathan a Gen 34,1, oltre ai commenti di Rashi e di altri commentatori medioevali in una qualsiasi bibbia rabbinica. Vedi anche Jeffrey K. Salkin, “Dinah, the Torah’s forgotten woman”, Judaism 35,3 (1980), pp. 284-289. Secondo il Midrash Ha-gadol, Shekhem l’aveva attirata fuori portando con sé delle prostitute. Cfr. M. M. Caspi, “The story of the rape of Dinah: the narrator and the reader”, Hebrew Studies 26,1 (1985).
[12] Bereshit Rabbà 80,3 e 12.
[13] L’episodio di Amnon e Tamar, in 2Sam 13,1-22, e quello della concubina del levita nei capp. 19-20 del libro dei Giudici.
[14] Il ritmo ternario ricorre in modo insistente nel racconto: Shekhem prese, giacque, oppresse (v.2) / s’attaccò, amò, parlò (v.3); i fratelli presero (la spada), vennero, uccisero (v. 25) / uccisero, presero (Dina), uscirono (v. 26)
[15] Vedi, per esempio, Genesi 30,16, dove Giacobbe si giace “con” Lea.
[16] Secondo Bereshit Rabbà 80,5 e Qohelet Rabbà 10,1 il termine indica qui un rapporto contro natura.
[17] Vedi Rashi e Ramban che riportano la tradizione midrashica basata sulla lettura allòn bakhòt (quercia dei pianti) al posto di allòn bakhùt (quercia del pianto) in Gen 35,8.
[18] Fra i commentatori medioevali è Rashbam a far notare che l’uscita di Dina è in realtà un “andare dentro”, perché Giacobbe è accampato fuori dalla città.
[19] Per le affinità fra questo episodio e la distruzione di Troia, vedi M. Immanueli, “Dina bat-Leà”, Bet Miqra 17 (1972), pp. 442-450 (soprattutto p. 450).
[20] Cfr. G. Von Rad, Genesis: a commentary, tr. ingl. Westminster Press, Philadephia 1972.
[21] Vedi Gen 33,18 con i commenti tradizionali.
[22] Gen 32,25-33.
[23] Cfr. bChullin 91a; vedi anche il mio “Il divieto relativo al nervo sciatico: interpretazioni”, in La Kasherut, Convegno di studi, Ferrara 8 dicembre 1993, Tip. Editografica, Rastignano (Bo) 1994.
[24] Più benevolo è il giudizio che di Giacobbe danno Fewell e Gunn (vedi nota 34), che vedono nel suo silenzio un atteggiamento sensibile di «saggezza matura» e apprezzano il senso di responsabilità che dimostra verso la famiglia, quando alla fine rimprovera i figli per averla messa in pericolo.
[25] Cfr. Sefer ha-yashar, c. 63v. Vedi anche EBI, vol. 4, pp. 176-77.
[26] In Bereshit Rabbà (80,12) e in Rashi il termine zonà (Gen 34,31) viene interpretato come se fosse hefqer, cioè donna non protetta.
[27] Sull’episodio della nascita di Beniamino, vedi il mio “Vivere in pienezza, morire in pace”, in L’Eutanasia, Convegno di studi, Ferrara 7 luglio 2002, Tip. Editografica, Rastignano (Bo) 2004.
[28] Cfr. Tanchuma B. I, 171-172; Tanchuma Wayyishlach 5-7; Bereshit Rabbà 80,1-2 e passim. Vedi anche Targum J (Neofiti 1) ad loc., bSanhedrin 4b. L’interpretazione è basata su una diversa vocalizzazione del verbo che lo fa leggere al Nif`al invece che al qal.
[29] Midrash Aggadà 34,1 (ed. Vienna 1894, p. 86).
[30] Cfr. Rashi, ad loc. e The Chumash, by Nosson Scherman (The Stone edition), Masorah Pub. Brooklyn, New York 1993, p. 181.
[31] Le interpretazioni variano a seconda del contesto, della mentalità e dal giudizio morale dell’interprete. È l’espressione usata per Giuseppe che vuole rassicurare i suoi fratelli (Gen 50,21), per Boaz che Rut ringrazia per averla rincuorata, trovandola a spigolare nel suo campo (Rut 2,13), per Dio che ristabilisce il patto d’amore con la “sposa” Israele (Os 2,16), per Gerusalemme (Is 40,2), e poi in 1Sam 1,13, 2Sam 19,8, 2Cr 30,22; 32,6. Se è vero che lev in ambito semitico ha a che fare più con la mente che con il cuore come sede dei sentimenti, allora qui, come in Gdc 19,3, il significato più calzante è quello di “convincerla”.
[32] Fewell e Gunn (vedi nota 34) sostengono che voglia dire che Shekhem si era conquistato il favore di Dina, Scholz lo contesta e lo legge invece come il tentativo di manipolarla. Cfr. S. Scholz, “What ‘really’ happened to Dinah: a Feminist analysis of Genesis 34, Lectio difficilior 2 (2001) http://lectio.unibe.ch/01_2/s.pdf.
[33] Cfr. P. Trible, “Tamar: the royal rape of wisdom”, in Texts of terror: literary-feminist readings of Biblical narratives, Fortress, Philadelphia 1984.
[34] Per un interessante dibattito su questo aspetto, vedi: M. Sternberg, “Delicate balance in the rape of Dinah”, in The poetics of Biblical narrative and the drama of reading, Indiana University Press, Bloomington 1985; D. Nolan Fewell, D.M. Gunn, “Tipping the balance: Sternberg’s reader and the rape of Dinah”, Journal of Biblical Literature 110/2 (1991), pp. 193-211; e M. Sternberg, “Biblical poetics and sexual politics: from reading to counterreading”, JBL 111/3 (1992), pp. 463-488.
[35] Anche studiosi dichiaratamente femministi ritengono che Shekhem sia sinceramente affezionato a Dina e «dolorosamente consapevole dell’offesa recata », oltre che ansioso di non peggiorare la situazione. Cfr. Fewell, Gunn, op. cit., nota 13. Nella loro lettura anche l’offerta di Shekhem sarebbe in linea con Dt 22,28-29 e quindi da contestualizzare entro i ristretti limiti della società patriarcale del tempo. Sulla stessa linea è anche I. Fischer, “Dark sides of the family chronicle”, in Ead., Women who wrestled with God, tr. ingl. Liturgical Press, Collegeville 2005.
[36] Cfr. Bereshit Rabbà 80,7: Rabbi Shim`on b. Lakish connette «si attaccò (wattidbàq nafshò)» (v. 3) con «voi che rimaneste attaccati (ha-deveqìm) al Signore» di Deut 4,4; «si è affezionato (chasheqà nafshò)» (v. 8) con «si è affezionato (chashàq) a voi il Signore» di Deut 7,7; chafètz (v. 19) con Mal 3,12: «Perché voi sarete la terra amata (éretz chéfetz), dice il Signore delle schiere». Rabbi Abba b. Eliashiv aggiunge altri due riferimenti: collega wayye’ehàv (v. 3) con Mal 1,2: «Io vi ho amato, dice il Signore», e wayedabbèr `al lev (v. 3) con Is 40,2: «Parlate al cuore di [cioè, rassicurate] Gerusalemme, annunciatele…».Vedi anche EBI, vol. 4, pp. 175-176.
[37] Sono di questo stesso avviso anche Carolyn Pressler ( “Sexual violence and Deuteronomic law”, in A. Brenner, A Feminist companion to Exodus to Deuteronomy, Sheffield Academic Press, Sheffield 1994) e Ilona N. Rashkow (The fallacy of Genesis: a Feminist-psychological approach, Westminster and Knox Press, Louisville, KY 1993).
[38] Cfr. Bereshit Rabbà 80,2.
[39] Cfr. Bereshit Rabbà 80,12 e Rashi a Gen 34,30: «Mi avete messo in agitazione (`akhartèm). Il termine ha lo stesso significato che in “Acque agitate (`akhurìm) [bBerakhot 25b]”. Giacobbe disse: “La mia mente d’ora in poi non sarà più chiara”. Secondo l’aggadà Giacobbe disse: “Il vino nel barile era chiaro, e voi lo avete intorbidito (`akhartèm)”».
[40] Cfr. Bereshit Rabbà 80,2 e 12. Di questo secondo atteggiamento, portato all’estremo, è testimone il libro apocrifo di Giuditta, dove Giuditta rivendica l’eredità di Simeone per poter usare la spada della vendetta contro coloro «che avevano sciolto a ignominia la cintura di una vergine, ne avevano denudato i fianchi e ne avevano contaminato il grembo a infamia» (Gdt 8,2). Sulla stessa posizione sono anche altri testi apocrifi, p. es. il Testamento di Levi (passim) e il libro dei Giubilei 30,1 sgg.
[41] Secondo alcuni midrashim, la scrittura di na`arà senza la he finale – più volte ripetuta in questo capitolo – indica che Dina non era ancora sviluppata. Cfr. Sekhel Tov e Leqach Tov, cit. in EBI, vol. 4, p. 176.
[42] Vedi, p. es., S. Scholz, op. cit.
[43] Nei versetti successivi Dina o è definita «figlia di Giacobbe» (3), (7), (19) e «sua figlia» (5), o è nominata in rapporto ai suoi fratelli: «vostra figlia » (8), «la loro sorella» (13), (27), «la nostra sorella» (14), (31); «la nostra figlia» (17). Solo Shekhem la chiama “bambina” (4) e “ragazzina” (12).
[44] Cfr. Rashi a Gen 35,22; bShabbat 55b.
[45] Cfr. Flavio Giuseppe, Antiquitates, I,21,1; EBI, vol. 4, p. 258. Secondo questo midrash Dina esce perché c’è una festa popolare e le ragazze del posto sono uscite a danzare per le strade. Vedi anche Sefer ha-yashar, cc. 63r-63v, dove sembra che tutte le donne di Giacobbe fossero uscite.
[46] Shim`on assume qui le vesti di quello che Esther Harding chiama «l’amante ombra» (I misteri della donna, tr. it. Astrolabio, Torino 1942).
[47] La frase non figura nel Testo Masoretico e costituisce una variante del testo di Qumran (verso 22), che aggiunge anche: «perché era il suo primogenito».
[48] Giacoma Limentani, Il grande seduto, Adelphi, Milano 1979.
[49] Cfr. Pseudo-Philo, Liber Antiquitatum Biblicarum VIII, 6-8; Bereshit Rabbà 19,12; bBava Batra, 15b, ySotà V,5, e altri.
[50] Cfr. Pirqé de Rabbi Eliezer 38, 1.
[51] Ibidem. Secondo altre tradizioni Giacobbe inciso sul medaglione la storia della stirpe a cui la bimba apparteneva e quella della sua nascita. Cfr. Ginzberg, op. cit., vol. 3, p. 74 e note.
[52] I midrashim più antichi considerano Asenat la vera figlia di Potifarre. Cfr. Bereshit rabbà 87,4.
[53] Secondo Phyllis Chesler (“The rape of Dinah: on the Torah portion of Vayishlach”, Nashim. A Journal of Jewish Women’s Studies and Gender Issues Fall 2000), che si rifà ai midrashim alla base del commento di Rashi, c’è una sorta di legame karmico fra Giuseppe e Dina: i loro feti si sarebbero scambiati nei ventri delle madri. Vedi nota 4.
[54] Va ricordato che Shekhem era stata la prima località raggiunta da Abramo e Sara in Canaan, dopo la chiamata divina che li aveva fatti partire, prima da Ur dei Caldei e poi da Charran (Gen 12,6).
[55] Non si parla, invece, nell’Antico Testamento, del «pozzo di Giacobbe», dove Gesù incontra la samaritana (Gv 4,5–6).
[56] Cfr. Gs 20,7; 21,21. Vedi anche M. Haran, “Pirqé Shekhem”, Zion 38 (1973), pp. 1-30 (v. soprattutto pp. 28-30).