Lia Sacerdote
L’anno scorso, in occasione della proiezione del film “The silent Exodus” sulla cacciata degli ebrei dai paesi musulmani, facemmo conoscenza col concetto di dhimmi. Si tratta di una parola che deriva dal termine arabo che significa “protetto”, e si riferisce a quelle popolazioni indigene che si sottomettevano senza combattere agli eserciti islamici durante le loro guerre di conquista e ne accettavano la supremazia.
Le relazioni fra musulmani e non musulmani si pongono infatti unicamente in un contesto di guerra, la jihad, dato che secondo l’ideologia che ne è alla base i popoli del mondo sono divisi in due inconciliabili entità: il dar al-harb (ossia il mondo non musulmano), e il dar al-Islam (terra dell’Islam) che è votato all’islamizzazione del mondo: che può avvenire o con una pacifica conversione dei suoi abitanti o con il conflitto armato.
Le popolazioni non musulmane che si arrendevano con uno speciale trattato – dhimma – avevano salva la vita e i loro beni e potevano continuare a vivere nelle loro terre e godere di una se pur limitata libertà religiosa nonché del diritto di amministrarsi secondo la loro legge civile.
Ciò non avveniva gratuitamente, dato che era fatto obbligo di pagare una specie di tassa, la jizya, e di fare atto di sottomissione alle disposizioni della legge islamica, la shari’a, e in cambio si otteneva una garanzia di protezione da parte dei dominatori.
Il grado di tolleranza dipendeva da una quantità di obblighi discriminatori in campo economico, religioso e sociale imposti dalla shari’a. La trasgressione da parte dei dhimmi di alcuni di questi obblighi comportava la fine della protezione e minacce di morte e schiavitù. Essi erano soggetti a molte interdizioni di ordine giuridico che sfociavano in una condizione di umiliazione, segregazione e discriminazione.
Inoltre i diritti di cui godeva il dhimmi erano diritti concessi, ossia potevano venir revocati unilateralmente da chi li concedeva: il diritto del dhimmi alla vita e alla sicurezza era monetizzabile e doveva quindi essere continuamente riscattato con un’imposta coranica, la jizya appunto, che comportava comunque una condizione di umiliazione, inferiorità, vulnerabilità estrema e soprattutto di precarietà.
I dhimmi erano gli ebrei e i cristiani – chiamati nel Corano ‘Popolo del Libro’, ossia la Bibbia – che vivevano nei paesi sottomessi: entrambi avevano il medesimo status giuridico, gli stessi diritti e gli stessi doveri nei confronti delle leggi dell’Islam, mentre gli appartenenti ad altri gruppi religiosi erano vittime di trattamenti più violenti.
Oggi in alcuni paesi musulmani la situazione è diversa, dato che questa iniqua condizione è stata abolita sia per la pressione degli stati europei e per la colonizzazione dei paesi arabi nel 19° e 20° secolo sia con l’adozione in alcuni casi di legislazioni di carattere occidentale. Quel periodo vide tuttavia massacri di cristiani dhimmi durante le loro guerre di liberazione contro l’impero ottomano, più tardi la cacciata degli ebrei dai paesi arabi (documentata nel film “Silent Exodus” appunto), nonché l’emigrazione in massa di cristiani dagli stati arabi odierni.
Nel 1983, una studiosa di origine egiziana, essa stessa profuga nel 1957 dall’Egitto, BAT YE’OR, coniò il termine “dhimmitudine” che probabilmente non troveremo sui dizionari ma che ormai si è imposto per designare il concetto storico che descrive quel complesso di condizioni legali e sociali in cui si muovevano ebrei e cristiani soggetti al dominio islamico. Con dhimmitudine si intende il sistema islamico di governo di popolazioni conquistate con le guerre jihad, comprensivo di tutti gli aspetti demografici, etnici e religiosi del sistema politico, nonché i rapporti fra queste genti e la comunità islamica, la umma, e la cultura che si è sviluppata in quel particolare contesto storico nei lunghi secoli del dominio.
Le conquiste islamiche durarono infatti oltre un millennio (638-1683) e si estesero su immensi territori, prevalentemente cristiani, in cui vivevano però numerose comunità ebraiche: sul Medio Oriente, il Nordafrica, la Spagna, il Portogallo, la Sicilia e l’Armenia e poi, fino a quando non vennero fermate dagli eserciti europei, sui Balcani, l’Anatolia, la Grecia e l’Ungheria. In questi paesi una parte della popolazione fu massacrata, un’altra ridotta in schiavitù, un’altra deportata e un’altra divenne dhimmi. Moltissime le etnie: ebrei, greci, siriani, egiziani, armeni, maroniti, berberi, spagnoli, bulgari, slavi; e le lingue, le culture e le religioni le più varie: cattolici, greci-ortodossi, monofisiti, nestoriani, ebrei. Questi paesi cristiani vennero progressivamente islamizzati – il Nordafrica in modo irreversibile – per via di collaborazione e alleanze, a cui non fu estranea una diffusa corruzione, fra i capi del patriarcato cristiano e il califfato.
Oggi il risorgere dell’Islam tradizionale riporta in auge e rivitalizza lo spirito della jihad e della dhimmitudine verso le minoranze non musulmane. Va ricordato infatti che il concetto di jihad esclude qualsivoglia forma di sovranità politica al di fuori dell’Islam: eccezionalmente sono previsti trattati di pace con i paesi non musulmani, ma solo in forma provvisoria.
Questo illumina sul fatto che a tutt’oggi in Arabia Saudita molte personalità di alto livello, religiose e non, hanno condannato il processo di pace in Medio Oriente proprio in quanto prevede una pace illimitata con gli infedeli: secondo il loro punto di vista, tali accordi sono proibiti ai musulmani e passibili di condanna per eresia, dato che – per seguire l’esempio del Profeta – con i non musulmani non si può firmare alcuna tregua che superi i dieci anni. E nel Preambolo della costituzione iraniana del 1979 si dichiara che il fine delle forze armate è quello di scatenare la jihad per imporre l’Islam in tutto il mondo.
Anche se non dovunque, il concetto di jihad è oggi più vivo che mai presso i gruppi fondamentalisti e fra le masse, né è mai cessata la persecuzione e la marginalizzazione dei nativi ebrei e cristiani: nei paesi musulmani praticamente non ci sono più ebrei, e molti cristiani si convertono o decidono di emigrare. Né d’altronde da parte degli intellettuali islamici il concetto di jihad e dhimmi è mai stato sottoposto a esame critico essendo parte integrante della shari’a, che è legge di ispirazione divina.
Milano 03/11/2005
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