Da una lezione di Rav Shabetai Sabato
Il libro di Devarim si apre con le parole: “Queste sono le parole che Mosè rivolse a tutto Israele…”. Questa espressione sembra essere riduttiva, come se le parole che Mosheh ha pronunciato fossero solo queste! Il termine elleh (queste) compare molte volte nella Torah. Apre anche la parashah di Noach: “Queste sono le discendenze di Noach”. Il Midrash (Bereshit Rabbah, 30) a nome di R. Abbahu spiega che il termine elleh annulla quanto detto in precedenza, weelleh (e queste) invece viene ad aggiungere a quanto detto in precedenza.
Il senso è molto semplice: con il diluvio l’umanità che sino ad ora aveva popolato il mondo è un brutto ricordo, con Noach inizia qualcosa di nuovo. Ma se paragoniamo questa costruzione a quella che troviamo all’inizio del libro di Devarim ne risulterebbe che effettivamente queste seconde parole di Mosheh cancellano le prime dei primi quattro libri della Torah. Questa domanda viene posta esplicitamente dal Sifrì, che chiaramente esclude questa possibile lettura. Queste parole di Moseh sono invece un ammonimento. Ma questo non fa altro che spostare il problema; perché delle parole di ammonimento dovrebbero avere un valore maggiore del resto della Torah e all’insegnamento delle mitzwot che della Torah sono il nucleo fondamentale? Nella prima parte del libro di Devarim Mosheh ricostruisce eventi avvenuti nei libri precedenti, ma con una prospettiva completamente differente, senza tutta la concitazione del momento.
Questa è la grande novità. Rendersi conto degli errori del passato e chiedersi come abbiamo fatto a sbagliare in questo modo. In questo senso queste parole annullano le precedenti. L’influenza delle mitzwot precedentemente non aveva portato all’effetto sperato, per via del susseguirsi degli eventi e del coinvolgimento del momento. Ma in assoluto, vedendo la nostra vita, dovremmo assumere il medesimo atteggiamento, perché in quel momento sorgono le domande più difficili. In talune circostanze ci saremmo potuti comportare differentemente? Non è semplice ammonire. Si tratta probabilmente di una delle mitzwot più difficili da applicare correttamente. Una preparazione insufficiente, scarsa perizia o esperienza possono avere effetti disastrosi e opposti a quanto avremmo desiderato. In assoluto chi ammonisce sembra porsi in una posizione di superiorità. Chi riceve l’ammonizione è portato a mettersi sulla difensiva e non accogliere l’ammonimento, e nella peggiore delle ipotesi passare al contrattacco. Le difficoltà dell’ammonimento vengono messe in risalto nel trattato di ‘Arakhin (16a) a nome di tre maestri, R. Tarfon, R. El’azar ben ‘Azariah e R. Aqivà, che sottolineano tre differenti aspetti, il potere ammonire, il poter ricevere l’ammonimento, il sapere ammonire. Ciascuno si concentra su un lato, chi ammonisce, chi viene ammonito, l’ammonimento, ma affinché il tutto abbia l’effetto desiderato serve al contempo che chi ammonisce abbia l’integrità morale per farlo, che chi riceve l’ammonimento sia pronto ad ascoltare, e che questo sia pronunciato sapientemente.
La ghemarà nel trattato di Chaghigah (4b) narra che quando R. El’azar leggeva il verso (Bereshit 45,3), riferito ai fratelli di Yosef, quando quest’ultimo si fece riconoscere “I fratelli non poterono rispondergli perché erano rimasti storditi davanti a lui”, scoppiava in lacrime. Se non è possibile resistere all’ammonimento di un essere in carne ed ossa, cosa avverrà quando H. ci riprenderà per via dei nostri comportamenti? L’episodio di Yosef è particolarmente istruttivo, perché i fratelli lo avevano ripagato nel modo peggiore possibile, perché Yosef, inviato da Ya’aqov, si era recato presso di loro con le migliori intenzioni. Quando i fratelli si rendono conto di questo fatto rimangono pietrificati. Le accuse che il popolo ebraico muove nei confronti di H. sono similari, perché lo accusano di averli fatti uscire dall’Egitto con odio, al fine di distruggerli, quando l’uscita dall’Egitto non è altro che un segno d’amore. Esattamente il contrario. Ciascuno di noi deve rendersi conto che questo vale anche per la nostra esperienza.
Quando ci renderemo conto di quanto H. ha fatto per noi saremo presi dalla vergogna. Ogni anno, prima di Tish’ah beAv, che rappresenta il momento in cui il popolo ebraico ha perso il legame diretto con H. ed è stato disperso ai quattro venti, leggiamo questa parashah. Ma anche questo ha un senso ben preciso. Shelomò dice nel libro dei Proverbi (27,5): “Meglio un’aperta riprensione, che un amore celato”. E’ chiaro che se c’è qualcosa da dire per migliorare il nostro prossimo, siamo tenuti a dirlo, ma il verso intende dire di più: l’ammonimento manifesto è manifestazione di un amore nascosto. I versi che nella Torah affrontano il tema dell’ammonimento sono accostati a quelli sulla vendetta. Non ammonire, e rallegrarsi in cuor proprio per le storture del proprio prossimo, perché quest’ultimo ci ha fatto qualcosa di male, sono manifestazioni di vendetta. Dobbiamo farci forza e sottomettere il nostro istinto. Se la nostra intenzione è pura e agiamo correttamente, il nostro prossimo apprezzerà il nostro intervento, e ci terrà in maggiore considerazione per questo.