Queste sono le parole che Mosè rivolse a Israele di là dal Giordano, nel deserto, nella pianura dirimpetto a Suf, fra Paran, Tofel, Lavan, Chatseroth e Di-Zahab. Vi sono undici giorni dal (monte) Chorev, per la via del monte Seir, fino a Kadesh-Barnea. Il quarantesimo anno, l’undecimo mese, il primo giorno del mese, Mosè parlò ai figli d’Israele, secondo tutto quello che l’Eterno gli aveva ordinato di dire loro…(Deuteronomio 1:1-3).
Questi versetti costituiscono l’introduzione del quinto libro della Torà in generale ma, in particolare, sono la base fondante del discorso di ammonimento che Mosè sta per fare ai figli d’Israele. Tutti i dati che la Torà fornisce sono necessari per la comprensione del discorso stesso tuttavia, una curiosità particolare, la suscita la data dell’evento.
Mosè tiene questo discorso il primo giorno dell’undicesimo mese (capo mese di Shevat) del quarantesimo anno dall’uscita dall’Egitto, a un mese dalla sua morte.
Perché, dunque, proprio il quarantesimo anno, e non il trentanovesimo o il quarantunesimo, è considerato momento favorevole per riflettere sugli episodi in cui sono state commesse gravi colpe (il culto idolatra del Baal Peor, la sfiducia davanti al mar Rosso, le lamentele per la manna, la disputa di Qorach, il vitello d’oro)?
I maestri del Midrash suggeriscono una spiegazione:
è come quando una persona che cammina e si imbatte con dei predoni che lo feriscono. Questa persona non deve assolutamente rimanere ferma ma deve scappare con tutte le sue forze nonostante sia ferito. Solo quando ha raggiunto un luogo sicuro, dove non può essere raggiunto dai predoni e quindi non più in pericolo di vita, solo allora si può fermare, esaminare le ferite, sentirne il dolore e dunque curarle.
Così è la nostra battaglia con l’istinto al male la cui forza ci allontana dalla Torà e i suoi precetti. Dobbiamo lottare per fuggire dal suo dominio e quindi non cadere più nell’errore più errori. Ma nonostante riusciamo sfuggire da questo dominio, a resistere alle sue lusinghe, non possiamo fermarci in questa fuga, e riconsiderare gli errori che abbiamo già commesso è un esercizio morale molto importante.
Quarant’anni, oltre a rappresentare la soglia di passaggio verso un cambio generazionale, sarebbe l’età in cui inizierebbe a diminuire la forza del nostro istinto al male affinché la forza spirituale possa cominciare a prevalere su quella materiale. Raggiunta questa condizione di forza, in cui possiamo dimostrare di non commettere più errori, possiamo anche riconsiderare quelli del passato. Il futuro sarà più sereno non solo per il cambiamento della nostra cattiva condotta ma soprattutto per la riparazione dei danni da essa provocati.
Forse anche a questo pensava Yehudà figlio di Temà quando affermava (Avot/Massime dei Padri 5:21): “A quaranta anni si è pronti per la binà/discernimento”.
È interessante notare come due rabbini italiani, Lelio Della Torre (Cuneo 1805-Padova 1871) e Vittorio Castiglioni (Trieste 1840-Roma 1911), traducano il termine “binà” con “prudenza”.
In effetti, come insegna Moshe Chayym Luzzatto (Padova 1707-Acri 1746) la prudenza è la qualità che permette all’individuo di valutare le conseguenze, in bene o in male, delle nostre azioni prima ancora di compierle. Ma la “binà/il discernimento/prudenza”, non si consegue automaticamente come un diritto per raggiunto requisito, la si deve volere e mantenere fortemente…
Shabbat Shalom!