Dagli archivi cancellati di Shalom – Il “Cercare: Cercando” – 17.7.1998
Gavriel Levi
La capacità di usare le mani, con intelligenza, è una caratteristica dell’essere umano e si collega con diverse possibilità: a) prendere un oggetto e trasportarlo tra due luoghi; b) costruire o adoperare degli strumenti; c) dare, prendere e scambiare oggetti tra due persone; d) compiere delle azioni significative, in collaborazione. L’uso intenzionale ed abile delle mani è, insieme con il linguaggio, la fabbrica del pensiero umano. Nel midrash halachàh questo concetto è formulato con originalità. Cercheremo di individuare alcuni frammenti midrashici che, visti nel loro insieme, ci permetteranno di cogliere come la toràh consideri la forza delle mani nella sua potenzialità religiosa.
Le situazioni halachiche che analizzeremo sono tre:
1) la netilàth iadaim: nel senso comune, lavaggio delle mani ( in senso linguistico stretto: elevazione-presa delle mani);
2) la shechitàh: macellazione rituale (secondo il midrash: levare la vita all’animale, per renderlo commestibile e quindi senza farlo diventare cadavere);
3) la chafinàth haQetòreth: pugnatura dell’incenso; l’atto conclusivo di offerta e di preparazione dell’incenso, che il Kohèn haGadòl faceva nel Qodesh haQodashìm, esclusivamente il giorno di Kippùr.
Queste tre situazioni halachiche sono contrassegnate, una per una, da uno specifico particolare uso delle mani, che viene delimitato con una esattezza tale da risultare un pezzetto di teoria sull’intenzionalità delle azioni umane. Una breve premessa: il confronto tra azione dell’uomo e azione di D-o è una chiave di lettura importante, per il pensiero biblico talmudico. D-o libera gli ebrei dall’Egitto, con mano forte e braccio disteso; in risposta gli ebrei legano sulla loro mano le parole-mizvòth della toràh, con i tefillìn; con una straordinaria interpretazione ( TB Men 37a), i maestri precisano che i tefillìn possono essere legati e portati solo sulla mano debole.
I nostri esempi sono, in fondo, un ulteriore commento a questo primo, basilare parallelismo.
Netilàth iadàim. E’ una delle 7 mizvòth decise dai maestri, che si aggregano con pari autorità alle 613 della toràh. Pur essendo una mizvàh umana, la netilàth iadàim ha due precedenti biblici: a) le mizvòth di purificazione che i Kohanìm dovevano praticare prima di servire nel Beth haMiqdàsh o prima di mangiare la terumàh; b) la pratica di purificazione, con l’acqua e con le ceneri della mucca rossa, necessaria a tutti gli ebrei per accedere al Beth haMiqdàsh.
La netilath iadaìm è quindi, prima di tutto, una mizvàh di investitura sacerdotale generalizzata.
Tra i diversi requisiti halachici della netilàth iadàim, due sono pertinenti per la nostra analisi: a) la necessità che l’acqua venga versata da un kelì (recipiente-strumento); b) la necessità che il movimento dell’acqua sia determinato da una forza umana attiva (kòach gàvra) o da una forza datrice (kòach notèn). Un caso piuttosto curioso fa esplodere il significato profondo di questi due requisiti indispensabili della netilàth iadàim: se fosse una scimmia a versare, per un uomo, l’acqua necessaria, la netilàth iadàim è valida. Il ragionamento è evidente: la scimmia può usare uno strumento, anche se non lo ha costruito; la scimmia ha la capacità di dare qualcosa a qualcuno e di fare qualcosa per qualcun altro, anche se non ha la forza di produrre un’azione umana finalizzata ed anche se non ha la volontà di fare una mizvàh (Mishnàh Iad.1:5 e R.O.da Bertinoro ad loc.; Tosefta Iad 1:7 e GRA ad loc.).
Un’altra particolare netilàth iadàim. E’ un uso presso quasi tutte le comunità ebraiche che un Levì ( o in sua assenza un bechòr) versi l’acqua al Kohèn prima che quest’ultimo dia la birkàth kohanìm; per i sefarditi, è un uso che il Levì faccia prima la sua netilàth iadàim. Le origini di questo uso non sono chiare; il Beth Iosef ( Tur OCh 128:6 ) riporta dallo Zohar ( Nasò 146a) l’idea che il Kohèn prima di dare la beràchà ( in ebraico, nesiàth kappàim: trasporto delle mani) deve prendere (littòl) una tossèfet (aggiunta di) qedushàh da un altro uomo che non sia Kohèn, e cioè dal Levì (la qedushàh del Levì è derivata, per delega continuativa, da quella del popolo d’Israele).
Quest’ultima situazione halachica è complementare alla precedente. La mizvàh della netilàth iadàim si fonda sulla capacità di dare che è, persino, pre-umana; la mizvàh trasforma la capacità di dare nella capacità di esercitare una forza intenzionale attiva (koach gavrà); quando la mizvàh consiste proprio nel dare-consegnare-trasmettere (nello specifico: le mani del kohèn per la berachàh) è opportuno che il donatore sia anche un ricevente (lo zohar dice che il Kohèn riceve la qedushà dell’acqua dall’azione del Levì).
La shechitàh. Per mangiare carne è necessario uccidere un animale. Questa precisazione, dal punto di vista della halachàh, non è affatto banale: 1) il primo divieto rispetto alla carne, è quello di non mangiare parte di un animale vivente; 2) un animale che non passi per la shechitàh, oppure che la shechitàh non ha potere di far diventare commestibile è definito o come cadavere o come sbranato; 3) l’uso del termine shechitàh per la macellazione rituale è rabbinico; il verbo specifico usato nella toràh è zvch, che indica in via prioritaria l’uccisione sacrificale; 4) il midràsh riporta una discussione fondamentale tra R.Ishma’el e R. ‘Aqiva sul rapporto tra la shechitàh, uccisione tout court ed uccisione sacrificale (TB Chull. 16b-17a).
Questa premessa schematica ci è utile, per cercare di comprendere perché solo a proposito dell shechitàh, (oltre che per la netilàth iadàim) si parli della forza umana (koach gàvra). La discussione halachica (TB Chull. 31a) è la seguente: se qualcuno avesse il coltello in grembo e questo cadesse casualmente, anche se ne risultasse una shechitàh tecnicamente perfetta, questa non sarebbe valida perché per la shechitàh è necessario il kòach gàvra (e cioè un’azione attiva); se qualcuno lanciasse un coltello con l’intenzione di lanciarlo, la shechitàh, se tecnicamente perfetta, sarebbe valida, anche se non ci fosse stata l’intenzione specifica di fare la shechitàh.
Il significato implicito di queste regole è ricostruibile: per uccidere un animale è necessaria un’azione umana intenzionale; se l’azione non è intenzionale è come se l’animale non fosse stato ucciso dall’uomo; se l’azione è riconosciuta cone intenzionale non è necessaria la volontà specifica di uccidere.
Il dilemma etico del kòach gàvra è tutto in questa delimitazione : per uccidere basta un livello di intenzionalità quasi nullo; per fare la mizvàh della shechitàh è necessario avere una intenzionalità attiva ma non è necessario avere l’intenzione di uccidere
Chafinàth haQetòret. Nel rituale di Kippur, questa particolare mizvàh aveva una posizione di massima rilevanza. Nel talmud (TB Iomà 53a) è riferita una polemica aspra sul momento in cui l’incenso doveva essere bruciato e trasformato in una nube; secondo i sadducei la bruciatura doveva precedere l’ingresso del Kohèn haGadòl nel Qodesh haQodashim; secondo i maestri l’ingresso doveva precedere la bruciatura e la formazione della nube. Prima di entrare (TB Iomà 47a- 49b) il Kohèn metteva l’incenso in un contenitore (che avrebbe retto con la mano sinistra) e prendeva una pala rovente (che avrebbe retto con la mano destra). Causa l’inversione delle mani rispetto all’ordine atteso per la maggiore importanza del recipiente con l’incenso, i maestri chiamano questo modo di portare: “essere gherìm in cielo“. Una volta entrato, il Kohèn posava la pala fra le sbarre dell’Aròn o, nel secondo Tempio, sulla Pietra di Fondazione ( Even haShetiàh ). A questo punto, con straordinaria abilità, il Kohèn doveva rovesciare l’incenso dal contenitore nelle proprie mani sempre tenendo il contenitore con le proprie mani (forse anche aiutandosi con i denti). L’incenso veniva quindi posato sulla pala rovente. Nel talmud l’azione di travaso dal contenitore alle mani (la chafinàh appunto), viene definito come il lavoro più difficile o tra i più difficili previsti nel Beth haMiqdàsh.
Cerchiamo di comprendere il senso di questa stranissima azione: 1) nel momento più solenne di Kippur , il Kohèn haGadòl portava a D-o una specie di dono simbolico e paradossale, e cioè l’incenso che avrebbe prodotto una nube, a simulazione ed anticipazione della presenza divina; 2) per fare questo incredibile dono il Kohèn doveva prima usare un recipiente al posto delle mani e, subito dopo, usare questo stesso recipiente con la massima abilità manuale pensabile, per trasformare le mani nello strumento artefice del dono; 3) la grandezza del kelì era personalizzata in base alla grandezza delle mani di ogni singolo Kohèn haGadòl.
Nella relazione con D-o, l’uomo può donare anche quello che non ha, purchè riconosca dentro di sè la volontà di donare con tutti i propri limiti; l’uomo può e deve trasformare le proprie mani in un recipiente ed in uno strumento di dono; soltanto le mani dell’uomo possono costruire strumenti; soltanto la mizvàh restituisce alle mani dell’uomo la loro piena forza attiva (koach gàvra); tentando l’impossibile azione di donare qualcosa a D-o, il Kohèn deve fare un commovente gioco di prestigio e realizza la sua massima qedushàh.
Una breve conclusione. Nella toràh è scritto : “…e fu sera e fu mattino del sesto giorno; e furono terminati il cielo e la terra …”. Nel talmud (TB Shabb.119b) è detto che il verbo “e furono terminati” può essere tradotto da passivo in attivo: “… e terminarono…”. Quando l’uomo pronuncia questo versetto ad alta voce, all’inizio dello shabbàth, diventa socio di D-o nella creazione del mondo ed allora bisogna dire “….e terminarono il cielo e la terra…”. Eliahu di Vilna sviluppa il concetto con un ulteriore gioco di parole e traduce: “… ed il cielo e la terra furono trasformati in kelìm…”.
Forse il koàch gàvra, la banale forza dell’uomo, è secondo il midràsh la capacità di trasformare le proprie mani ed il cielo e la terra in strumenti di creazione. Per i maestri Qetòret vuol dire legame.