Questa parashà tratta l’argomento della moglie che si comporta in modo poco consono al suo ruolo (sotà) e fa sospettare il marito d’infedeltà. Il marito ingelosito, avendo diffidato la moglie alla presenza di testimoni e non essendo riuscito a farne cambiare il comportamento, non sa cosa fare perché non vi sono testimoni d’infedeltà coniugale. Se il marito non vuole divorziare, al fine di riportare la pace in famiglia, la Torà prescrive una procedura che elimina ogni dubbio. Tutto questo è descritto in un lungo passo di ventuno versetti in questa parashà (Bemidbàr, 5: 11-31). Nella Torà la parola gelosia è indicata dal termine “kinà”, scritto con le lettere kof nun alef.
Rav Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 35) scrive che in molte lingue esistono termini diversi per esprimere le emozioni di gelosia ed invidia. Invidia consiste nel desiderare per se quello che altri hanno e a te manca. Gelosia denota desiderare tenere per se qualcosa che ti appartiene. In ebraico, entrambi i termini hanno la stessa radice. Per esempio, quando Lea ebbe alcuni figli mentre Rachel era sterile, la Torà ci dice che “Rachel ebbe invidia della sorella” (Bereshìt, 30:1). Invece nel caso del profeta Elia è scritto: “Sono stato geloso per l’Eterno” (I, Melakhìm, 19: 9-10). La radice “kanà“ nelle Scritture appare varie volte con il significato di invidiare. La stessa radice con il significato di essere geloso appare invece solo in due situazioni: nel rapporto tra l’uomo e Dio (Shemòt, 20:5) e, nella nostra parashà, nel rapporto tra marito e moglie. Il politeismo genera gelosia (kinà) e così pure l’adulterio. Tra i due casi vi è però una differenza fondamentale: mentre l’impegno (“commitment” nel testo in inglese) tra marito e moglie non è illimitato perché esiste l’istituzione del divorzio, l’impegno tra uomo e Dio è assoluto e per questo il politeismo non è tollerato. Per questo il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) quando tratta l’argomento di ‘avodà zarà (lett. culto estraneo) scrive che “la base di tutta la nostra Torà […] è l’eliminazione di queste opinioni” (Guida dei perplessi, III, 29, verso la fine del capitolo).
R. Meir Leibush Wisser detto Malbim (Ucraina, 1809 – 1879) nel Sèfer Ha-Karmèl (p. 302) scrive che la radice “kanà” nella Torà e nei testi dei profeti appare legata alle parole che seguono in tre modi: con la lettera bet, con la lettera làmed e con il termine et.
La lettera bet è usata quando una persona prova invidia di un’altra perché desidera avere lo stesso onore senza però provare alcun astio nei confronti di tale persona. Questo è l’esempio già citato di Rachel nei confronti della sorella Lea (Vatekanè Rachel ba-achotà).
La lettera làmed appare quando una persona è gelosa per un atto compiuto da qualcuno che disonora una persona a lui vicina, da lui amata. Un esempio è l’espressione “Ha-mekanè atà li?” (Sei geloso per me?) che Moshè disse al discepolo Yehoshua’ quando quest’ultimo chiese a Moshè di fare cessare la profezia a Eldàd e Medàd. Moshè rispose: “E magari che tutti avessero la profezia!” (Bemidbàr, 11:29). Un altro esempio è l’espressione “Kinèti le-Sion kinà ghedolà” (Io provo per Sion una grande gelosia) (Zekharià, 8:2). Il termine “et” (accusativo) è usato quando una persona invidia un altra persona per farle del male. L’espressione “mekanè et” (ha invidia di) significa che qualcuno crede che quello che un altro possiede venga a suo discapito. L’esempio è quello dei filistei che cacciarono Yitzchàk dal loro territorio quando videro che si era arricchito. Nella Torà è infatti scritto “Vaikanù otò pelishtìm” (I filistei lo invidiarono) (Bereshìt, 26:14). Questo fu anche il primo esempio di antisemitismo!