Alessandro Schwed
Nei giorni di Gaza, la voce del tg insegue. La cifra dei morti è un tassametro televisivo. La guerra in Iraq era in diretta, quella di Gaza al microscopio. La gente dice: “Proprio voi, che siete scampati alle camere a gas”, a proposito, ma sono esistite o no? Bisogna che si mettano d’accordo, Se gli ebrei, questo Cristo collettivo, non sono stati crocifissi a milioni e le loro ceneri sparse per tutti i cieli, chi è il Dio a cui si riferisce don Williamson: Pinocchio? Questo penso, nella traballante vita, dove ogni giorno è una panzana, e la panzana uno sputo in faccia. Sommersi da Gaza, da Williamson, dalla negazione della Shoah, da quella di Israele, dalla negazione del diritto di essere nazione che opera scelte, dal fatto che la scena su cui si sono accese le luci della riabilitazione lefevriana sia stata quella dei giorni della Memoria; e sommersi dall’accusa successiva di ossessionare il Papa per allontanare il vescovo negazionista, alla fine si vede chi sia il popolo ebraico: una minoranza lillipuziana.
Se avete una parabola, controllate la statura televisiva dei popoli: guardate se tra i network in lingua inglese, tedesca, araba, spagnola, cinese che coprono il pianeta di notizie, ci sia una tv satellitare in lingua ebraica. No. Ci sono semmai tv che appaiono americane e non lo sono: hanno il semicerchio del tavolo, le breaking news, due speaker. Sorridono. Lui giacca, lei tailleur. Dicono yes. In onda c’è Gaza e non si vede un’arma di Hamas. Sotto c’è scritto Al Jazeera. A onor del vero, se uno guarda la Cnn, la Bbc, è la stessa: bambini morti, carri armati israeliani. Come se a Gaza ci fosse una sola telecamera e le immagini fossero le stesse per tutti – ed è così. La notizia della guerra spropositata corre in discesa da un continente all’altro e quando atterra in Europa la guerra è ebraica. Poi la tv è cannibale. Ha bisogno di bambini. Hamas li offre ai buongustai europei su un piatto d’argento. L’atomica segreta di Hamas è stata realizzata da anni nei laboratori della condiscendenza mediatica. E dopo aver impattato le esternazioni negazioniste di Williamson, mi domando in che sindrome abitiamo: se in un orrendo revival; se in una nuova epoca antisemita che infiltra la Storia; se farò in tempo a vivere una vita normale.
La prima inizia a Firenze
Mi domando come io abbia potuto vivere così tante vite ebraiche. La prima inizia negli anni Cinquanta, A Firenze, la comunità scampata alla guerra è avvolta nel silenzio. Gli ebrei parlano unicamente tra loro; o tra sé, nel senso che la persona ebraica si è abituata a parlare a se stessa. Più di uno è talora senza senno, un alieno (quando ho “visto” mio padre, camminava per la casa avanti e indietro e pensava a voce alta). In quegli anni, ci sono ebrei che parlano a persone che non esistono più. C’è una donna polacca, è stata a Dachau. Ha dieci lauree, tutte con 110. Viene al Tempio e spinge una carrozzina con un bambino. Chiacchiera con il bambino è un bambolotto, simulacro del figlio. Sì, la comunità ha vergogna di stare con gli altri. Il mondo sa che abbiamo avuto la peste e che adesso ce l’ha anche chi non c’era. Gli incontri tra noi e loro sono brevi. Poi loro si girano e tornano nei propri giorni.
La seconda vita ebraica è quella dal ’59. La Pira passa tra i banchi di scuola, carezza le teste. Io penso: “Non morirò di nuovo”.
La terza vita: 1966. Una mattina al liceo mi tirano monetine.
La quarta vita: 1968. Corro tra le file della sinistra, tutto bene: basta non dire “Israele”. La mia vera bocca è chiusa come se non ci fosse. Sto con gli altri, siamo uguali. Ma a un concerto rock, un ragazzo con i capelli lunghi dice: “Hai visto che fanno i tuoi amici in Palestina?”. Lo guardo stupito: ma come, non abbiamo gli stessi capelli lunghi?
Quinta vita ebraica. Wojtyla entra nella sinagoga di Roma. Prega con gli Ebrei e con il Rabbino Toaff. Una lunghissima pausa di distensione.
La sesta vita scatta a Milano, il 25 aprile 2006. Vengono bruciate bandiere con la stella di David, i partigiani ebrei superstiti sono coperti di sputi. “Nazisti, fascisti”. Dentro, qualcosa si spezza. Durante la guerra in Libano, il titolare della Farnesina si accompagna per il corso di Beirut a un notabile Hezbollah. Hamas governa Gaza e nel giro di un’estate da milizia terrorista diventa forza democratica con cui dialogare.
Settima vita, i crateri. Con un sensibile distacco dal pontificato precedente, Benedetto XVI ripristina la preghiera di Pasqua per la conversione degli ebrei. Durante la guerra nella Striscia, un vescovo italiano dice che Gaza è un campo di concentramento. In curiosa coincidenza con i giorni della Memoria, i lefrevriani sono reintegrati nella chiesa ed esordisce la pastorale negazionista di Williamson.
La settima vita è stata piena come tutte le altre sei messe insieme. Posso morire e passare all’ottava: la massa mediatica che nella vita di ieri ha dato del nazista allo stato di Israele insorge contro Williamson e la chiesa che lo ha accolto senza riserve sostenendo che le sue sono opinioni e non hanno parte nel deposito della Fede. Se nel XXI secolo c’è una cospirazione, non è ebraica, ma nei confronti degli Ebrei; perché come l’acqua sta nei fiumi, vi scorre, ed è sempre stato così, allo stesso modo l’antisemitismo scorre placido e micidiale nel cuore d’occidente. Vorremmo sapere come sia possibile schiaffeggiare ed abbracciare gli ebrei a giorni alterni, a meno che non soggiaccia ancora l’idea profonda, e in effetti soggiace, che gli ebrei sono a disposizione.
La verità è che l’antisemitismo è la cocaina del mondo. Che nei giorni della guerra l’informazione non è di destra o di sinistra, ma un tornado antisemita. E mentre gli ebrei sono oggetto di slogan marxisti-jihadisti, così come di recrudescenze neofasciste, i collettivi universitari propongono di boicottare le istituzioni scientifiche di Israele e Storace di non finanziare il Museo della Shoah; mentre appunto si vede muro anti-israeliano dei media – spunta un nuovo personaggio comico: don Williamson, il veterinario delle anime ariane, la cui bocca ha attualmente l’onere di essere la toilette dell’universo. Immerso nella mia nuovissima ottava vita, mi chiedo come possa apparire soddisfacente la presa di distanza della chiesa verso questo anti-Cristo.
La chiesa dice: quelle di W. sono opinioni. Infatti. Ci sono opinioni che sono bestemmie contro lo Spirito. Basterebbe chinarsi su Williamson ed esaminare quale dissidio è nato appena è rientrato nella Chiesa e ha cominciato a parlare. Ciò mi ricorda il passo del Vangelo in cui Giuda si alza da tavola per andare a denunciare Gesù. II testo dice: “E subito satana entrò in lui”. Arduo non pensare che tale vicenda, un vescovo rientra nella Chiesa e come prima cosa nega la Shoah nei giorni della Memoria, non finisca col fare entrare satana nella Chiesa: legittimare consensi atroci, le svastiche sulle saracinesche ebraiche, i boicottaggi, gli squadrismi, e offrire altra terra alla pulsione iraniana di distruggere l’ebraismo vivente. Poi la giostra dell’ottava vita si è messa a correre. Il network democratico che ha accusato Israele di genocidio, sdeng, è schizzato fuori dal suo cubo come un clown a molla. Ora rivendica la memoria della Shoah. I persecutori di ieri, stamattina sono amici, e stasera chissà, in un’infinita galleria di specchi.
E’ questa la cantilena che dovremo sentire nei prossimi anni? Siete razza guerriera, no siete vittime universali, deicidi il venerdì e Fratelli Maggiori il sabato; iperbole e dura cervice, declassamento ed elevazione. Sarà bene dimenticare i violinisti che volano sui tetti, i saggi che sentano i cinque livelli della Torah. Il terrorismo e la democrazia anestetica ci impongono come pelle una materia elastica sino a perdere la forma originale e passare senza sosta da segmento a punto, e a segmento e a punto.
Non più Uomini d’Aria, Ma di gomma.
Alessandro Schwed – Il Foglio 4/2/2009
La scomparsa d’Israele http://www.bol.it/libri/scheda/ea978880457372.html
Alessandro Schwed, più noto con lo pseudonimo di Giga Melik, scrittore-scardinatore di schemi, esploratore di vari generi di narrazione, giocoliere della tragi-commedia. Fiorentino d’adozione, ebreo, torinese da parte materna e ungherese da parte paterna, Schwed appartiene di fatto alla folta schiera dei senza patria, con mezza patria o più patrie, della variopinta diaspora ebraica mitteleuropea. «Mio padre Imre era un ebreo ashkenazita, nato nel 1910 a Kishkunfelegihaza, una cittadina dell’Ungheria meridionale. Gli ebrei da quelle parti, come nel resto dell’Europa centrorientale, erano discriminati. Per questo decise di lasciare l’Ungheria».