Elena Loewenthal
Di “Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi” (Mondadori), opera seconda di Alessandro Piperno, e “Il cimitero di Praga” (Bompiani), il nuovo bestseller di Umberto Eco, si parlerà certamente ancora a lungo. Come è giusto che sia di fronte a queste due prove narrative importanti, destinate a segnare quanto meno la prossima stagione letteraria.
Fra critiche e apprezzamenti, perplessità ed entusiasmi, il dibattito ferve e le opinioni divergono. In quest’animazione, resta innegabile forse un’unica cosa, che vale per tutti e due i romanzi: al centro c’è l’essere ebrei, l’«ebreitudine», per dirla con un conio semantico bislacco quanto si vuole ma qui azzeccato. Nel caso del romanzo di Piperno, l’ebreitudine nella sua forma corporea, cioè attraverso personaggi ebrei. In quello di Eco nella deformazione astratta fornita dall’antisemitismo.
Sempre che esista, è dunque la questione ebraica a ispirare, nutrire e occupare questi due libri. Con tale invadenza che non si può non chiamare in causa la vecchia storiella sul tema di zoologia: parla dell’elefante. L’inglese svolge con il titolo «La caccia all’elefante», il francese con «La vita amorosa dell’elefante» e l’ebreo elabora intorno a «L’elefante e la questione ebraica» (è anche il titolo di una raccolta di saggi usciti tempo fa per La Giuntina a firma di Hugh Nissenson). Solo che adesso lo svolgimento è capovolto: «La questione ebraica e (se c’è posto, anche) l’elefante».
In carne e ossa o immateriale, l’ebreo si staglia al centro del palcoscenico culturale. Come se non si potesse fare a meno di lui per comporre una vicenda convincente, credibile, significativa. E dando per scontato che il pubblico sappia cogliere le sfumature e i sottintesi necessari per comprendere appieno vicende legate a un minuscolo gruppo di persone. Fino a non tantissimi anni fa uno scenario culturale di questo genere sarebbe stato impensabile: l’ebreo era la cosa sconosciuta, un extraterrestre che si situava alle origini della storia insieme ad assiri, babilonesi e fenici (tutto materiale umano estinto da un pezzo) e che per qualche imperscrutabile ragione rispuntava fuori a metà del secolo scorso, giusto per farsi sterminare da Hitler. Questo era – e in buona misura è ancora – l’ebreo dei manuali scolastici, la cui controfigura era – ed è – l’ebreo in carne e ossa praticamente irreperibile sul territorio della contemporaneità, visto che quasi nessuno degli scolari chini sul sussidiario di storia ne ha mai incontrato uno vero, nel senso di italiano e vivente.
La questione ebraica era essenzialmente un attestato di assenza, fino a non molti anni fa. Con le doverose eccezioni: quelle cioè degli ebrei che per diverse ragioni scrivevano di sé. Se già è difficile definire una letteratura ebraica italiana, resta ancor più arduo accostare le esperienze narrative degli scrittori ebrei a quelle di chi usa gli ebrei come argomento della narrazione. Primo Levi ha sempre detto di essersi riconosciuto in quanto ebreo per colpa delle leggi razziali: la sua scrittura è il frutto di un’identità malgrado se stessa. Per Bassani l’ebraismo è il terreno conchiuso entro mura che negano la vista, è il parossismo della discrezione. Umberto Saba è in un certo senso il simbolo di questo ritegno esistenziale. L’ebreo al centro del palcoscenico di oggi sembra invece il capovolgimento della riservatezza che questa figura ha sempre incarnato, tanto come soggetto quanto come oggetto del narrare. Tanta visibilità un po’ se l’è scelta nel suo nuovo rapporto con quel mondo esterno che, non dimentichiamo, gli ha aperto le porte non più di 150 anni fa, emancipando le comunità d’Europa. Un po’ la subisce, con un certo stordimento: la stampa di «settore» cade talvolta in preda a una incontrollabile vertigine mediatica – ovunque si parla di noi! Infatti i due romanzi usciti in queste ultime settimane stanno assediando bollettini mensili e periodici online di quel piccolo mondo antico che è l’ebraismo italiano, quasi incredulo di fronte a tanta popolarità – e di alto profilo.
Ricondurre questo fenomeno a una semplice moda è ovviamente riduttivo. Non ci esime dalla domanda sul perché. Come mai la narrativa italiana di questi ultimi tempi risulta così sensibile ai destini di un’esigua minoranza? Perché il protagonista – e non solo lui – di Persecuzione deve essere un ebreo, e perché Eco assegna alla creazione di un falso letterario antisemita un tale appeal narrativo da metterlo al centro della sua avvincente trama? Difficile dare una risposta che non sia un convenzionale richiamo al valore simbolico dell’esperienza ebraica, come paradigma dell’umana precarietà. C’è forse qualcosa di più profondo e indecifrabile nella disinvoltura con cui la si maneggia e trasforma in materia di scrittura. Come a dirci che se dell’elefante ormai la sappiamo lunga, la questione ebraica ha ancora la sua dose di mistero da sondare.