Considerazioni sul messaggio del Papa per il Centenario della Sinagoga
Tra i fatti più significativi della cerimonia di celebrazione del centenario della Sinagoga si colloca la partecipazione di una autorevole delegazione vaticana, guidata dal cardinale Ruini, che ha letto un Messaggio del Papa. Questa presenza per la sua importanza va molto al di là di un fatto locale e merita un’attenta valutazione per tutte le implicazioni che comporta nella storia dei rapporti ebraico-cristiani.
Il momento. Gli ultimi mesi sono stati molto difficili nelle relazioni ebraico cristiane. Sullo sfondo una situazione internazionale drammatica, dominata dal conflitto irakeno, dalla minaccia terroristica internazionale e dal costante conflitto israeliano-palestinese. C’è stato un raffreddamento del Vaticano nei confronti di Israele, con critiche ripetute, aperte o simboliche, alle scelte del governo Israeliano (“no ai muri, sì ai ponti”). Sul piano religioso la situazione si è deteriorata con le polemiche sul film di Gibson, “The Passion”. Mentre da parte ebraica si denunciava, con toni rispettosi, il rischio di un ritorno a situazioni preconciliari, ciò che ha fatto una particolare impressione negativa è stata la reazione ufficiale vaticana, che ha trovato tra l’altro espressione in dure risposte del dr. Navarro Vals, o in dichiarazioni in cui molto semplicisticamente si negava che il problema esistesse; contemporaneamente spiccava l’isolamento e la timidezza delle poche reazioni di autorità cattoliche che recepivano la sostanza e la fondatezza delle preoccupazioni ebraiche. E’ sembrata prevalere incontrastata la volontà di alcuni gruppi cattolici che, davanti alla possibilità di riscuotere un risveglio emotivo di sentimenti religiosi e il rischio di mettere in discussione 40 anni di pacificazione con gli ebrei non hanno avuto nessuna esitazione. Contemporaneamente un ulteriore segno inquietante è stata la pubblicazione delle memorie dell’ex rabbino capo di Roma, convertito al cristianesimo nel 1945, da parte di un’autorevole casa editrice cattolica, accompagnata da recensioni elogiative se non entusiastiche nel mondo cattolico, senza che si levasse neppure una voce critica.
L’invito al Papa. Durante l’udienza concessa dal papa al Rabbino capo Di Segni e al Presidente Paserman nel febbraio dello scorso anno il papa era stato invitato a ritornare in Sinagoga in occasione delle celebrazioni del Centenario. L’invito era stato ripetuto dai Rabbini capi d’Israele durante la loro visita in Vaticano del Dicembre 2003. A fine Gennaio 2004, una volta definito il programma delle celebrazioni, Paserman e Di Segni hanno mandato un invito formale scritto per il 23 Maggio (ma a differenza di Rav Toaff a loro non è stato attribuito uno “spirito aperto e generoso”). La risposta ufficiale è arrivata con una lettera del 12 Aprile, nella quale il Papa ringraziava per l’invito ma spiegava di non poter tornare in quanto considerava la sua visita del 13 Aprile del 1986 “un evento unico, del quale desidera non cancellare la memoria anche per il singolare valore simbolico che esso rappresenta”; riconoscendo tuttavia “l’importanza dell’anniversario” il Papa annunciava l’invio di una autorevole delegazione cardinalizia che avrebbe portato un suo messaggio. La notizia del rifiuto veniva a contrastare tutte le voci precedenti, provenienti da ambienti autorevoli e bene informati, che davano quasi per certa l’intenzione del Papa di ritornare. Altre spiegazioni ufficiali non ce ne sono state; ma la stampa ha raccolto l’interpretazione del rifiuto come espressione della volontà di influenti settori del Vaticano di non dare segnali troppo favorevoli all’ebraismo in un momento tanto delicato nello scenario internazionale in cui cresce l’ostilità anticristiana dell’Islam. In questa prospettiva la visita avrebbe compromesso una politica più prudente di “equidistanza” e “moderazione”.
Il Messaggio. Per quanto privata della presenza papale la delegazione che lo rappresentava è stata di grande autorevolezza ed è degno di nota il risalto che le è stato dato nella stampa cattolica; l’Osservatore Romano il giorno dopo ha dedicato all’evento un grande titolo di prima pagina, con estratti del Messaggio Pontificio e una fotografia della cerimonia che mostra l’ingresso dei Sefarim. Proprio nella stessa pagina, al contemporaneo evento dei 750 anni della basilica di Assisi (dove erano convenuti un gran numero di politici italiani, disertando la Sinagoga) era stato dedicato solo un modesto riquadro in fondo. Il Messaggio Pontificio è stato letto dal card. Ruini, davanti a un pubblico molto attento che lo ha interrotto con un applauso quando è stato ricordato rav Toaff. Il Messaggio è stato di ampio respiro, circa 1350 parole (la metà di quello letto nel 1986 nella Sinagoga) e ha toccato diversi argomenti: il rapporto teologico tra cristiani ed ebrei, il ricordo della persecuzioni e della shoà, l’attualità del conflitto in terra d’Israele e l’attualità romana. Lo spessore teologico del testo è notevole e vi si riconosce l’impronta di attenti conoscitori dell’ebraismo; per questo molti particolari propongono delle riflessioni.
La definizione dell’ebraismo. La riflessione su cosa rappresentino ebraismo ed ebrei per i cristiani è sviluppata solitamente in articoli di esperti o in documenti ufficiali molto articolati, di cui i Messaggi come questo possono solo proporre elementi riassuntivi, ma non meno importanti per l’impatto di massa. Degno di nota il fatto che gli ebrei sono qui definiti “popolo dell’Alleanza del Sinai” (che però non è l’unica alleanza nella teologia ebraica) e “popolo primogenito dell’Alleanza”, senza riferimenti a interruzioni o sostituzione del rapporto di Alleanza, ma con sottolineatura (citando da Paolo) della irrevocabilità della chiamata divina. Anche se non fa chiarezza sul problema, l’insistenza su questi punti potrebbe essere un contrappeso alle durezze che hanno caratterizzato negli ultimi anni le affermazioni dottrinali cattoliche più autorevoli. Ma il dato più rilevante e certamente positivo è che si usi ora l’espressione di “fratelli prediletti”, e non si faccia più riferimento ai “fratelli maggiori”; quest’ultima espressione usata nel 1986 fu certamente geniale e grazie ad essa l’uomo della strada capì che il rapporto con gli ebrei poteva essere di fratellanza; per il teologo o il conoscitore della Bibbia, invece, l’espressione poteva conservare il sapore della cattiveria dei biblici fratelli maggiori, da Caino a Esau insieme all’idea della perdita della primogenitura a favore del fratello minore. L’aver ora tralasciato questa espressione segnala sensibilità alle ripetute proteste in campo ebraico. Così come la citazione del “Dio della giustizia e della pace, della misericordia e della riconciliazione” appare molto più condivisibile e attenta alla visione ebraica del solito “Dio dell’amore” spesso usato in modo sdolcinato e con implicazioni antigiudaiche (nel senso che per gli ebrei il Dio è quello della giustizia e del taglione).
Il legame tra le due fedi e il senso del dialogo. Degna di attenzione la modalità di citazione delle fonti, da parte cristiana Paolo (Lettera ai Romani, capitolo 11, citata per ben tre volte), da parte ebraica Maimonide (Hilkhòt Melakhim). Sono due testi ben noti agli “addetti ai lavori”, quasi simmetrici per quello che dicono e per la contemporanea presenza di aspetti negativi e positivi nella valutazione dell’altro. Già la dichiarazione conciliare “Nostra aetate” si basò su Paolo, prendendone solo le cose buone; ma andando a controllare la fonte originale si rimane stupiti dall’ambiguità del messaggio (perché, ad esempio se Israele è la “radice santa” su cui sono innestati i pagani, gli ebrei -quelli di oggi – che non credono in Cristo sono rami tagliati). La novità attuale è la contemporanea citazione accanto a quelle di Paolo delle parole di Maimonide, paradossalmente prese da un testo cancellato per secoli dalla censura cristiana: un brano composto di due parti, una nella quale si rifiuta del tutto la pretesa messianica di Gesù, l’altra nella quale si dà comunque un senso positivo alla storia cristiana come preparazione ad una rivelazione piena. Il Messaggio cita ovviamente solo la seconda parte. Prendere solo il buono è certamente segno di buona volontà, ma il rischio è quello di non essere mai chiari fino in fondo. Infatti, mentre il Messaggio sottolinea il “vincolo inscindibile tra noi e voi”, “l’eredità spirituale che senza essere divisa, né ripudiata, è stata partecipata ai credenti in Cristo”, insiste sulla prospettiva di “adorazione unanime di Dio” (citando Maimonide), in modo che “sapremo unire i nostri cuori”, “percorrere con un solo cuore” le vie della pace, “vederci uniti nella preghiera”. C’è una grandiosa e condivisibile speranza di concordia, ma sempre con un’idea mai chiarita fino in fondo di una fusione in una adorazione comune; Maimonide non si riferiva certamente ad una adorazione comune di Cristo, ma a cosa pensa la Chiesa quando parla di “un solo cuore”?
Antisemitismo e shoà. Non sembrano esserci novità rispetto ai documenti noti. L’antisemitismo viene condannato, ma forse qualche parola andava spesa anche per l’antigiudaismo, visto che in questi ultimi mesi la differenza è stata sottolineata e qualcuno ha detto che l’antigiudaismo non è da condannare. Si parla di un passato di “incomprensioni, rifiuto e sofferenze”, senza tuttavia spiegare chi soffriva e chi rifiutava. Il ricordo della deportazione degli ebrei romani si accompagna ad una infelice espressione: “internati” ad Auschwitz, piuttosto che massacrati. Si ricordano, come è giusto e benedetto, tutti coloro che si sono prodigati per la salvezza degli ebrei; si semplifica, parlando persino di “pronunciamenti ufficiali” della Sede Apostolica in aiuto di Ebrei, sul doloroso tema dell’atteggiamento di Pio XII.
Il conflitto israeliano-palestinese. Fa impressione la durezza dell’espressione “il troppo sangue innocente versato da israeliani e palestinesi”, con una semplificazione solo apparentemente equidistante dei termini del conflitto. E’ un impatto politico abbastanza fuori contesto, che esprime costanti linee della politica vaticana e anzi le sottolinea in ragione del momento politico speciale. Si parla di Terra Santa (“per tutti noi”) ma anche di Terra d’Israele (non c’è lo Stato, ma almeno non c’è la Palestina).
La distanza da 100 anni fa: l’edificio sinagogale è “testimonianza di fede e di lode all’Onnipotente”; il suo centenario “non può non avere una risonanza del tutto speciale nel cuore del Vescovo di Roma” che “partecipa … al ringraziamento al Signore per questa fausta ricorrenza”. Ci si immerga per un momento in una prospettiva storica, si ricordi che cosa questo edificio monumentale rappresentò sia per la Basilica di S. Pietro sia per chi costruì la Sinagoga: ci si renderà conto di quanta acqua è dovuta passare tra i due edifici e di quante tragedie sono dovute accadere, prima che si potesse arrivare a queste parole. Gli inviti alla collaborazione e alla cooperazione concreta sono benvenuti e reciproci. Il Messaggio Pontificio e le circostanze che l’hanno accompagnato possono sollevare, come si è visto, molti interrogativi, c’è qualche passo avanti, qualche pausa e forse qualche arretramento. Ma se si assume una prospettiva nel medio e lungo termine sicuramente è una tappa importante del complesso percorso storico. Gli Ebrei romani sanno aspettare e sanno anche che l’affermazione della propria indipendenza e dignità sarà sempre premiata.
Dal mensile Shalom
http://www.shalom.it/modules.php?name=News&file=article&sid=189