A sei mesi dalla nomina a Rabbino Capo intervista al Rav Riccardo Di Segni
In occasione dei primi sei mesi di incarico quale Rabbino Capo della Comunità ebraica di Roma, SHALOM ha intervistato Rav Riccardo Di segni per fare con lui il punto della situazione sui molti temi che hanno investito la Comunità e l’ebraismo in questi ultimi mesi.
Sono passati appena sei mesi dal suo insediamento: un arco di tempo molto breve, eppure segnato da molti fatti interni ed esterni alla Comunità. Può darne un breve commento?
In questi mesi purtroppo si è verificata un’emergenza politica e militare in Israele che ha condizionato un avvio sereno del lavoro in Comunità; è stato necessario concentrare molte energie sul problema Israele, e l’emergenza purtroppo non è ancora finita. Siamo stati sottoposti ad un forte impatto mediatico per il quale abbiamo dovuto dare una serie di risposte, ed è stato necessario anche intervenire con riflessioni e commenti su molti mezzi di comunicazione ed internamente. Tutto questo ha provocato la nostra necessità di aprirci verso l’esterno e di reagire, e di vedere in quale misura compattare le nostre fila intorno a questi problemi. È stata un’emergenza che ha portato via molte energie, e al di là di questo la Comunità di Roma è risultata una comunità viva, piena di tensioni positive, ma anche di grandi problemi sui quali cerchiamo di intervenire individuando le persone giuste che possano risolverli; esiste un arco complesso di interventi, che vanno dal rapporto con importanti rappresentanti del mondo politico e del mondo religioso, passando per l’assistenza ai problemi sociali piccoli e grandi della Comunità, fino al cercare di dirimere vertenze che si trascinano da tempo o che scoppiano da un momento all’altro.
Abbiamo assistito ad un “cambio della guardia” dopo 50 anni di rabbinato come quello di Rav Toaff, ed è stato inevitabile un confronto sui diversi metodi e le diverse impostazioni. Quali sono i punti in comune e quelli che sembrano invece discostarsi dalla linea tracciata in questi anni?
Esiste un problema di caratteri, di personalità, di approccio alla soluzione dei casi, che dipendono dall’esperienza personale, dal mondo da cui si viene e in cui si è cresciuti, e ciò determina i differenti stili nell’affrontare certi argomenti; credo che la presenza di Rav Toaff sia stata decisiva fin dal momento in cui è giunto, perché ha messo alcuni punti fermi, delle linee di tendenza estremamente importanti, come quella della crescita culturale in una situazione di terribile difficoltà nella quale la Comunità condivideva emozionalmente certi valori ma non li metteva in pratica se non in maniera marginale.
Credo che la mia attività, come difensore della pratica religiosa e come promotore della cultura e di questi valori, sia raccogliere la fiaccola di Rav Toaff e portare avanti il discorso che lui ha impostato in modo serio fin dal momento in cui è arrivato. A mio pare quindi esiste una continuità, anche se con uno stile differente, che si può notare essenzialmente nel cammino di crescita verso la Torah e la Halachà. Purtroppo certe piccole differenze di stile possono essere intese, per chi non è addentro alle “cose tecniche”, come improvvisi rigorismi, ed è quasi divertente vedere come la fantasia, in caso di mancanza di notizie certe (condita con il gusto del pettegolezzo che purtroppo condivido anch’io) abbia dato luogo ad una lunga serie di leggende metropolitane sulle quali si potrebbe fare una rubrica su SHALOM: avrei proibito la farina durante Pesach (mentre invece sono state semplicemente consigliate delle avvertenze precise sul come usarla); per il prossimo anno proibirei persino il riso (io che a Pesach mangio quasi solo riso e non so cosa altro potrei mangiare).
Poi ci sono tutta una serie di fantasie sull’abbigliamento femminile: certo, non sono a favore di abbigliamenti scomposti, ma mi hanno attribuito minacce sull’abbigliamento femminile durante le prossime feste, tipo la gonna lunga per le dipendenti della Comunità, che ci manca solo lo chador… Mi hanno anche attribuito un’ipotetica sospensione della cerimonia del Bat Mitzvà, che invece mi trova assolutamente consenziente ed anche sostenitore, perché vorrei che le Benot Mitzvà fossero parte attiva per avere un ruolo anche loro, e facessero qualche derashà alla fine della Tefillà in modo che non sia per loro e per le loro famiglie solo una cerimonia vuota. E’ successo che una volta, in mia assenza, il Rabbino Funaro abbia cantato la benedizione sacerdotale durante una cerimonia del Bat Mitzvà, cosa che Rav Toaff non aveva mai fatto, e allora hanno a detto che l’ha dovuto fare perché io comunque non lo avrei fatto.
La verità è che su alcune cose ho chiesto una riflessione, questo è innegabile: ad esempio ho chiesto una riflessione sul tema della conversione di minori (ed anche su questo stanno girando voci in parte create ad arte, anche se esprimono una giusta perplessità da parte dei singoli interessati); ma gli interessati sanno che tutti coloro che hanno avuto questo problema sono stati non solo ascoltati con attenzione ma gli è stato proposto un programma di attività creato appositamente per loro, cosa mai fatta in precedenza. E’ veramente un bene che la comunità partecipi al dibattito, critichi ed anche insorga contro ciò che non condivide, perché altrimenti sarebbe un segno negativo di indifferenza o di assuefazione. Ma sarebbe bene che le critiche fossero rivolte alla luce dei fatti, non di leggende che si trasmettono con la velocità della luce e sono prive di qualsiasi fondamento.
Identità, educazione e assimilazione sono i problemi principali a cui devono far fronte tutte le Comunità. Come ci si sta muovendo su questi fronti?
Uno dei pilastri dell’educazione è la scuola ebraica. Sto premendo per una politica di grandi ammissioni verso la scuola ebraica. I numeri che abbiamo quest’anno ritengo che siano superiori rispetto a quelli degli anni precedenti. Bisogna premere per potenziare le strutture esistenti: in questa Comunità c’è un’incredibile quantità di strutture educative e vanno potenziate. Oltre alla scuola esiste una rete di Batè Kenesiot che sta consolidandosi. Ce ne sono per tutti i gusti e per molti i quartieri: con la formula della derashà, con la formula del Kiddush, con la formula “cultura e socializzazione”. Ora interverremo anche architettonicamente, ma queste cose non si possono fare da un giorno all’altro: subito dopo i Moadim faremo le modifiche necessarie affinché alcuni di questi luoghi siano più ospitali e ridivengano il centro della vita spirituale degli ebrei romani.
L’ebraismo italiano è un ebraismo ortodosso. Esiste oggi per la nostra piccola comunità un pericolo di frammentazione dovuto alle correnti “conservative” e “riformate”?
Nella Comunità esistono alcuni segnali di frammentazione, segni di disgregazione che sono a vario potenziale e a vario indirizzo; anche sul fronte della cosiddetta “religiosità” potrebbero esserci dei segnali in questo senso, ma noi cerchiamo sempre di spiegare il nostro modello di convivenza. Per quanto riguarda altri gruppi, non esistono ancora strutture organizzate, né so se ne verranno, ma comunque l’imitazione del modello americano non è applicabile. Abbiamo modelli culturali completamente differenti, quindi si tratterebbe di un’imitazione pedissequa, neanche ben riuscita. Dal punto di vista storico l’ebraismo italiano si basa su un accordo fondamentale: l’accordo di convivenza tra il rabbinato ortodosso ed una Comunità libera, che si identifica con l’ebraismo dal punto di vista storico, nazionale, culturale e religioso. C’è una identità di popolo nella nostra Comunità, che convive con un rabbinato che non è mai stato “insopportabile” malgrado i suoi rigori; questo è un modello saggio e sereno di convivenza. Ovviamente un po’ di dibattito fa anche bene, ma se si mettesse in discussione questo punto fondamentale rischieremmo di spezzare questo prezioso esempio di unità.
Quali saranno i principali progetti e impegni dell’Ufficio rabbinico e del Collegio rabbinico per il futuro?
L’ufficio Rabbinico è stato riorganizzato con una divisione di ruoli. La parte casherut continua ad essere controllata da Joseph Pino Arbib, ed abbiamo stabilito dei contatti molto importanti con la costituenda Autorità per la kasherut (European Council of Kashrut, ECK) dell’Assemblea dei Rabbini d’Europa per il controllo della kasherut; faremo quindi parte di una struttura internazionale e ci stiamo adeguando agli standard richiesti. Tutto il resto del lavoro dell’Ufficio Rabbinico viene svolto dal Direttore dell’Ufficio, Rav Alberto Funaro, di recente nomina. Stiamo organizzando una serie di attività piccole, medie e grandi, e stiamo valutando come potenziare e dare maggiore peso nella vita comunitaria al Tribunale Rabbinico. Il ruolo al Collegio Rabbinico non è invece un incarico che riguarda il Rabbinato di Roma, ma un impegno triennale che scade a settembre e non so se sarà rinnovato.
Gli ebrei e Israele occupano ogni giorno le pagine dei giornali: è un bene o un male questa grande esposizione mediatica?
Bisogna distinguere tra i vari aspetti del problema. Il fatto è che da sempre lo Stato di Israele ha una grande rilevanza nei mezzi di informazione. Ciò che è riuscito in questi ultimi tempi alla Comunità ebraica italiana è stato contobilanciare un po’ di più l’informazione distorta, e da questo punto di vista è un bene che in una situazione del genere sia stata data importanza al nostro pensiero, alla nostra voce ed alle nostre iniziative. Sulla situazione in cui ci siamo trovati – e in cui ci troviamo ancora adesso – bisognerà riflettere a distanza di tempo come ad una rivoluzione epocale, perché la mentalità degli ebrei emancipati era quella che gli ebrei dovessero essere dei personaggi invisibili nella società, che di essi si dovesse parlare il meno possibile; poi invece ci hanno pensato gli antisemiti a fare degli ebrei qualcosa di ossessivo. Se oggi apriamo una pagina dei giornali troviamo inevitabilmente, con un peso considerevole assolutamente sproporzionato alle forze numeriche, argomenti riferiti al pensiero ebraico, a questioni ebraiche, a qualche scrittore ebreo: la cultura ebraica pesa e continua a pesare. In questo momento gli ebrei italiani hanno comunque anche una loro pubblicità: che sia un bene o un male lo sapremo tra qualche decennio. Quello che è importante è utilizzare questa voce che ci viene data per far valere i nostri diritti, per fare le richieste giuste. Più che chiedersi se sia bene o male, chiediamoci come sia opportuno utilizzare questa cassa di risonanza in senso costruttivo per noi e per la società che ci circonda.
Da quali tipi di antisemitismo ritiene che ci si debba difendere maggiormente oggi?
In questo periodo sono stato molto cauto sull’uso del termine antisemitismo perché gridare “al lupo al lupo” in questo momento in Italia mi sembrava esagerato, ed ho cercato di frenare un po’; esistono comunque dei segnali preoccupanti che possono sfociare in antisemitismo. Questi segnali vengono dalle tendenze classiche, quali la matrice religiosa cristiana, la matrice religiosa islamica improvvisamente rispuntata, e poi le varie matrici politiche in cui prevale il pauperismo sotto forma di terzomondismo. In Italia non si è arrivati all’aggressione dell’ebreo (l’intervista è precedente al pestaggio subìto dal consigliere radicale Yasha Reibman – ndr) o alle manifestazioni di antisemitismo militante che abbiamo visto in altre parti d’Europa, ma non stiamo ignorando il problema, anzi lo stiamo vigilando, denunciandone ogni tipo di manifestazione che potrebbe degenerare. Ma non bisogna esagerare in questo grido all’antisemitismo.
Quale è attualmente lo stato dei rapporti interreligiosi con il Vaticano e con l’Islam?
Al momento sono in corso e sono stati programmati degli incontri personali con i rappresentanti dei vari mondi religiosi per cercare di risolvere i problemi che ancora sussistono. I segni che abbiamo avuto nei mesi precedenti sono stati non dico allarmanti ma sconfortanti: segni regressivi in cui, all’affermazione dignitosa dei nostri principi, si è risposto con accuse di intransigenza e di rigorismo; anziché l’ascolto, abbiamo trovato la diffamazione. Speriamo che la situazione cambi in meglio nei prossimi mesi.
Alcune recenti manifestazioni hanno esasperato gli animi. Come si dovrebbero comportare gli ebrei di fronte alle provocazioni? L’uso della forza è uno strumento consentito dall’Halachà e, se si, a quali condizioni?
Dovremmo comportarci in maniera più abile, più cauta, senza rinunciare alla forza civile della dimostrazione. Esistono forme di critica verbale che possono essere anche molto aspre e che potrebbero ottenere risultati migliori. Se si usa la violenza a sproposito si passa automaticamente dalla ragione al torto quindi, prima ancora di fare un discorso di Halachà (che condanna comunque la violenza ingiustificata), si tratta di un problema di maturità politica, sul come esercitare certe forme di protesta.
Come si prospetta il futuro del suo lavoro? Sempre più impegnato nel gestire le relazioni pubbliche e politiche con le Istituzioni, o come Maestro di Torà? E come si conciliano queste due attività, esterne ed interne alla Comunità?
Si conciliano molto male; bisogna progressivamente arrivare a deleghe sempre più ampie e precise. Quello di Roma è un osservatorio del tutto particolare, che costringe a fare cose che altri rabbini non sono tenuti a fare. C’è un ruolo trasmesso dalla Storia che non possiamo esimerci dal portare avanti, ed è molto difficile trovare il tempo per conciliare le varie esigenze.
Le statistiche sull’assimilazione sono preoccupanti. Lei vede, a medio e lungo termine, un pericolo per la sopravvivenza della comunità ebraica romana ed italiana?
Le statistiche sono fatte con delle proiezioni: si traccia una linea e questa inevitabilmente va poi verso il basso e precipita. Il ruolo delle Comunità, e dei Rabbini in particolare, è far sì che questa linea cambi direzione. La statistica è una sfida nei nostri confronti: c’è bisogno dell’aiuto del Cielo, della volontà di tutti quanti e di una ferma difesa dei princìpi, ma se si capisce che è impossibile tornare indietro, in Comunità come quella di Roma che hanno un enorme potenziale di vitalità ebraica e la linea deve assolutamente essere invertita. In altre comunità più piccole la situazione è più difficile da gestire, perché spesso queste cose dipendono da un numero critico di iscritti al disotto del quale certi fenomeni rischiano di essere irreversibili. Comunque, almeno per quanto riguarda Roma, le risorse ci sono, come ci sono gli entusiasmi: bisogna portarli avanti e condurli verso una sempre maggiore crescita.
È possibile essere ottimisti e sperare in un futuro di pace e convivenza in Medio Oriente?
L’ottimismo è l’ultima cosa che possiamo permetterci di perdere.
M.C.