Ieri si è spento, dopo una vita di sofferenze, un grande talmìd chakhàm, un saggio d’Israele: Itzchàk Shelomò Siegelmann. Barùkh Dayàn Haemèt! Ci piace ricordarlo ripubblicando un suo articolo che ben esprime le sue doti di uomo di halakhà e uomo di pensiero. Rileggiamolo con attenzione. Gli tzaddikìm vivono attraverso le loro parole.
Itzchàk Shelomò Siegelmann
La Torà, cioè il Pentateuco, prende il nome dalla radice ebraica horaà, ovvero insegnamento, indicazione. La Torà è fedele al suo nome e in ogni sua lettera, parola e frase indica all’ebreo la strada da seguire e il comportamento da assumere. Ed essendo la Torà eterna, le sue direttive sono valide in ogni luogo e in ogni tempo. Diventa quindi fondamentale la capacità di lettura del testo scritto e infatti alla Torà Shebikhtàv (TSK) si accompagna la Torà Shebe’àl Pe (TSP) (tradizione orale) – ambedue di origine divina e ambedue trasmesse contemporaneamente al popolo ebraico.
Dove i testi della TSK sono gli appunti annotati dallo studente durante una lezione la quale è appunto la TSP. Gli appunti servono come traccia per lo studente per ricordarsi delle lezioni. Colui che non era presente alla lezione può certamente leggere gli appunti ma non potrà mai essere sicuro di avere ricostruito fedelmente la lezione. Lo studio della TSP (il Talmùd, la Tosefta, i midrashìm, lo Zohar ecc.) diventano quindi essenziali per la comprensione della TSK.
La TSK è composta da due filoni che si intrecciano nel testo, una legale dove vengono enunciate leggi civili, penali, personali e ritualistiche e un’altra narrativa dove vengono raccontati vari episodi della storia dei primi due millenni.
Contrariamente a quanto possa apparire a una lettura superficiale questi racconti non sono né Storia né storielle. Non è Storia perché per esserlo vi mancano eventi storicamente più rilevanti. Non è una raccolta di storielle perché sono omessi molti aneddoti sui protagonisti molto più avvincenti di quelli riferiti. Questa parte narrativa è anche essa Torà e quindi normativa, ma una normativa di tipo etico-comportamentale. Gli episodi narrati hanno uno scopo pedagogico, come modello a cui ispirarsi nelle diverse situazioni nelle quali l’individuo o una collettività possono venirsi a trovare. Gli avvenimenti del libro di Bereshìt (Genesi) che hanno come protagonisti gli Avòt (i nostri antenati: Avrahàm, Yitzchàk, Ya’akòv e consorti) sono quelli che la Presenza divina ha ritenuto che sarebbero stati utili ai loro discendenti quando il corso degli eventi li avrebbe portati in situazioni analoghe. Come dicono i nostri Maestri: “Ma’asè avòt simàn lebanìm” (letteralmente: le gesta dei nostri antenati sono indicazioni per i loro figli) che può essere interpretato, tra l’altro, come: le situazioni e gli episodi che vedono come protagonisti gli Avòt precorrevano episodi e situazioni nei quali la saggezza divina prevedeva che i figli d’Israele si sarebbero trovati in futuro. I dettagli che vengono inclusi sono quindi di rilevanza fondamentale, nel trarre da essi indicazioni a noi utili.
Nella TSP l’Impero Romano viene spesso descritto come il Malkhùt Edom (il regno di Edom) e conseguentemente la Diaspora nella quale noi ebrei ci troviamo a seguito della distruzione del Bet Hamikdàsh (Tempio) a opera dei Romani viene definito come Galùt Edom (esilio di Edom). Questo termine di Galùt Edom viene anche utilizzato per descrivere la presenza ebraica nel mondo europeo-occidentale la cui cultura nasce dal sedimento culturale romano. L’identità di Edom viene così descritta dalla Torà: “Ed Esàv risiedette sul Monte Seìr, Esàv è Edom”. Quindi Esàv è Edom. Ed è risaputo che noi ebrei siamo discendenti di Ya’akòv (Giacobbe), quindi gli episodi che la Torà narra sui due gemelli Ya’akòv ed Esàv e i rapporti fra loro acquisiscono un valore rilevante come fonte di riflessone sulla natura del rapporto tra gli Ebrei e il Mondo occidentale nelle sue problematiche e nelle sue soluzioni. Con particolare riferimento, come vedremo, al confronto tra due Weltanschaungen di valori e principi. Un accenno a questo dualismo (Ya’akòv-Esàv) e la sua natura prevalentemente conflittuale si ricava dal versetto che tratta della risposta divina all’interrogativo di Rivkà sui suoi dolori durante la gravidanza. Il testo attribuisce i dolori della gestante alla lotta tra i due feti nel grembo materno, precursore questo del contrasto tra due culture? Rashì identifica queste due culture, dalla particolare ortografia usata dalla Torà, come quella ebraica e quella romana rappresentate rispettivamente da Rabbì (l’autore della Mishnà) e Antoninus (imperatore romano) prototipi dell’ebreo e del romano.
Un illustre precedente nell’utilizzazione dei brani della Torà che ha come protagonisti Ya’akòv ed Esàv la troviamo nel comportamento di Rav Yannài che consultava questi episodi della Torà per trovare indicazioni sull’atteggiamento da prendere quando svolgeva il suo ruolo di ambasciatore degli interessi ebraici a Roma.
La nascita dei due gemelli viene così descritta nella Torà: “E uscì il primo tutto rosso tutto coperto di peli come una pelliccia, e fu chiamato Esàv. E dopo uscì suo fratello, e con la mano afferrava il calcagno di Esàv e fu chiamato Ya’akòv”. I commentatori8 deducono, dalle descrizioni di alcuni dettagli dell’aspetto fisico dei due neonati e dalla successione dei parti, indicazioni sulle predisposizioni caratteriali di Ya’akòv ed Esàv. Il rossore di Esàv, dunque la vitalità dimostrata con il suo volere uscire per primo; il suo aspetto curato, come avvolto da una pelliccia vengono interpretati come una tendenza all’essere sensibile al giudizio degli altri, di attenzione verso il mondo che lo circonda, un mondo da sedurre e da conquistare. Esàv alla nascita sembra una persona già fatta, quindi il nome Esàv (dall’ebraico ‘asà – fare), indica una persona pronta a godere di questo mondo
Per contrasto, Ya’akòv apparentemente più pallido e più gracile, dimostra una personalità più introversa, poco interessata al mondo esteriore, teso a cercare in se stesso le ragioni del suo essere. Ma la mano che afferra il calcagno di Esàv rileva una tendenza a inseguire il fratello. Queste espressioni caratteriali e attitudinali hanno modo di svilupparsi nel periodo della crescita e di sviluppo dei due gemelli: la Torà ce li descrive così9: “E i ragazzi crebbero (?) e fu che Esàv divenne un esperto di caccia, un uomo di campo e Ya’akòv un uomo semplice, che abitava nelle tende”.
L’interpretazione del versetto è10: Così come da Ya’akòv – ish tam – denota la natura del suo carattere, e – yoshèv ohalìm – la natura della sua vocazione, così da Esàv – ish yodè’a tzàid – sarebbe la natura del suo carattere, e ish sadè – la vocazione.
Tzàid deve essere interpretato come l’arte di caccia furtiva, l’apparire esternamente innocente, la capacità di autocontrollo nell’agguato alla preda. Il temperamento di Esàv lo porta a essere un ish sadè – un uomo da esterni. In contrasto Ya’akòv era un ish tam – una persona che conosce una sola direzione e si dedica completamente a essa, diventando così un yoshèv ohalìm – una persona che riconosce ed insegna che la più nobile missione della vita consiste nell’ottenere le conoscenze e le pratiche che può essere ottenuta negli ohalìm, nelle case dell’umanità.
Questi versetti indicano i differenti orientamenti di Ya’akòv ed Esàv. Esàv guarda al suo esterno, al mondo, agli altri; Ya’akòv al suo interno, ai suoi valori: Esàv desidera godere del mondo materiale, pretende le cose dagli altri, fa di tutto per conquistarle; Ya’akòv cerca di crescere spiritualmente per poter esercitare una benefica influenza sull’umanità. Esàv vuole prendere, Ya’akòv vuole dare.
Dice il Midràsh11: “Perché (Edòm) è paragonato a un suino? Perché come il suino, quando si accovaccia, estrae i suoi zoccoli (che sono fessi) e dice – guardate che sono puro – così il Regno di Edòm si comporta prepotentemente, spadroneggia e rapina e dopo si atteggia come colui che amministra giustizia”.
Esàv/Edòm ha pretese sugli altri, vuole imporre il suo potere, ha le interiora impure, però vuole apparire puro e mostra i suoi zoccoli e dice di agire legalmente. Esàv ha le interiora impure, le sue motivazioni sono il potere, la conquista e il dominio sugli altri, ma vuole dissimulare la sua natura conferendogli una parvenza di rispettabilità e legalità e mostra i suoi zoccoli fessi. .e sue pretese verso gli altri sono soltanto rivendicazioni legittime dei propri diritti. Il mondo occidentale, figlio di Edom è la cultura dell’aggressività e della rivendicazione mascherata come cultura del diritto. Tutti hanno pretese sugli altri camuffata nella sacralità dei diritti. Diritto dell’individuo, diritto delle donne, dei giornalisti, della politica, della magistratura ecc. fino ad arrivare al diritto di ingerenza umanitaria. Tutto per asserire il suo potere sugli altri ma sempre nel rispetto apparente della legalità.
E i doveri? Ya’akòv, prototipo dell’ebraismo, guarda a se stesso, cerca di acquisire potere su se stesso e sui suoi istinti. Dice Ben Zomà12: “Chi è potente? Colui che sottomette i suoi istinti”. Egli ha solo mitzvòt, doveri. Doveri verso il Creatore, doveri verso se stesso, verso il suo corpo, verso la sua anima, doveri verso i suoi familiari, doveri verso la comunità, doveri verso l’umanità e perché no? Doveri verso gli animali. Ogni ruolo ha dei doveri verso gli altri; il marito verso la moglie, il giudice verso gli imputati, il re verso i sudditi, oltre che verso il Creatore. La Torà parla solo di doveri, i diritti sono solo riflessi dei doveri. (Per esempio: un ebreo ha il dovere di fare tzedakà a un povero; ma chi è considerato povero per avere diritto di riceverla? E non: il povero ha diritto a chiedere tzedakà e quindi il benestante ha il dovere di farla).
Questo è il confronto millenario tra Ya’akòv ed Esàv tra l’ebraismo e la cultura occidentale. Tra la cultura dei doveri e la cultura dei diritti. Tra il potere su se stessi e il potere sugli altri.
Questa contrapposizione tra i due atteggiamenti è resa evidente dall’incontro tra Ya’akòv e Esàv. La reazione agli avvenimenti è emblematica. Esàv informato del passaggio del fratello, che non vede da oltre 30 anni, sente l’impulso immediato di rivendicare quello che ritiene suo diritto e lo fa andandogli incontro con 400 uomini armati. Ya’akòv, a sua volta informato dell’imminente arrivo del fratello, si sente in dovere di inviargli delle offerte.
Anche la descrizione delle loro rispettive situazioni patrimoniali che i due fratelli si scambiano nello storico incontro, sono rilevatrici dei loro valori. Esàv dice: “Io ho molto”. Ya’akòv, da parte sua, afferma: “Io ho tutto”. Esàv, che ha già fondato il suo stato, ha un esercito potente: ha accumulato ricchezze, ha solo “molto”, non “tutto”. La sua ingordigia non ha limiti.
Ya’akòv, d’altro canto, profugo da Lavàn, perseguitato da Esàv, senza dimora fissa, dichiara di aver tutto. La cultura dei doveri gli ha insegnato a misurarsi sul controllo che ha su se stesso. Non ha ambizioni di potere e di proprietà sugli altri e sui loro averi. Egli può orgogliosamente affermare: “Ho osservato le 613 mitzvòt” (precetti) ovvero la mia cultura è quella dei doveri. Quella tendenza a imitare i valori di Esàv per la quale gli è stato attibuito il nome di Ya’akòv (colui che segue, vedi inizio articolo) è stata superata. Egli ha saputo dominarla come simboleggiata dalla lotta vittoriosa contro l’angelo di Esàv e gli è valso il nome di Israèl (da sar – dominare). Due culture a confronto, l’essere verso l’avere, i punti di riferimento rispettivamente al proprio interno e verso l’esterno, i doveri verso i diritti. Ya’akòv ed Esàv ieri. L’ebreo e il mondo occidentale oggi.
La cultura dei doveri e il modello di umanità che essa produce suscita l’ammirazione di Esàv e nei secoli l’ammirazione e l’invidia del mondo occidentale. Esàv abbandona le sue intenzioni bellicose e fa una proposta; “E disse partiamo e andiamo, e terrò il passo con te”.
Esàv fa una proposta di convivenza pacifica a Ya’akòv: “Io rispetterò i tuoi diritti e tu i miei; io continuerò a vivere nella cultura dei diritti e tu in quella dei doveri. Percorriamo un pezzo di strada insieme, apriamo un dialogo, un confronto fra i nostri modi di vivere nel rispetto reciproco”. Ma l’obiettivo è sempre quello di arrivare a Edòm, di portare Ya’akòv alla cultura dei diritti.
La risposta di Ya’akòv è emblematica20: “Il Signore sa che i bambini sono delicati e il gregge e la mandria devono ancora crescere e se io li forzo anche un solo giorno, morirà tutto il gregge”.
Il versetto viene così interpretato: i bambini, coloro che non sono ancora svezzati dallo stato primordiale della cultura dei diritti, il gregge e la mandria, il popolo (Israele viene spesso paragonato a un gregge) che deve ancora crescere e raggiungere la piena consapevolezza della cultura dei doveri, se vengono sottoposti alle pressioni della cultura dei diritti; corrono un rischio potenzialmente letale per la loro sopravvivenza spirituale. Con questa affermazione Ya’akòv ci insegna l’importanza dell’addestramento dell’ebreo ai doveri; alle mitzvòt, della formazione del suo carattere e dei suoi valori prima di esporlo ai valori della cultura dei diritti del mondo occidentale.
Ya’akòv infatti afferma22: “Io andrò avanti al mio passo lentamente, al passo del lavoro che è dinanzi a noi, al passo dei bambini, fino che arriverò al mio signore a Seir”.
Soltanto quando l’ebreo è cresciuto spiritualmente ed è saldamente piantato nella cultura dei doveri; quando ha sconfitto la sua tendenza naturale a tenere il calcagno di Esàv e il suo sistema di valori ed è diventato Israèl, colui che domina il proprio carattere e i propri istinti, solo allora l’ebreo potrà svolgere la sua missione di civiltà nel mondo occidentale. Soltanto l’Ebraismo cultura dei doveri, può svolgere la sua missione nel mondo dei diritti e indicare all’umanità la via della solidarietà e della pace.
Dalle pagine della Torà Ya’akòv Avìnu ci indica la strada della sopravvivenza dello specifico ebraico nel Galùt Edòm, nel mondo occidentale. Educare e crescere i giovani nella cultura delle mitzvòt, dei doveri. Soltanto quando questa cultura è profondamente radicata in noi possiamo reggere alle lusinghe della cultura dei diritti del mondo occidentale ed essere un esempio di civiltà e di cooperazione.
Ma Ya’akòv Avìnu ci ha anche fornito di uno strumento semplice ed efficace per misurare la nostra aderenza alla nostra cultura specifica. Basta osservare i nostri discorsi: se prevale la nozione di Diritto, l’Onnipotente ce ne scampi, è un sintomo della nostra assimilazione nel mondo occidentale e nella sua cultura. Se invece nelle nostre parole prevale il concetto di dovere, è una indicazione che siamo rimasti fedeli alle nostre tradizioni e ai nostri valori.
Ottobre 1999