Storia di Idit, figlia di sopravvissuti all’Olocausto. Una “comune” sionista, socialista e atea, ma carica di una responsabilità verso la vita che sa di antico. Continua il viaggio di Tempi nelle periferie esistenziali.
Angelica Calò Livné
Idit Pintel-Ginsberg inizia a parlare con un sorriso: «Sono nata a Parigi. Quando avevo 10 anni mio fratello mi regalò un libro di storie ebraiche, Contes et Légendes d’Israël. Amavo molto quel libro misterioso che mi affascinava e che non riuscivo a capire. Si narrava di uomini pii che vedevano apparire il nome di D-o avvolto nelle fiamme. Della verga di Abramo che aveva il potere di dare origine all’albero della vita. Uno dei racconti si chiamava “Il luogo dove fu costruito il Beit HaMikdash” (il Tempio di Gerusalemme, ndr). Era la storia di due fratelli: uno viveva solo nella sua casetta e l’altro aveva moglie e figli.
«Quando il padre morì lasciò loro un campo. I due uomini lavorarono alacremente per ottenere un bel raccolto ed ecco, alla Festa delle Pentecoste giunse l’ora di raccogliere i frutti della loro fatica. Dopo il primo giorno di lavoro, durante la notte il fratello sposato disse a sua moglie: “Non riesco ad addormentarmi, penso a mio fratello, da solo nella sua casa vuota, non c’è chi si curi di lui, chi lo accolga al ritorno dai campi. Noi abbiamo tutto ciò che desideriamo: abbiamo la famiglia!”. Così si levò nella notte, andò nel campo, raccolse dei covoni e li poggiò sul carro del fratello, che nello stesso tempo si girava e si rigirava nel suo letto pensando: “Come posso dormire tranquillo e ricevere lo stesso raccolto di mio fratello? Io che sono solo mentre lui deve preoccuparsi di sua moglie e dei suoi figli…”. Si alzò e andò a portare una parte dei suoi covoni sul carro del fratello. Andò avanti così per alcuni giorni, ed essi ricevevano lo stesso raccolto ogni giorno. Finché una notte si incontrarono, scoppiarono in un pianto dirotto di emozione e si abbracciarono.
«Quel luogo fu scelto dal Signore per costruirvi il grande Tempio di Gerusalemme. Perché D-o scelse proprio questo luogo per costruire la Sua casa? Cosa aveva di speciale? Ebbene: quello era il luogo in cui l’Uomo si era chiesto cosa mancasse all’altro. Non cosa possedesse più di lui, ma di cosa l’altro avesse bisogno! Ecco, questo è per me il kibbutz. Questa è l’idea, la visione del kibbutz, un luogo dove l’essere umano pensa: “Come posso aiutare l’altro, il mio vicino?”. Certo, anche qui puoi trovare persone più o meno sensibili alle esigenze degli altri. Ma l’essenza del kibbutz è una vera e propria “comunione di santità” dove gli uomini, che sono stati creati a Sua immagine, si comportano con sacralità profonda, aiutandosi, rispettandosi, proteggendosi e continuando la Sua creazione».
Il Talmud nel sangue Idit fa una breve pausa, come assorta nella ricerca delle parole giuste per descrivere la fusione perfetta tra il suo modo di vivere e la sua visione della vita. È figlia di sopravvissuti alla Shoah. Tutta la famiglia di sua madre fu sterminata dai nazisti. Sua madre fu l’unica superstite. Suo padre era soldato nell’esercito francese. Idit crebbe in una casa triste dove la parola ebraismo significava colpa, morte, odio e dolore. A dieci anni fu affidata all’Hashomer Hatzair, un movimento giovanile sionista che all’epoca raccoglieva ragazzi ebrei da tutta l’Europa e li portava nel giovane Stato d’Israele. A 12 anni arrivò al Kibbutz Sasa e crebbe con gli altri bambini, figli dei primi pionieri. Dopo il servizio militare, al momento di iscriversi all’università, vide che c’era un corso di filosofia ebraica e le tornò in mente il libro di storie che le aveva regalato suo fratello. Idit iniziò quindi a studiare.
Era affascinata da tutto: filosofia indiana, cinese, giapponese, esistenzialista… solo alla filosofia ebraica non riusciva a “legarsi”. Studiava le leggi, le regole. L’intelletto capiva ma non assorbiva. «Fino al corso di Talmud», riprende a raccontare: «Il professore iniziò a leggere il capitolo che avremmo studiato e accadde qualcosa di indescrivibile: la sua voce, quel “canto”, quella musica io la conoscevo da sempre, quella “lingua” mi era familiare. Era la mia lingua, i suoni che avevo perduto. Era la voce di mio padre, era il mio ebraismo dimenticato, allontanato, nascosto in qualche angolo recondito insieme al vecchio libro di leggende. La mia mente aveva perfettamente elaborato fino ad allora i testi di Platone, di Aristotele… Ora stava succedendo qualcosa: sembrava che il sangue scorresse vorticosamente in tutta me stessa. Ero rimasta appassionatamente, sorprendentemente coinvolta nell’incanto del Talmud».
Da quel momento Idit si sente a casa. Trova risposte a tante domande. Trova l’Uomo. L’essere umano. Incontra i conflitti dell’ebraismo e vede lo sforzo impiegato dal suo popolo per mantenere i propri valori e il proprio spirito. Diviene un’esperta di pensiero ebraico e Kabbalah, la mistica ebraica. Ciò che più l’affascina è il senso della vita, dell’energia positiva e inesauribile che sente nascere in sé. Lei che era cresciuta in un ebraismo di morte, di ricordo, di tristezza e di nostalgia, nel corso degli studi incontra il dinamismo senza limiti di questo popolo che sopravvive da una distruzione all’altra, da un genocidio all’altro, e si risolleva per merito della sua fede, della sua forza morale, della sua fiducia nell’uomo, per ricominciare ogni volta, con responsabilità. Ci si ricrea attraverso lo studio, l’intelletto, lo spirito e si continua a studiare la Torah. Con gli occhi scintillanti Idit mi racconta: «Una volta, su uno degli scaffali all’università ho trovato una Bibbia stampata a Vilnius nel 1940. Capisci? Nel pieno della follia nazista, nel ghetto si stampavano Bibbie!».
Idit torna a parlare della sua scelta di vivere in kibbutz e spiega che l’essenza dell’ebraismo è esattamente in questa forma di vita, creata da giovani che provenivano da famiglie religiose. L’ideale del kibbutz si fonda sui principali motivi umani e religiosi della religione. L’assistenza, l’aiuto all’altro e il rispetto non scaturiscono da un senso di buonismo ma sono leggi ben definite della morale ebraica. Dopo la distruzione del secondo Tempio per mano dei romani nel 70 dopo Cristo, le comunità ebraiche scacciate e sparse per il mondo risorsero perché il precetto voleva che i più forti si raccogliessero intorno alle vedove, agli orfani, ai bisognosi e li sostenessero. Si fecero garanti l’uno dell’altro con responsabilità, determinazione e naturalezza, perché questi valori fanno parte di un retaggio antico. «A mio avviso il kibbutz è nato esattamente con questo spirito: è una comunità di esseri umani con una grande responsabilità», continua Idit. «Non nasce per motivi economici. Non è l’idea di Marx. È una comunità umana dove ognuno mette a disposizione degli altri le sue capacità, e dove ognuno viene accolto e riconosciuto per ciò che è».
La fatica di rimanere Mentre Idit parla penso a quei momenti difficili in cui vorresti sparire perché vivere in una comunità di 80 famiglie con 400 idee diverse può dare origine a conflitti insostenibili. «Sasa ha vissuto momenti difficili. Il kibbutz sorge in un luogo difficile, anche geograficamente, sul confine, su un terreno ostico. È stato faticoso, molti hanno lasciato e chi è rimasto ha compiuto una scelta. E non è vero che sono rimasti perché è comodo vivere qui: non è comodo affatto! In città, dopo il lavoro, se vuoi, vai a dare un contributo alla comunità; qui tutti abbiamo i turni di sabato, le commissioni per la cultura, per l’educazione, per il lavoro. Siamo una comunità dove ognuno si preoccupa dell’altro. Noi siamo un kibbutz comunitario, dove i beni sono condivisi, ma anche nei kibbutz ormai “privatizzati” la gente è rimasta. Non ha abbandonato».
Idit è una bella persona e incontra continuamente belle storie. Quando hai intorno a te una luce positiva, anche chi ti è vicino si illumina di quella luce. Vede il buono e il bello che altri non vedono. Paul, suo marito, è arrivato da Long Island una trentina di anni fa. È ingegnere forestale. In Israele sono stati piantati nel corso di 60 anni oltre 21 milioni di alberi. Quando chiedo a Idit di raccontarmi cosa vede di tanto bello intorno a sé sorride e dice: «Cosa c’è di più bello di una comunità di uomini che piantano alberi, che si preoccupano della terra, del futuro, del verde, dell’acqua? Vuoi che ti racconti di ciò che vedo all’università di Haifa dove insegno? Dove ogni anno aumentano le donne arabe che si iscrivono agli studi? Dove incoraggiamo gli studenti ad approfondire le proprie radici culturali?».
Non basta il Manifesto comunista Avvrebbe tante altre storie da raccontare, Idit. Tanti altri esempi positivi. Per superare la crisi profonda nella quale il mondo si sta perdendo c’è bisogno di insegnare a volgere lo sguardo verso il bello. Verso il positivo. Siamo aggrediti da serie tv e da scene politiche dove regnano tipi volgari, violenti, negativi e corrotti che spesso vengono presi come modello da emulare. «A volte – conclude Idit – le persone mi dicono: “Non puoi vedere tutto perfetto, non puoi fingere di non vedere le persone che anche nel kibbutz si comportano egoisticamente e in maniera anti-sociale”. Ma è proprio qui che vedo la grandezza di questo luogo, dove non si viene con i paraocchi seguendo il Manifesto comunista ma dove giorno dopo giorno si discute, si affrontano i problemi, si cresce e ci si confronta per cercare la strada migliore per vivere insieme».
Ci lasciamo quando ormai è notte fonda con la parola “tikkun”, riparazione, un’espressione classica della Kabbalah di cui Idit è maestra. «Nel tikkun – spiega – l’uomo cerca l’aspetto positivo di ogni cosa perché si può sempre trovare qualcosa di positivo. Il compito dell’uomo è guardarsi e chiedersi se ha lasciato un mondo migliore di quello in cui è giunto, e se qui nel nostro kibbutz abbiamo creato una scuola dove studiano ragazzi da tutta la zona, se abbiamo piantato alberi, se abbiamo cresciuto figli che amano la vita e l’uomo, allora abbiamo assolto al nostro compito».