Capitolo 3: Il potere di Judicial Review
3.1 Il caso Bergman. Ovvero il judicial review degli statutes
3.2 Il judicial review in una prospettiva comparatistica: Israele e Stati Uniti a confronto
3.3 Il judicial review sulle azioni nei Territori Occupati
3.1 Il caso Bergman. Ovvero il judicial review degli statutes36
Prima di entrare nel discorso sul caso Bergman v. Minister of Finance è opportuno fare una piccola premessa.
Senza ombra di dubbio il background culturale di Israele, e soprattutto dei suoi giuristi, è “americanizzato”. Ciò comporta una consapevole, e via via crescente, presenza di una cultura dei diritti, ed aumenta, parallelamente a questa anche il numero delle azioni giudiziarie, così come si è gradualmente sviluppato un dibattito sul judicial review. Alla luce di questi fatti un autore, rifacendosi a ciò che Tocqueville osservò a proposito della realtà degli Stati Uniti, ritiene così che, anche in questa nazione, Israele, la costante disputa politico-sociale dovrà, prima o poi, sfociare in una soluzione che è plausibile immaginare giudiziale3737.
Parlare del judicial review in Israele pone delle serie difficoltà. Queste difficoltà sono dovute alla necessità di uscire dagli schemi mentali del giurista di western legal tradition, sia esso civilian o di common law, per riuscire a cogliere l’istituto in questione nella realtà israeliana senza cercare, a tutti i costi, di piegarlo entro gli schemi che gli sono propri.
Il judicial review in Israele viene visto come un istituto triplice. In pratica viene relegato in uno di questi tre “campi” a seconda dell’oggetto su cui verte la questione. C’è così un judicial review delle azioni amministrative; un judicial review sulle azioni nei territori occupati (che è quello oggetto di maggiore studio, visto che anche la giurisprudenza in merito è quella decisamente più abbondante), che tende, in concreto, e lo vedremo ad identificarsi col primo, salvo i casi in cui la Corte si trovi nella posizione di dover decidere in merito a delle azioni senza atti legali giustificativi; ed infine il judicial review che noi potremmo definire “propriamente detto”, cioè quello degli Statutes, ovvero degli atti legislativi.
Quest’ultimo, oltre ad essere il più vicino alla nostra sensibilità, è soprattutto quello da cui ha origine, almeno per la dottrina maggioritaria, il judicial review, inteso in senso generale, in Israele con il caso Bergman3838.
Il judicial review sugli atti del legislativo solleva la questione se tutta la legislazione esistente debba essere conforme a quanto stabilito nelle basic laws. Questo si riallaccia naturalmente alla necessità, sanata almeno in parte nel 1992, di avere una carta dei diritti, la quale ha però comportato, come già abbiamo visto, notevoli problemi. Da un lato c’erano i partiti religiosi che temevano che un bill of rights potesse contenere norme contrastanti con i precetti religiosi con il conseguente rischio di assoggettare questi ultimi ad una revisione giuridico-politica. Dall’altro c’erano coloro che non trovavano fattibile l’emanazione di siffatta legge perché era ancora in vigore gran parte della legislazione britannica mandataria, la quale non avrebbe assolutamente potuto soddisfare quanto previsto in una carta dei diritti.
Una basic law che prevede, espressamente, il judicial review, seppur parlandone solo in termini di revisione di se stessa, è la Basic Law: Freedom of Occupation. Questa concedeva un periodo di due anni alla legislazione esistente, nei quali la sua violazione non avrebbe comportato alcuna conseguenza, ma, dopo tale periodo, anche tutta la legislazione preesistente, sarebbe stata soggetta ad una revisione alla luce dei canoni previsti dalla basic law.
I diritti garantiti dalla Basic Law: Human Dignity and Liberty sono da considerarsi ancora più problematici. Molti di loro infatti erano già stati regolati, e spesso anche violati, dalla, tipicamente israeliana, legislazione di emergenza. Così, ad esempio, essa, la legislazione di emergenza, si occupava, e permetteva la detenzione amministrativa ed anche eventuali restrizioni alla libertà di movimento, compreso il diritto dei cittadini di recarsi all’estero; cosa questa che viola il diritto espressamente garantito nella sezione sei della basic law del 1992. Con l’emanazione di questa Legge Fondamentale si decise, a differenza di quanto abbiamo visto per la Freedom of Occupation, di non concedere alcun periodo di vacanza. Questo però non perché si fosse deciso di adottare una linea particolarmente rigida, tutt’altro: infatti la sezione 10 dice che niente nella basic law “intacca la validità della legge che esisteva prima della venuta alla luce di questa basic law”: in altre parole essa non ha efficacia retroattiva.
Come abbiamo precedentemente visto però, il problema di trovare un testo che espressamente consenta alla Corte Suprema di esercitare il potere di judicial review sugli atti della Knesset va oltre queste due basic laws, fino a spostarsi indietro nel tempo, e ci riporta così al più generale discorso sulle entrenched clauses.
Fatta questa breve premessa possiamo ora dedicarci al caso principe di Israele: Bergman.
L’espressione “potere di judicial review” rimanda immediatamente alla figura del Chief Justice Marshall della Corte Suprema Statunitense ed alla sua celeberrima sentenza nel caso Marbury v. Madison3939.
Senza dilungarsi sull’oggetto della causa in questione, noto alla maggioranza degli operatori del diritto, ci basta qui ricordare che con questa sentenza Marshall creò il potere di judicial review, individuando la facoltà di esercitare un controllo di costituzionalità sulle leggi come, da un lato, un elemento costitutivo dell’obbligo del giudice di decidere un caso e, dall’altro, come una sorta di mezzo volto a tutelare i principi fondanti di una nazione. Così facendo dimostrò anche l’assoluta imparzialità della Corte Suprema. In pratica questo potere dà la possibilità di dichiarare incostituzionali statutes incompatibili con la costituzione.
Nel caso Bergman il Dr. Aharon Bergman portò una causa davanti alla Corte Suprema in qualità di Alta Corte di Giustizia, per bloccare l’attuazione della Legge Finanziaria del 1969. La protesta del Dr. Bergman era incentrata sul fatto che la legge fosse ingiustamente discriminante nei confronti dei nuovi partiti politici perché forniva fondi governativi solo a quei partiti già rappresentati nell’uscente Knesset. In modo specifico egli sosteneva che la Legge Finanziaria violasse l’uguaglianza richiesta dal paragrafo 4 della Basic Law: The Knesset; perchè quel paragrafo stabiliva espressamente che quanto in essa previsto “non poteva essere modificato, tranne che da una maggioranza dei Membri della Knesset”.
Nel 1959 la Knesset aveva rafforzato ancora di più il testo di questa legge4040. E, poiché la Legge Finanziaria era passata alla prima lettura alla Knesset con una votazione di 24 favorevoli e 2 contrari, (la maggioranza del plenum consisteva, e consiste tutt’ora, essendo la Knesset composta di 120 membri, in non meno di 61 voti) il Dr. Bergman sosteneva quindi che, evidentemente, questa votazione non potesse essere considerata in grado di emendare al paragrafo 4 della Basic Law: The Knesset.
Il giudice Landau, come gli altri cinque giudici della Corte che composero il collegio, convenne sul fatto che la Legge Finanziaria fosse in conflitto con l’uguaglianza richiesta dal paragrafo 4 della basic law in questione, perché il completo rifiuto di fondi ad una nuova lista costituiva una grave violazione al principio del rispetto delle pari opportunità nel sistema elettorale democratico dello Stato di Israele. E’ importante notare, e tenere sempre presente che i giudici di questo caso riconobbero l’assenza di qualsiasi disposizione legislativa in Israele che autorizzasse espressamente la Corte a modificare decisioni parlamentari che violassero quel naturale principio di giustizia che è il rispetto dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge. Ma, ciò nonostante, Landau, nella sua opinione, scrive che “questo principio, che non è scritto da nessuna parte, respira il respiro della vita in tutto il nostro sistema costituzionale”. Sulla base di questa posizione la Corte ritenne perciò giusto ed onesto, in qualità di Alta Corte di Giustizia, usare questo principio come chiave per interpretare la legge.
Su questa base la Corte Suprema dichiarò nullo un atto della Knesset per violazione di una basic law.
Questa decisione fece però sorgere dei problemi perché in uno Stato senza una costituzione formale scritta, la sua più Alta Corte aveva dichiarato incostituzionale un Atto del parlamento che era invece sempre stato ritenuto sovrano ed in un certo senso legibus solutus.
L’opinione della Corte fu un abile amalgama tra convenzioni e cambiamenti radicali nascosti sotto il loro apparente rispetto. Così la Corte cercò di dare ad intendere di non star facendo altro che usare il metro della giustizia naturale per interpretare “un caso limite”, “aperto a due interpretazioni”. Come abbiamo già notato prima, questa era una pratica giudiziaria già presente in Israele seppure mai spinta fino a queste conseguenze. In realtà, senza sentire la necessità di esprimere alcun commento, la sentenza è infatti molto breve, la Corte aveva deciso il caso su nuove basi, derivanti da nuove attività interpretative. Aveva, la Corte, applicato il suo approccio alla giustizia naturale ad una basic law e poi aveva usato la sua grande abilità interpretativa per bloccare l’esecuzione della Legge Finanziaria che era oggetto della controversia.
Come già è stato detto, il potere giudiziario israeliano tende ad essere rispettoso, in linea di massima, al principio della lex posterior derogat priori. E così, se la Knesset era l’autorità sovrana in Israele, ogni Knesset aveva la stessa autorità illimitata dei suoi predecessori con tutte le conseguenze facilmente immaginabili. La Legge Finanziaria, che era stata quindi emanata, proprio perché posteriore, avrebbe dovuto prevalere su qualsiasi legge precedente e su qualsiasi interpretazione consolidata che si fosse venuta a creare. Chiaramente la Corte Suprema, nella sentenza in questione, agì sull’incerto e controverso presupposto che il paragrafo 4 della basic law avesse uno status costituzionale e in quanto tale fosse superiore alla legge ordinaria e quindi destinataria di una tutela rafforzata.
L’assenza però di un’ampia argomentazione da parte della Corte, lasciò in sospeso importanti questioni teoriche. Tra le quali quella concernente il perchè le basic laws – che erano state emanate con la stessa procedura di tutte le altre leggi – dovessero essere viste come dotate del diritto ad una particolare tutela. Il loro status speciale derivava forse dal loro nomen iuris? O derivava piuttosto dal loro lignaggio come conseguenza dei precedenti dibattiti a proposito di una costituzione e il compromesso della creazione capitolo per capitolo? Probabilmente il fatto di aver lasciato in sospeso tutte queste domande diede alla decisione del caso Bergman una dimensione “costituzionale” che essa in realtà non era in grado di garantire. Forse il punto cardine attorno a cui ruotò questa decisione fu semplicemente il fatto che, nell’emanare la Legge Finanziaria, non era stata osservata una prassi consolidata. Ma, se questa era la considerazione, allora che cosa aveva dato alla Knesset l’autorità e la facoltà di consolidare una prassi e quindi di limitare la libertà d’azione dei suoi successori che come abbiamo visto sono teoricamente uguali e quindi dotati di uguali poteri? I Giudici ben si guardarono dal tentare di dare una risposta4141.
Così com’era, l’opinione derivante dal caso Bergman significò che la leadership politica poteva solo supporre le premesse sulle quali i Giudici della Corte Suprema avevano operato. Tuttavia, per affrontare le conseguenze di questa decisione, cioè la sostituzione della Legge Finanziaria perché giudicata non valida, l’elite politica di Israele dovette affrontare una seria discussione a proposito della natura di una costituzione per il suo particolarissimo ordinamento politico.
Gli avvenimenti seguenti mostrarono che la decisione Bergman fu veramente un caso che fece da pietra miliare nella storia giuridica israeliana. Essa fornì ad Israele il catalizzatore per accettare il principio che, anche questo Stato, doveva essere governato liberamente, ma all’interno di parametri stabiliti da una costituzione scritta interpretata con autorità e rigidità dalla sua più alta corte.
Nonostante ciò Israele continuò, e continua ancora oggi a funzionare con la stessa costituzione “fatta un pezzo per volta ”. In seguito a questa decisione l’accordo, per così dire implicito, fra i poteri dello stato aveva ulteriormente aumentato l’autorità, e quindi il potere della Corte Suprema. Una serie di vicissitudini all’interno del legislativo e di conseguenza nel dibattito politico indicano chiaramente questa trasformazione.
Due giorni prima che la Corte Suprema emettesse la sua decisione sul caso Bergman, il Ministro della Giustizia rivelò che si stava avvicinando il momento in cui la Knesset si sarebbe trovata di fronte alla necessità di dover completare la struttura costituzionale di Israele tramite la sua tecnica di creazione capitolo per capitolo. Egli rivelò che il suo ministero stava lavorando su alcune basic laws inerenti l’ordinamento giudiziario, i diritti umani e la legislazione. Curiosamente il Ministro disse che la costituzione, anche una volta completata, non si sarebbe dovuta comunque considerare come una legge superiore. Il Ministro stava quindi, si presume, agendo a partire dal presupposto che la Knesset, fosse un organo sovrano di Israele e come tale non imbrigliabile da leggi a prescindere dalla loro natura.
In realtà la storia dimostra altro: la Knesset emendò la Legge Finanziaria per attenersi alle conclusioni cui la Corte era giunta nella decisione Bergman. Tralasciando il fatto che i presupposti, basandosi sui quali era stata vergata la sentenza in discussione, non fossero assolutamente presenti in Israele, perché in nessun testo normativo era assegnato alla Corte Suprema un tale potere. Ma i maggiori partiti politici di Israele, che erano quelli già rappresentati all’interno della Knesset che si andava a sciogliere, molto pragmaticamente non avevano alcuna intenzione di pensare all’eventualità di poter iniziare una campagna elettorale senza i fondi pubblici. Chiaramente è facile immaginare come i politici fossero tutt’altro che desiderosi di emanare nuovamente la legge rispettando la maggioranza richiesta dal paragrafo 4 della Basic Law: the Knesset. Ma non fare ciò gli avrebbe resi soggetti all’opinione pubblica e alla conseguente critica di voler favorire solo chi già godeva di una posizione di vantaggio. Fu così che nel breve volgere di due settimane dalla decisione Bergman la Knesset trovò una formula che le consentì di fornire fondi per la campagna elettorale sia alle liste che si presentavano per la prima volta, che ai partiti già radicati e già godenti di rappresentanti all’interno degli organi istituzionali. In questo modo la Knesset si trovò nella situazione di dover assecondare, e quindi soddisfare, una regola creata dalla Corte Suprema.
Tuttavia, mentre la Knesset modificò la legge sul finanziamento pubblico dei partiti per essere conforme alla sentenza Bergman, parallelamente si preoccupò anche di emanare, esplicitamente, una legge che riaffermasse la sua autorità ed il suo ruolo di organo legislativo: “al fine di cancellare ogni dubbio, si stabilisce che i provvedimenti contenuti nelle Leggi Elettorali della Knesset siano validi dal giorno in cui sono entrati in vigore per ogni procedimento legale e per ogni questione o scopo”4242.
Ma nel giro di sei anni la maggior parte dei membri delle compagini politiche e legali di Israele avevano cambiato idea; così, nel mese di dicembre del 1975, il Governo si decise ad introdurre il disegno della Basic Law: The Legislation. Il Governo si rendeva senza dubbio conto che stava proponendo un cambiamento fondamentale. L’importante innovazione riguardava lo status delle basic laws. In base alla proposta, tutti questi atti legislativi dovevano essere considerati come superiori all’altra legislazione della Knesset. Ecco allora che la Corte Suprema, in veste di Corte Costituzionale per così dire “speciale”, visto che comunque una costituzione formale continua a mancare, doveva essere autorizzata ad annullare le leggi e gli statutes che avessero presentato un contenuto conflittuale rispetto a quello delle basic laws (disegno della Legge Basilare: Legislazione, 1975,Introduzione). Dopo sei anni di studio e di discussioni da parte degli esperti, il Governo aveva in questo modo ribaltato la sua posizione, posizione che si era preoccupato di ribadire con fermezza all’indomani della sentenza Bergman.
Probabilmente erano molti e svariati i fattori coinvolti nel cambiamento di atteggiamento del governo, ma è indubbio che nessuno sia stato più importante del caso Bergman stesso. Questo perché quella decisione significò che l’esistenza di una Knesset legalmente sovrana, libera da critiche giudiziarie o come abbiamo già detto legibus solutus, non era più una verità accettata acriticamente come assoluta. Come notò l’allora Procuratore Generale (in seguito anche Presidente della Corte Suprema) Shamgar nel 1974: “Quel caso sottolineò il fatto che in assenza di un provvedimento legislativo contrario, è vietato alla Corte Suprema e forse ad ogni corte del paese decidere sulla legalità o validità delle leggi”4343. Non era più certo che lo status quo legale salvaguardasse veramente l’accettazione del principio di sovranità parlamentare. “Gli sviluppi accentuati dal caso Bergman”, sosteneva il Procuratore Generale, “gettarono dei dubbi sulla supremazia parlamentare e accelerarono la preparazione per l’intervento legislativo al fine di creare delle definizioni più esatte”. In effetti il disegno di legge sul quale stava lavorando il governo avrebbe risolto la maggior parte delle restanti questioni riguardanti la costituzione di Israele e l’autorità della Corte Suprema nell’interpretarla.
Ad una delle domande, più discusse dagli accademici, se la Knesset potesse legittimamente emanare provvedimenti costituzionali, venne data una risposta evidentemente affermativa. La Basic Law proposta, The Legislation, autorizzava esplicitamente la Knesset ad emanarle le basic laws (disegno basic law: The legislation, 1975: Capitolo I, Sezione 1). Tuttavia non si arrivò mai a votarla, ma nemmeno a presentarne il progetto alla Knesset;, forse anche per evitare di trovarsi di fronte ad una domanda, quale fosse la fonte di quest’autorità della basic law, alla quale non sapevano come rispondere, né nel testo del disegno di legge, né nelle note di spiegazione ufficiali. Rimase perciò privo di soluzione quel paradosso logico, che si era creato già alla nascita dello Stato di Israele. Che consisteva, ma che consiste tutt’ora, nel dare ad una Knesset il potere di vincolare le azioni dei suoi successori, i quali sarebbero però teoricamente uguali e quindi non vincolabili da una Knesset precedente. Ma siccome ormai la promulgazione delle basic laws da parte della Knesset era diventata una pratica radicata in Israele, investire il Parlamento con un continuo potere costituente era una risoluzione in qualche modo accettabile, almeno in un ordinamento così particolare come quello israeliano; sebbene ciò comportasse dei rischi non indifferenti. Infatti, investire la Knesset di un continuo potere costituente, potrebbe permettere ad una maggioranza parlamentare, magari anche solo temporanea, di rafforzare i suoi obbiettivi politici particolari attraverso l’uso di una basic law. Per evitare ciò, il testo del disegno della basic law di cui si sta trattando prevedeva che questo tipo di leggi dovessero essere, di li in avanti, promulgate con la maggioranza assoluta dei membri della Knesset, a differenza delle altre leggi, che noi chiameremmo ordinarie, che richiedono invece solo la maggioranza dei presenti e dei votanti.
La Basic Law: The Legislation servì anche a risolvere l’ambiguo status delle sei basic laws già esistenti. La decisione Bergman aveva coinvolto un’entrenched clause della Basic Law: The Knesset. In seguito a ciò alcuni studiosi israeliani avevano sostenuto che solo le parti di leggi tutelate da una clausola di questo tipo dovevano essere considerati come superiori agli statutes ordinari. Come sempre la dottrina era però divisa, difatti altri studiosi avevano sostenuto che solo alle entrenched clause delle basic laws dovesse essere dato uno status costituzionale. Invece la Basic Law proposta, The Legislation, conferiva esplicitamente uno status costituzionale a tutti i provvedimenti sia delle sei precedenti basic laws che di quelle future.
La proposta del Governo riconobbe lo status superiore della Corte Suprema ed il suo prestigio sempre crescente e cercò di utilizzarlo a fini costituzionali. Secondo la proposta, il meccanismo per fare ciò era quello di attribuire alla Corte Suprema, funzionante come corte costituzionale, il potere di tutelare le basic laws come leggi aventi natura costituzionale e perciò dotate di un particolare riguardo. La Corte Suprema in funzione di Corte Costituzionale doveva essere formata da una giuria composta da almeno sette giudici scelti dal Presidente della Corte Suprema e con questo nuovo ruolo, solo la Corte Costituzionale sarebbe stata autorizzata a decidere sulla questione della validità costituzionale di una legge. Un provvedimento dichiarato incostituzionale doveva essere annullato. In breve, secondo la proposta, la Corte Suprema di Israele, in qualità di corte costituzionale, sarebbe stata esplicitamente autorizzata ad esercitare tutela costituzionale simile a quella della sua più prestigiosa controparte americana con un controllo di costituzionalità accentrato, ma in via successiva.
Proprio su quest’ultimo punto si focalizzarono la maggior parte delle obiezioni alla proposta del Governo. Dopo che il disegno di legge fu introdotto dal Ministro della Giustizia, il primo ad attaccarlo fu un’altra figura leader del Partito Laburista, quindi della stesa fazione politica del Ministro, il Presidente della Knesset. In una lettera aperta rivolta a tutti i membri della Knesset egli criticò la proposta definendola una inopportuna denigrazione della supremazia del Parlamento. Il Presidente, in pratica, sosteneva che, se il disegno di legge fosse stato adottato, un gruppo di giudici non eletti si sarebbe trovato a svolgere il ruolo di Legislatore Supremo al posto dei centoventi Membri della Knesset democraticamente eletti e perciò politicamente responsabili davanti al popolo. Secondo il Presidente, la proposta avrebbe eliminato la distinzione tra legge e politica e avrebbe condotto alla fine alla politicizzazione della Corte Suprema stessa. Durante un simposio speciale organizzato dal Presidente e tenutosi nell’edificio della Knesset, il Giudice della Corte Suprema Haim Cohn affermò anche che la proposta avrebbe assegnato una funzione essenzialmente politica e non giudiziaria alla Corte; già abbiamo visto come i giudici stessi si siano sempre ben guardati dall’assumere parallelamente al loro incarico giudiziario anche un ruolo politico.
Nonostante questa prestigiosa opposizione, il progetto di legge procedette nel suo iter legislativo con un appoggio considerevole in sede parlamentare. Neanche il cambiamento nel Governo conseguente alle elezioni del maggio 1977, da una coalizione guidata dai laburisti, ad una coalizione guidata dal Likud, portò ad un ripensamento in sede parlamentare a questo appoggio. Così entro il mese di maggio del 1978 anche il giudice Cohn, che abbiamo visto non vedere affatto di buon occhio questa riforma, capì che continuare ad opporsi era ormai inutile; egli si aspettava che il disegno della Basic Law: The Legislation sarebbe stato promulgato quanto prima.
In realtà il giudice Cohn sbagliò previsione in quanto questa aspettativa non giunse mai a concretizzarsi. I motivi per questo arresto non riguardano la sostanza della basic law proposta. Il sostegno che si era ormai sviluppato attorno a questa visione politica e giudiziaria in Israele continuava ad essere presente. Piuttosto si fece avanti la preoccupazione inerente a quali fossero i reali provvedimenti del disegno della Basic Law sui Diritti Umani e Civili. Su di essa si accese lo scontro, scontro che giungerà alla fine solo nel 1992. Gli israeliani, probabilmente come qualsiasi altra persona che fosse cresciuta avendo come esempio un modello di Stato liberale di stampo occidentale, non possono immaginare una costituzione scritta senza una carta dei diritti, un bill of rights come quelli statunitensi e britannici. Queste erano anche le nazioni che essi consideravano quali loro naturali referenti culturali. Infatti la maggior parte della pressione che stava a monte dell’iniziativa di arrivare ad una costituzione scritta era legata proprio alla richiesta di una carta dei diritti formale, cosa questa peraltro prevista anche dalla Basic Law: The Legislation. Ma ciò non fu sufficiente.
Ecco così che a trentacinque anni dalla nascita dello Stato di Israele, non si riuscì ancora a rimuovere tutti gli ostacoli per giungere finalmente all’emanazione di una costituzione scritta. Tuttavia alla luce del caso Bergmane del consenso che circondò negli anni Settanta del secolo scorso il progetto della Basic Law: The Legislation, la Corte Suprema riuscì comunque, in qualche modo, a continuare a svolgere il suo ruolo di agenzia politica garante di principi “superiori”. I giudici infatti da questo momento, consapevoli del consenso che ormai avevano nella società, esitarono sempre meno ad esercitare questo potere e compito che essi stessi si erano dato e creato. I giudici così arrivarono a prendere decisioni su questioni che la prima generazione di leaders di Israele, da Ben Gurion in avanti, avevano creduto essere di esclusivo appannaggio dei poteri elettivi, si chiamassero questi Knesset o Parlamento.
3.2 Il judicial review in una prospettiva comparatistica: Israele e Stati Uniti a confronto
Un autore ha introdotto il concetto di “ebraismo” al fine di conferire un senso di eccezionalità americana, di presentare gli americani come il “popolo eletto”4444. Il suo lavoro, ma soprattutto la sua definizione, prendeva il via da un presupposto che seguiva l’intuizione di Tocqueville che sosteneva che gli americani possedessero il notevole ed evidente vantaggio di “essere arrivati ad uno stato di democrazia senza essere stati costretti a sopportare una rivoluzione democratica”. Questa fortunata circostanza di essere “nati eguali, invece di essere diventati tali” significava che il loro sviluppo sociale e politico poteva procedere in assenza delle battaglie ideologiche, e non solo, che furono laceranti e che si manifestarono nella maggior parte degli altri stati, in particolare l’esempio più vicino anche temporaneamente è la Francia rivoluzionaria. Ciò significava anche che lo spirito di crociata degli americani sarebbe stato temperato da un apprezzamento dell’unicità della loro società. E mentre i principi che formavano la base dell’ “unanimità morale” degli americani si credeva che fossero universalmente validi, la loro applicazione universale era però tutta un’altra cosa. Così gli americani erano “un popolo scelto” per virtù di essere stati benedetti da condizioni ideali per poter godere dei benefici della libertà. In tal senso si porta, ad esempio, il Governatore Morris come colui che aveva dato voce al sentimento ebraico, sempre nel senso di “ebraismo” appena spiegato, quando, in veste di ambasciatore in Francia nel 1789, consigliò ai francesi di non seguire l’esempio americano declamando forse anche con superbia: “Essi vogliono una costituzione americana senza rendersi conto che non hanno americani che la sostengano”.
Altra dottrina4545 criticò la superficialità di questa tesi sostenendo che si esagerò nel vedere le pretese missionarie americane e che il commento del Governatore Morris richiederebbe un maggiore e più approfondito inquadramento al fine di catturare accuratamente lo spirito del coinvolgimento americano nei successivi sforzi di creazione di costituzioni all’estero.
Con maggior attenzione, tale tesi è stata a lungo soggetta (principalmente nel contesto di montare una sfida “repubblicana” alla presunta egemonia del suo paradigma liberale) a notevolissime critiche focalizzate su quello che è visto come il fallimento di prendere sufficiente nota del conflitto e della conseguente inflazione dell’importanza di J. Locke (“Egli è un pesante cliché nazionale”) allo sviluppo politico americano4646.
Focalizzare la centralità della teoria liberale dei diritti, anche se si riconosce che è immediatamente più ambiziosa e più complessa di quanto la dottrina citata possa averci fatto credere, illumina importanti aspetti dello sviluppo costituzionale negli USA, incluso il più importante, forse, dei fenomeni culturali americani, il judicial review.
Come è stato opportunamente sottolineato, il judicial review, così come ha funzionato in America, sarebbe assolutamente inconcepibile senza l’accettazione nazionale del credo lockiano, gelosamente custodito nella Costituzione statunitense essendone uno dei punti di riferimento principali, visto che il creare dei metri di giudizio, inteso come giudizio legale, implica che ci sia un riconoscimento a monte dei principi che devono fungere come riferimento per le interpretazioni giuridiche4747. La posizione quindi di esaltato principio della Corte Suprema non è attribuibile solamente al fatto che si tratta della più alta corte nazionale: piuttosto si fonda significativamente sull’accettazione del suo ruolo unico di rafforzamento, e quindi di convalida, dei principi del regime che definiscono la nazione di garante dell’identità nazionale. La forza di trattenere, di limitare, la maggioranza per mezzo dell’esercizio del judicial review presuppone l’esistenza di un consenso sociale diffuso che è quello che si deve poi incorporare in una costituzione, e la cui tutela può essere tranquillamente affidata ad una istituzione che possieda un giusto rapporto di equilibrio fra le diverse forze sociali e politiche con cui si trova a doversi confrontare. L’argomentazione che l’esperienza americana attraverso il judicial review sia legata profondamente alla presenza negli Stati Uniti di un credo politico diffuso e dominante ha delle implicazioni comparative importanti ed ovvie dato che le questioni costituzionali vanno comunque sempre ad affondare le loro radici oltre il contesto legale e giudiziario fino al contesto sociale e morale che sta alla base dell’unità di una nazione. Se l’autore prima citato ha ragione nel sostenere ciò, allora, un fattore critico in qualsiasi valutazione comparativa dell’istituzione sarà il grado al quale si può dire che esiste un consenso in rapporto ai principi politici che definiscono una società.
In tal senso alcuni autori, tra cui lo stesso Jacobsohn, hanno sostenuto che nello Stato di Israele, a differenza che negli Stati Uniti, manca il consenso sui principi morali basilari a causa dell’irrisolta tensione tra gli ideali di uno stato democratico e il sentimento di uno Stato che trova il suo unico elemento di unità nella religione, in quanto comunque i suoi più recenti abitanti giungono tutti da esperienze politiche differenti e che hanno in comune appunto solo il fatto di essere ebrei.
Già il problema del judicial review non è certo una delle questioni di maggior interesse ed attrattiva per i giuristi israeliani e ancor meno sono coloro che si sono dedicati al suo raffronto in una prospettiva comparatistica. Pensare dunque che ci sia la possibilità di trovare una comune base storica per lo sviluppo del judicial review, anche in seguito a ciò che abbiamo appena detto, tra Stati Uniti ed Israele è oggettivamente improbabile e ciononostante qualcuno ci ha provato. Un autore ha affrontato questo argomento più di tutti, sostenendo che la creazione e la nascita del judicial review in entrambi i paesi si può meglio comprendere come una risposta istituzionale alla presenza di un fondamentale conflitto societario4848. La “verità centrale” è che “le dispute ideologiche profondamente laceranti in una società democratica, forniscono l’impeto per lo sviluppo dell’istituto del judicial review”. Ecco che così, secondo l’Autore, le Corti Supreme americana e di Israele hanno tentato di oltrepassare tali divisioni evocando i credi basilari delle loro rispettive nazioni nel contesto di asserzioni audaci e innovatrici del potere giudiziario.
Mentre la maggior parte dei commentatori cita il caso Bergman (frequentemente in associazione con il caso Kol Ha’am contro il Ministro dell’Interno4949) deciso nel 1969, come l’evento legale critico nell’evoluzione, o forse addirittura nella nascita, del judicial review in Israele, l’Autore di cui sopra attribuisce, almeno in un primo momento, nel suo lavoro, un più pregnante significato al caso Elon Moreh del 19795050. Quest’ultimo per tutti una pietra miliare, sebbene oggetto, da parte della dottrina, di minori attenzioni perché considerato degno di minor risalto. In tale caso la Corte Suprema, seguendo l’iter già intrapreso dieci anni prima, si elevò, in modo però ancora discutibile e criticabile (siccome i problemi giuridici in questo senso erano, come già sappiamo, tutt’altro che risolti) al ruolo di principale guardiano del sistema costituzionale israeliano. Era questo un ruolo che la Corte vedeva come imposto dalla situazione storica seguente alla Guerra dei Sei Giorni del 1967, un avvenimento che ebbe un effetto rivoluzionario sulla società d’Israele, incluso l’effetto che questo generò come spinta per la realizzazione di un ordinamento giudiziario indipendente. Le conseguenze politiche della Guerra del 1967 sollevarono profonde e preoccupanti questioni sull’applicabilità della teoria democratica nella società sionista. Il ruolo che la Corte ha reclamato per se stessa con sempre maggiore chiarezza, convinzione e forza, sin dal 1979, come istituzione indipendente della rule of law, è in effetti la sua risposta a queste domande.
A questo punto ci si avventura in un parallelo con il conflitto di parte che è culminato nell’elezione di Jefferson nel 1800, e che ha creato l’opportunità per J. Marshall di istituire e di istituzionalizzare il ruolo dell’ordinamento giudiziario. La Guerra dei Sei Giorni del 1967 e la conseguente occupazione militare ebbero le stesse implicazioni fondamentali per la società israeliana che la lotta di parte e la risultante vittoria elettorale repubblicana ebbero nel 1800 per la società americana: entrambi gli avvenimenti fecero sorgere seri dubbi se le divisioni fossero poi così nette tra una popolazione apparentemente soggetta ad un governo comune da far pensare che la forza bruta fosse l’unica possibile fonte di autorità governativa unificata5151.
Nella decisione Elon Moreh la Corte Suprema di Israele si avventurò coraggiosamente, e con maggiore consapevolezza di quanto non fece nel caso Bergman, tra le numerose dispute ideologiche che ormai sono note anche a noi. Il caso riguardava la confisca di terre di proprietà araba da parte del comando militare dei territori occupati, seguito subito dopo dall’insediamento da parte di civili ebrei, membri del Gush Emunim, il gruppo nazionalista religioso che vedeva la sponda occidentale (la Giudea e la Samaria) come parte della terra promessa da Dio al popolo ebraico. La confisca, ai danni di diciassette palestinesi, avvenne con la giustificazione della necessità militare, ma la Corte, agendo in qualità di Alta Corte di Giustizia, ordinò al Governo di procedere allo sfratto dei colonizzatori ebrei entro trenta giorni. In realtà la Corte temeva che ci fosse una ragione politica dietro all’iniziativa, collegata ad un particolare impegno sionista nell’insediamento di Eretz, Israele, nella sua totalità.
Si può allora, facilmente, mettere in rilievo l’audacia di una decisione che sfidò direttamente e consapevolmente una, magari sbagliata, ma comunque importante, scelta politica del Governo in carica. E’ plausibile pensare che sia per una lettura di questo tipo che un Autore5252 si è spinto fino a paragonare questo caso a due casi americani, Marbury v. Madison, ma in tal senso non è il solo, e Dred Scott v. Sandford5353.
Se è incontestabile che la questione che sta alla base del caso Elon Moreh porti direttamente a pensare ad una violazione delle aspirazioni democratiche esposte nella Dichiarazione d’Indipendenza di Israele; allo stesso modo allora una politica di questo tipo, ma su una scala così vasta da far vedere in prospettiva l’annessione finale di un milione o più di Arabi in uno stato di Israele allargato fa sorgere dei seri dubbi sulla compatibilità a lungo termine del rispetto degli impegni previsti nel documento base di questa nazione. Ciò che era sempre stata una tensione sarebbe inevitabilmente diventata una divisione insormontabile e, tanto la storia, quanto l’attualità purtroppo richiamano sempre alla nostra memoria le immagini di quotidiane tragedie a ricordarcelo.
Come punto di riferimento per un tentativo di formulare un esame di tipo comparativo, la natura molto rigida del conflitto presente in questo scenario politico può servire a mitigare le possibili tendenze, ben presenti in altre realtà, a guardare la differenza politica come evidenza di un conflitto dalle radici profonde.
La famosa dichiarazione di Thomas Jefferson nel suo primo discorso inaugurale, “Noi siamo tutti Repubblicani, noi siamo tutti Federalisti”, porta a capire come le differenze tra jeffersoniani ed hamiltoniani, Federalisti e Anti-federalisti siano, in realtà, alla fine, reinseribili all’interno di un più ampio consenso che trova il suo catalizzatore sui principi politici fondamentali dello Stato americano. Base comune d’intesa che invece, riflettendo sulla scena politica di Israele, è assente dal contesto che circonda un caso come quello del villaggio di Elon Moreh. Caso che, come già detto, non è solo importante giuridicamente, ma ancor di più politicamente per le ripercussioni che poteva avere.
Perciò ecco che è il retroterra stesso da cui nasce il caso Marbury che contrasta, stride, in modo assai violento con le problematiche questioni retrostanti il caso di Israele. Soprattutto le assolute e insanabili lotte ideologiche.
Le elezioni del 1800 nagli USA furono tra le più critiche della storia americana. Certamente si trattò di una sgradevolissima faccenda partigiana che si può ragionevolmente supporre abbia portato alcuni a porsi delle domande circa l’attualità dell’Unione. Tuttavia la vittoria di Jefferson non fu il segnale del ripudio o del predominio di qualsiasi principio vitale che fosse in quel tempo contestabile. In realtà, più rivelatori dei nomi con cui ogni parte chiamava l’altra, fu il fatto che, come un autore ha notato, “ognuna … vedeva che l’altra aveva un’aspirazione o un impegno politico posto al di fuori del patto repubblicano della Costituzione”5454. In altre parole, ognuna, delle parti, cercava di delegittimare l’altra appellandosi ad una comune base di principio. Anche la storia che seguì è rivelatrice: se il contesto Jeffersoniano-Hamiltoniano evoca un gran conflitto sui principi (per esempio per quanto riguarda il ruolo del governo federale nello sviluppo del paese) è bene ricordare chi acquistò la Louisiana, cioè Jefferson.
Per quanto riguarda il caso Marbury contro Madison ed in particolare l’abilità dimostrata da Marshall nel muoversi in acque politicamente molto insidiose, l’opinione di un autore in merito è: “Noi diciamo che la Corte Suprema è coraggiosa quando sfida Jefferson, ma poiché in una società liberale l’individualismo di Hamilton è anche una parte segreta della psiche jeffersoniana, noi non ne teniamo molto conto. Il vero test della Corte si ha quando essa deve fronteggiare l’eccitazione sia di Jefferson che di Hamilton, quando lo stesso testo “Talmudico” è in ballo, quando la volontà generale della quale si nutre sale in superficie con rabbia”5555. John Marshall usò il caso Marburycome un’occasione per affermare la supremazia della rule of law, ma l’immediata minaccia a quella regola, conseguente al fallimento di un ufficiale federale nel consegnare alcuni mandati giudiziari, fu causata da considerazioni partigiane più che di principio5656. Molto diversa da questa fu la conseguenza sottesa alla decisione dell’esercito, appoggiata dal Governo, in Elon Moreh, dove gli individui vennero privati dei loro diritti di proprietà sulla base di chi essi fossero invece che sulla base di quali fossero i loro collegamenti partigiani.
Allora ecco che viste tutte queste differenze pare meno problematico un paragone tra i casi Elon Moreh e Dred Scott. Quest’ultimo fu anche il primo caso, dopo Marbury, in cui la Corte esercitò il suo potere di judicial review per invalidare un atto del Congresso. E visto che c’è qualche prova che suggerisce che i giudici, nella maggioranza, pensavano di portare un sostanziale contributo alla risoluzione del grande conflitto che stava dividendo la nazione, anche la tesi di un autore sulle origini e sullo sviluppo del judicial review è forse più difendibile. Ed infatti tutto ciò non è sfuggito all’attenzione dell’autore in questione che si è pertanto riferito ad Elon Moreh come al “Dred Scott di Israele”. “Le stese considerazioni evidenti nel retroterra delle azioni e delle decisioni della Corte Suprema di Israele intorno al 1967 dominavano le deliberazioni della Corte Suprema statunitense nel 1857 quando venne deciso il Dred Scott”5757.
Anche questo parallelo però non è così acriticamente accettabile. Infatti c’è anche una grande differenza tra questi due casi, ed è la differenza che si sostanzia nelle contrastanti condizioni costituzionali entro le quali il judicial review deve operare. Essa è stata segnalata, seppur inconsapevolmente, dall’autore di cui sopra il quale dice, riferendosi al caso Dred Scott, che “la disputa sottointesa e, da decidere, in quel caso, era tra una concezione di legge morale basata sulla religiosità che condannava la schiavitù e la legge secolare della Costituzione che proteggeva i diritti di proprietà privata sugli schiavi e che perciò assicurava apparentemente l’unione politica continua di popoli discordanti”5858. E’ questo il problema che consente di poter tentare un parallelo con la situazione sottostante al caso Elon Moreh, dove i diritti di proprietà degli arabi erano fatti entrare in conflitto con le rivendicazioni bibliche, e forse anche un po’ opportunistiche, di alcuni coloni ebrei e dove, come nel caso americano, intervenne la Corte Suprema dalla parte della legge secolare, cosa questa che in Israele significava, ma significa ancora oggi, porsi in contrasto con un’importante schieramento politico spesso fondamentale per garantire la nascita e la riuscita dei Governi.
Tuttavia la difficoltà nel portare avanti questo paragone è che non era solo una legge morale basata sulla religiosità che condannava la schiavitù ma anche la legge secolare della Costituzione, chiaramente se interpretata in un certo modo, cioè come un documento che incorporava gli impegni dei diritti naturali della Dichiarazione di Indipendenza. Certamente gli abolizionisti radicali respinsero la Costituzione, in quanto vedevano in essa un atto da considerarsi come un patto con l’Inferno, in favore della scrittura biblica. Ma la visione coerente di Lincoln era invece che la Costituzione (il “quadro d’argento”) era essa stessa stata creata, ed era quindi compito degli uomini che avevano compiti istituzionali, impegnarsi per giungere alla estinzione definitiva della schiavitù. E fu in questo senso che Lincoln si oppose alla decisione presa nel caso Dred Scott, sostenendo che essa non creava nessun obbligo politicamente vincolante per le sezioni coordinate del governo federale. E’ chiaro che una posizione di questo tipo fosse facilmente soggetta ad incomprensioni, e questo fu quello che si premurarono di fare i suoi avversari politici (specialmente Douglas) ed anche negli anni seguenti essa è stata fraintesa; ma in realtà, o almeno così ritengono alcuni studiosi, la sua chiave di lettura fondamentalmente significherebbe che, coloro che hanno giurato di appoggiare la costituzione hanno l’obbligo di portare avanti la causa della legge costituzionale al fine di realizzare gli ideali della Dichiarazione d’Indipendenza. L’invalidazione da parte della Corte del Compromesso del Missouri, accompagnata dal parere del Giudice Capo Taney, che Lincoln aveva considerato come un ripudio della sostanza della Dichiarazione, significava che una caratteristica critica della Costituzione, la sua componente di aspirazione a qualcosa veniva abbandonata.
Mentre il judicial review doveva essere coerente con i doveri primari di tutti i cittadini, e quindi a maggior ragione degli ufficiali del governo, che consistevano nel tentativo, serio, di promuovere la progressiva realizzazione di quei principi che avevano dato una definizione alla nazione.
Lincoln conosceva bene la Bibbia, ma la sua era un’ interpretazione chiaramente secolare della legge morale inclusa nella Costituzione. Taney aveva affermato che la sua opinione era in conformità con la Dichiarazione, ma limitando la sua applicazione solo agli uomini bianchi, egli la privò completamente del suo contenuto di rispetto dei diritti naturali. Ciò che più allarmò Lincoln di tutto questo fu la prospettiva reale che una generale accettazione del ragionamento espresso nell’opinione del giudice Taney avrebbe potuto in qualche modo portare ad una nuova base morale sulla quale fondare la nazione in conformità con un complesso di principi, ma soprattutto di lettura dei principi, alternativi e molto inferiori, chiaramente secondo Lincoln. Va però dato atto che questa prospettiva è assolutamente assente dal testo vergato dal giudice Taney, il quale si limitò a fare dei riferimenti di natura prettamente legale. Ma questa visione era però evidente nei più netti rifiuti della Dichiarazione trovati negli scritti di altri apologisti della schiavitù. E’, per esempio, evidente in Calhoun, dove egli parla del “pericoloso errore” di supporre “che tutti gli uomini siano nati liberi ed uguali”, di cui “niente può essere più infondato e falso”5959. Il motivo di questo errore, secondo Calhoun, era l’accettazione “dell’affermazione che tutti gli uomini sono uguali nello stato di natura, uno stato che è completamente in contrasto con la preservazione e il perpetuarsi della razza”. Per un sistema politico la cui identità era strettamente connessa con una particolare unanimità di idee, l’opinione di Taney nel caso Dred Scott rischiava pertanto di essere un atto completamente sovversivo, la cui tolleranza avrebbe favorito la preservazione degli elementi cardini della nazione solo formalmente.
Lincoln ovviamente cercò di opporsi a questo rischio sovversivo negando al caso Dred Scott di possedere quelle qualità che gli avrebbero consentito di essere una decisione di riferimento, se esso fosse stato coerente con le aspirazioni costituzionali.
Molti anni dopo, un altro protagonista della storia americana, John Adams, che era fra l’uditorio, notò: “Allora e lì nacque il bambino Indipendenza”6060. Egli, forse, voleva significare che, quando si compie un atto di violazione costituzionale, questo dovrebbe anche significare la nascita di una nuova nazione basata su nuovi elementi comuni ed aggregativi, e su nuove aspirazioni. In tal senso allora si può pensare che l’invenzione del judicial review, e la sua legittimità rispetto non tento alla costituzione formale quanto a quella sostanziale, è legato al progredire della realizzazione delle idee sulle quali si andava fondano il concetto di nazione americana. Concentrare l’attenzione quindi solo sul caso legale, sia esso Marbury v. Madison o Dred Scott, rischia di portare a non prendere sufficientemente in considerazione le vicende storiche che lo hanno preceduto e che hanno portato alla sua epifania. In tal senso allora il judicial review emerge come espressione di un accordo politico fondamentale. Con tutto che anche un accordo fondamentale ha sempre qualcuno che lo osteggia perché, comunque, qualsiasi situazione è assoggettabile a più letture. In tal senso quindi le critiche mosse da Lincoln sono, a loro volta, assolutamente criticabili, basta dire che egli ne sbagliò interpretazione e proporne poi a propria volta un’altra. Ad esempio si potrebbe sostenere, visto che nessuno è depositario della verità assoluta, che è assolutamente errato asserire, che tutti gli uomini sono creati uguali. Oppure si potrebbe dire che, alla luce della storia americana, ed in particolare alla luce del fatto che la schiavitù era legale quando la Dichiarazione e la Costituzione vennero redatte, allora la schiavitù era un elemento fondante della società e della nazione americana. E’ chiaro che anche delle obiezioni di questa natura sono criticabili, ma non sono comunque così improponibili da non meritare nemmeno di essere prese in considerazione Ma ciò che è realmente degno di nota è che, rispetto alla Dichiarazione di Indipendenza, interpretazioni fra loro così contrastanti non sono comunque il risultato di una spaccatura dovuta ad un documento che già in sè stesso è disorganico e contrastato, perché tutti comunque per giustificare le proprie posizioni si rifanno ad esso considerandolo pienamente ed acriticamente come il proprio “Vangelo”.
In questo si trova forse la differenza sostanziale, con la scena costituzionale di Israele, nella quale la fonte stessa del disaccordo interpretativo sui principi basilari è essa stessa istituzionale. Infatti il disaccordo è così generalizzato da non consentire nemmeno di giungere a trovare un’unione su elementi tali da consentire l’emanazione di una carta costituzionale6161.
La tensione che è presente in Israele trova terreno fertile anche nella contrapposizione tra il contenuto della Dichiarazione d’Indipendenza, e la realtà che la nascita del nuovo Stato fosse conseguenza dell’attività del movimento Sionista. Allora il problema per la Corte è di considerare quanto essa possa effettivamente prendere posizione, auspicando, e cercando di compiere, il programma contenuto nella Dichiarazione piuttosto che quello voluto dai Sionisti e che avrebbe portato, come poi è avvenuto alla nascita di uno Stato la cui definizione principale è ebraico e non democratico.
Nella sentenza Shalit6262 questa preoccupazione suggerì un’importante domanda: “Come può la corte contribuire alla soluzione di una disputa ideologica come questa che divide la società civile? La risposta non c’è, perché chiunque si aspetti che i giudici producano una formula magica non fa altro che deludere se stesso nella sua ingenuità”. Ma leggendo l’opinione della Corte Suprema nel caso Elon Moreh, pare di poter affermare che essa contribuì alla soluzione di quella che forse era la più lacerante disputa religiosa di Israele; ed inoltre lo fece in parte contando sull’ “esistenza di una base di fede per l’unità nazionale formulata in uno specifico momento della fondazione”. Ciò che impressionò particolarmente un autore fu un passo, nel quale il giudice sembrava uscire dalla sua strada per discutere i reclami che stavano alla base della politica di accordo implicita nel caso in questione6363. Egli fece ciò appellandosi all’ “autentica voce del Sionismo che insiste sul diritto degli Ebrei al ritorno alle loro terre … ma che non ha mai cercato di privare i residenti del paese, membri di altre popolazioni, dei loro diritti civili”. Ciò significò che i principi sionisti erano coerenti con gli standard internazionali messi a punto nella Convenzione dell’Aja, standard che non lasciavano altra scelta alla Corte se non quella di intervenire a favore della rule of law. Quello che è importante è che questo caso, pietra miliare nello sviluppo del judicial review dovrebbe essere accompagnato da una dichiarazione giudiziaria sui principi sionisti, e che la Corte dovrebbe emergere in qualità di catalizzatore dell’ unità morale di fronte alle profonde spaccature nello Stato. Ma questa cosa in realtà può avvenire solo in parte perché non c’è alcuna coesione morale ed ideologica fra i cittadini di Israele e della Palestina. Si può pensare che sia per questo quindi che la Corte, per giustificare le sue scelte, va a cercare appigli per giustificare al di fuori dei confini statali.
E’ indubbio tuttavia che la giustizia stesse facendo ciò che i giudici fanno meglio quasi ovunque, asserire la supremazia della rule of law. Sarebbe difficile immaginare un giudice di Israele che non aderisca ad una visione del Sionismo che includa la protezione dei diritti civili di tutto il popolo. Ma se, come si afferma, il credo fondamentale del sistema politico di Israele è che Israele deve essere una casa nazionale per gli Ebrei, mentre in America il credo era l’uguaglianza politica, ecco un’altra differenza di fondo fra le due realtà, allora la Corte non avrebbe potuto voler dire con la sua osservazione che “il credo aveva un singolo distinguibile significato che poteva essere definitivamente invocato per oltrepassare il conflitto politico”6464. Se tutto ciò viene calato nel contesto del caso Elon Moreh e cioè sul problema di chi fosse la proprietà della terra in Israele ed in particolare se questo compito spettasse effettivamente agli Ebrei, diventa allora chiaro che, con il suo intervento la Corte, nella persona del giudice Landau, non è riuscita, o magari non è voluta riuscire, ad affrontare la divisione politica presente in Israele.
Perché fu al fine di assicurare una casa-nazione agli Ebrei che l’espropriazione delle terre arabe iniziò ad essere associata con il movimento sionista. Per esempio, negli anni ‘50 e ‘60 la terra araba in Galilea venne espropriata dall’autorità pubblica al fine di costruire le città in crescita di Upper Nazareth e Carmiel. Non si minimizza il significato della decisione della Corte nel caso Elon Moreh se si ritiene che esso non abbia affrontato, in realtà, la tensione fondamentale presente nella Dichiarazione, la ricerca dell’uguaglianza per tutte le persone da una parte, e, come è chiaro in questo caso, lo sviluppo della terra di Israele per gli ebrei dall’altro. Ciò che distingue la confisca della terra araba nel caso Elon Moreh da altri insediamenti ebraici (sia in Israele che nei territori occupati) fu la sua lampante illegalità che la Corte non poteva ignorare (benché sia possibile che la Corte stessa, precedentemente, abbia finto di non vedere6565).
La guerra del 1967 non creò nuovi estremismi, si limitò a riportare alla luce quelli esistenti da ormai vent’anni.
La guerra può aver lasciato come conseguenza un rinnovato stimolo alla Corte Suprema per espandere il potere di judicial review, sentendo necessaria l’espansione di un suo ruolo politico. In questo senso ci può essere quindi una correlazione tra il conflitto ed il judicial review o, se non lo si vuole ammettere, almeno un attivismo giudiziario politico. Mentre in Israele il conflitto può sempre essere stato presente, ad un certo punto del suo sviluppo il suo carattere problematico è diventato così evidente e recante un disturbo tale che, molte persone, giudici inclusi, hanno percepito la necessità di affrontare le cose in modo diverso. Essi allora hanno cercato di mettere in moto un processo in grado di offrire la possibilità di stabilire un consenso morale e politico che alla fine giunga a sanare le sempre più pericolose spaccature all’interno dello Stato di Israele.
Fino a questo punto abbiamo fatto notare il tentativo di comparazione attorno al caso Elon Moreh, mentre in realtà, come già sappiamo, la tendenza generale è quella di considerare il caso Bergman come il momento iniziale del judicial review in Israele; e, conseguentemente anche come termine di paragone con il caso statunitense Marbury v. Madison.
Deciso nel 1969, il caso Bergman ha il potenziale per diventare quello che Marbury è stato nella legge costituzionale americana, ovvero il precedente guida per un potere largamente fondato sul judicial review. Se ciò avesse richiesto, prima di accadere, un lasso di tempo paragonabile a quello in cui si è sviluppato negli USA, naturalmente ci sarebbero voluti molti anni prima che quel potenziale (adattandosi, come necessario ed ovvio, a causa dell’assenza di una formale costituzione scritta) venisse realizzato. E, proprio come è facile immaginare una reazione di sorpresa da parte di Marshall di fronte a come la sua opinione fosse stata esagerata nelle conseguenze rispetto a ciò che egli aveva potuto prevedere, ci si poteva aspettare parimenti che Landau esprimesse un senso di stupore simile agli effetti esagerati che erano stati tratti dalla sua opinione.
Negli Stati Uniti è oramai dato per scontato che il potere della Corte Suprema di emettere interpretazioni finali e vincolanti sulla base della Costituzione è un corollario necessario del judicial review. E’ anche da molto tempo dimenticato che la formulazione originale di Marshall venne scritta nel contesto di rivedere una sezione di una legge che aveva specificatamente a che fare con i poteri dell’ordinamento giudiziario. Questo non avviene solo negli Stati Uniti, ma anche in Israele: infatti, in un caso, la presunzione derivante da Marshall è stata usata per sostenere la tesi che, in un regime basato sulla separazione dei poteri, l’autorità per interpretare gli atti legislativi, a partire dalle basic laws e, passando per gli statutes, fino agli ordini amministrativi, è attribuita alla Corte. Inoltre la sua interpretazione è vincolante per i partiti ed è vincolante per la società in generale. Il caso in questione era inerente ad una decisione presa dal Presidente della Knesset e volta ad escludere una fazione di partito con un membro dalla facoltà di presentare una proposta di sfiducia al Governo6666. L’intervento della Corte in quello che ha almeno l’aspetto di una questione legislativa interna ricorda il caso americano Powell v. McCormack6767, nel quale la Corte disse, di nuovo facendo affidamento su Marbury, “è responsabilità di questa Corte agire come ultimo interprete della Costituzione”.
Anche questa sentenza, ed in particolare queste stesse parole vennero citate nell’opinione del caso israeliano. Chiaramente questo pone però un problema perché, se le parole citate prima non sono speciali per un ordinamento giuridico in cui è presente una costituzione formale e che riconosce il judicial review come strumento di garanzia; la stessa cosa non è per Israele, per quanto si possa pensare che queste parole siano verità fondamentali in ogni sistema in cui ci sia una separazione dei poteri ed una netta ed assoluta indipendenza del potere giudiziario.
Allora è solo in questo senso che si può pensare che Israele, pur non avendo una costituzione “normale”, abbia comunque dei documenti che, almeno alcuni, godono di una sorta di status costituzionale e che, interpretati dalla Corte, possano fare, ed hanno in effetti fatto, molto per stabilire dei principi superiori e per sancire la completa indipendenza dell’ordinamento giudiziario6868. L’uso indiretto della Dichiarazione di Indipendenza nel caso Kol Ha’am per invalidare un’azione amministrativa che usurpava la libertà di stampa ne è senza dubbio l’esempio classico ed in assoluto più citato. Ma nonostante la sua indipendenza, l’autorità della Corte ad agire come “ultimo interprete” in questioni costituzionali che coinvolgono la Knesset è però tutt’altro che indiscutibile, con la sola eccezione della legislazione che è in contrasto con una entrenched clause di una basic law. Bergman è la base di questo comportamento per così dire eccezionale, di cui ci sono già note tutte le critiche ed i dubbi possibili.
Nel caso Bergman la Corte rispose favorevolmente, come già sappiamo, alla petizione di Aharon Bergman, che aveva chiesto di vietare al Ministro delle Finanze di agire nel rispetto di quanto previsto dalla Legge Finanziaria del 1969.
Le opinioni circa quello che realmente fece la Corte nel pronunciarsi in una determinata maniera possono divergere notevolmente, da una parte c’è chi potrebbe ritenere che Bergman sia la base meno importante per le richieste contemporanee della Corte Suprema di Israele per avere una maggiore autorità giudiziaria; dall’altra c’è chi, e sono la maggior parte dei critici, potrebbe pensare che essa invece abbia rivoluzionato il sistema legale israeliano introducendo, di fatto, ma non di diritto, la supervisione giudiziaria della costituzionalità della legislazione ordinaria.
La stessa cosa accadde in Marbury, dove una limitata interpretazione della portata del suo significato per ciò che concerne il judicial review confinerebbe il controllo a questioni di diretto interesse dell’ordinamento giudiziario, al contrario una visione ampia lo vedrebbe come base della supremazia giudiziaria in tutte le questioni costituzionali. Ugualmente il parere del giudice Landau si presta a simili possibilità alternative. Ciò si può vedere nel modo in cui egli tratta il conflitto tra le due leggi, che sono comunque entrambe leggi della Knesset. Da un lato il procuratore generale aveva dimostrato che non esisteva alcun conflitto, nel senso che il principio di uguaglianza nella basic law doveva essere accuratamente costruito per significare solo che ogni votante doveva avere un voto di ugual peso, principio di una persona un voto. Dall’altro, secondo una lettura alternativa dello statute accettato dalla Corte, la sezione 4 non dovrebbe essere confinata a provvedimenti tecnici riguardanti la gestione delle elezioni, ma dovrebbe anche includere l’eguale diritto ad essere eletti, un diritto chiaramente negato dalla Legge Finanziaria in questione. Ma secondo Landau qualsiasi dubbio sul significato del provvedimento doveva essere risolto applicando all’area specifica delle leggi elettorali il principio generale dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. In questo egli rifiutò il reclamo del procuratore generale che sosteneva che, poiché il principio di uguaglianza non era contenuto in una costituzione scritta formale o in qualcosa di simile (una basic law), questo non poteva imbrigliare il legislatore al punto da impedirgli di disinteressarsi di esso. Benché “non sia scritto da nessuna parte, questo è un principio che diffonde il respiro della vita in tutto il nostro sistema costituzionale. E’ pertanto giusto che solo nel caso dubbio, quando il provvedimento della Legge emanata sia passibile di almeno due interpretazioni, preferiamo quella delle due che preserva l’uguaglianza di tutti davanti alla legge e non la fa comunque fallire”6969. Questa preferenza portò la Corte ad invalidare la Legge Finanziaria nonostante il fatto che “la prima inclinazione della Corte deve essere quella di appoggiare e di far rispettare la legge e non di invalidarla, persino quando il conflitto contro di essa è dovuto al fatto che essa è in aperta e palese contraddizione con una entrenched clause di una basic law”.
A questo punto può farsi largo una ovvia considerazione e cioè che, se i principi costituzionali non scritti, a cui si riferisce la Corte, sono sufficientemente chiari ed abbastanza forti da superare questa “prima inclinazione”, allora può essere forse giusto presupporre, come generale dichiarazione giurisprudenziale, che, quando c’è uno statute di dubbia coerenza rispetto ad una basic law, la sua validità possa essere messa a confronto con l’applicazione di una Costituzione non scritta. Allo stesso tempo ci si può anche porre un altro tipo di problema, quello derivante dalla presunzione per la quale c’è la possibilità che una legge, approvata dalla Knesset e ripudiante uno dei principi cardini del sistema costituzionale, se si segue Landau, possa essere invalidata dalla Corte Suprema addirittura senza la presenza di una basic law rafforzata. A questo proposito un autore si domanda se Bergman non sia in realtà molto più ampio di quanto non lo sia stato Marbury negli Stati Uniti. In tal senso l’autore in questione dice: “Dove il Chief Justice Marshall ha dichiarato nullo un Atto del Congresso perché era in conflitto con la Costituzione, il Giudice Landau … dichiarò nullo un Atto della Knesset nonostante il fatto che Israele non abbia ancora adottato una costituzione scritta”7070.
La perplessità che abbiamo affrontato all’inizio riguardante il fatto che, plausibilmente, Landau non aveva valutato tutte le conseguenze della sua opinion, si può così cogliere proprio dal parere stesso di Landau. In esso non c’è niente che indichi che egli avesse in mente possibilità così ampie. E’ quasi certo che egli non intendesse niente di più di dire che, dove ci sono due possibili interpretazioni di uno statute, l’interpretazione da preferire è quella che è conforme al principio di uguaglianza. Certamente, ed è opportuno ripeterlo ancora una volta, non c’è nessun chiaro diritto per supporre che una legge della Knesset possa essere rovesciata basandosi su un qualsiasi principio costituzionale non scritto. Inoltre è stato lo stesso Landau a sostenere che, a parte la situazione particolare dovuta alla presenza delle entrenched clause, la Corte non possa autoassegnarsi il potere di rivedere il contenuto della legislazione della Knesset. Questa affermazione però, per quanto proveniente da una figura di indubbio prestigio, non è garanzia del fatto che la Corte non possa, in qualsiasi momento, assumere questo potere appellandosi proprio alla teoria dei principi non scritti che è stata sviluppata in Bergman. E’ legittimamente ipotizzabile, di conseguenza, che una Corte che si muove come se fosse l’ultimo interprete, pur non essendole questo potere espressamente riconosciuto, potrebbe abbastanza facilmente appropriarsi del linguaggio di Bergman per concludere che una certa offensiva primaria della legislazione ai principi fondamentali del sistema costituzionale non può stare in piedi. Pur con tutte le difficoltà ed obiezioni che ormai conosciamo.
La riluttanza dello stesso giudice estensore della decisione del caso nel muoversi in questa direzione è probabilmente legata alla preoccupazione circa il carattere dei principi fondamentali che si sono tirati in ballo perché, mentre le Corti devono rinforzare il principio di uguaglianza di fronte alla legge nei casi giudicabili, ci possono essere altri principi (come forse questo principio in certe situazioni) dove l’imposizione da parte della Corte Suprema farebbe assumere un ruolo inappropriato all’ordinamento giudiziario la dove le controversie sarebbero più facilmente soggette ad una risoluzione di natura politica. Insomma c’è la consapevolezza del rischio di politicizzare il ruolo della Corte Suprema.
Nel contesto di Bergman la decisione della Corte perciò si può giustificare solo se la si intende come una vera e propria affermazione del potere giudiziario a difesa di una vitale preoccupazione istituzionale, vale a dire della inviolabilità del processo elettorale.
Una visione di questo tipo si può riscontrare anche nella ormai arcana dottrina americana della burocrazia, che nega che una sola figura istituzionale possa avere una decisiva autorità interpretativa su tutte le questioni costituzionali e, più in particolare, che debba essere accordata considerazione a ciascuno dei tre Poteri per questioni che riguardano le sue funzioni. Negando che la Corte Suprema debba essere “l’arbitro finale di tutte le questioni costituzionali” Thomas Jefferson affermò che “la costituzione non ha creato un tale tribunale sapendo che, in qualsiasi mani venga affidato, con la corruzione del tempo e dei partiti, i suoi membri diventerebbero dei despoti. Ma più saggiamente ha fatto tutti i dipartimenti co-sovrani ed eguali tra di loro”7171. Mentre questo è il punto di vista associato più frequentemente a Jefferson, alcuni studiosi della costituzione dicono che esso è anche una componente essenziale del parere di Marshall in Marbury v. Madison. Marshall “sosteneva che ogni dipartimento dovrebbe avere autorità finale per passare avanti questioni costituzionali riguardanti i suoi doveri e responsabilità”. Questa non è la richiesta che si trova nelle più contemporanee giustificazioni Marbury di particolari esercizi del judicial review, ma, come è stato detto “il mitico Marbury e il reale Marbury abitano diverse galassie costituzionali”7272. E’ per esempio degno di nota il fatto che prima della fine del XIX secolo l’opinione di Marshall non venisse citata come precedente di judicial review; nè veniva mai citata a questo proposito fino agli anni cinquanta. La sua assenza fra i precedenti citati in Dred Scott è molto significativa, poiché quel caso fu la prima istanza post-Marbury nella quale il judicial review venne usato per ribaltare un emendamento congressuale e fu anche il primo esempio nella storia della Corte di abbattimento di una legge che riguardava questioni esterne all’ambito del dipartimento di giustizia.
Per quanto tutto ciò sia plausibile si può anche pensare che Marshall possa aver inteso che la Corte eserciti il potere di judicial review solo su atti di “natura giudiziaria”, ma le difficoltà, sia pratiche che teoriche, di determinare i confini giurisdizionali nei singoli casi rendono palese il motivo per cui una tale intenzione non sarebbe probabilmente alla fine facilmente e rettamente seguita. In aggiunta, la connessione storica tra il judicial review e la giurisprudenza dei diritti naturali suggerisce che sarebbe difficile tenere confinata la Corte a questioni effettivamente e strettamente predeterminate. L’opposizione di Lincoln alla sentenza Dred Scott non derivava da un senso che la Corte, nell’invalidare il compromesso del Missouri, si fosse avventurata in modo inappropriato oltre il proprio terreno di competenza. E’ più semplice pensare che essa piuttosto riflettesse la sua convinzione che il giudizio della Corte fosse sbagliato; sbagliato nel modo più grave e pericoloso che fosse possibile immaginare perché esso ripudiava i principi della Dichiarazione. Per la stessa ragione per cui non aveva potuto appoggiare la supremazia giudiziaria, non aveva potuto appoggiare lo stretto punto di vista derivante da Marbury; la finalità giudiziaria è alla fine giustificata, e giustificabile, solo in quanto miri al raggiungimento di quanto auspicato nella Dichiarazione e nella Costituzione.
In Israele, la Corte, ed in particolare chi la presiedeva, cioè il giudice Landau, volle appoggiare ciò che altri potevano descrivere come una visione restrittiva di Bergman se non altro perché, così facendo, essa non poteva allora diventare un precedente per un ampliamento del judicial review in aree ancora più controverse di quelle affrontate nelle basic laws non rafforzate. Perciò sulla sua posizione si potrebbe dire, anche se è assolutamente criticabile, che, come i difensori di un lettura ridotta di Marbury, egli preferì confinare l’attività della Corte, per quanto riguarda la sua revisione della legislazione, a questioni aventi natura esclusivamente giudiziaria. La sua opposizione ad un ruolo della Corte che possa condurre a creare dei diritti superiori inviolabili, non significa che essa dovesse completamente astenersi dal rafforzare quei diritti sentiti come comuni nella società, ma solo che la sua salute istituzionale dipende dal minimizzare occasioni di confronto diretto con la legislatura su questi temi.
La storia statunitense in tal senso è però maestra nell’insegnarci che il judicial review è diventato strumentale perché ha messo nelle mani del potere Giudiziario molte delle questioni sociali e politiche più laceranti che il popolo americano si sia trovato ad affrontare (discriminazione razziale, azioni positive, etc.). In altre parole, i giudici non si sono attenuti strettamente al loro settore di competenza, come Jefferson pensava, forse utopisticamente, che dovessero fare. E’ comprensibile che una evoluzione simile in Israele, dove le divisioni sociali sono più nette, più accese ed anche più esasperate dal continuo conflitto interno, possa portare persone assennate e per di più ricoprenti un ruolo di altissimo valore, come i Giudici della Corte Suprema, a cercare in qualche modo di non spingersi fino ad estremizzare il conflitto fra potere Giudiziario e potere Legislativo. Ci si dovrebbe naturalmente chiedere se sia ancora realistica la visione di una soluzione “dipartimentale”, in cui il Giudiziario è limitato nei suoi poteri perché esclude dall’applicazione del judicial review atti legislativi riguardanti direttamente i diritti individuali. Molti discuterebbero, per es., il fatto che il Giudice Landau ha il merito di aver fatto molto in Israele per creare una dichiarazione dei diritti “giudiziale”, grazie alla quale, in altre parole, la Corte è già diventata un attore principale nelle grandi questioni che dividono la politica. Anche se forse è vero, può darsi che questo non sia il modo migliore per inquadrare la questione. Sviluppare una dichiarazione dei diritti de facto attraverso un’interpretazione statutaria e una revisione amministrativa non implica il grado di certezza o conclusione che comporta il judicial review della legislazione primaria. La prudenza a questo punto richiede restrizione giudiziaria. Per dirla in un altro modo: restrizione giudiziaria in Israele significava, ma significa tutt’oggi, evitare giudizi definitivi in assenza di una regolamentazione definitiva dei principi formanti l’unità nazionale.
E’ chiaro che tutti questi problemi vengono meno in seguito all’emanazione della Basic Law del 1992 Human Dignity and Liberty.
Il discorso svolto in questo capitolo mostra come, per esaminare il judicial review, sia indispensabile volgere lo sguardo anche altrove e cioè alla realtà politica e sociale ed al ruolo della Costituzione sia in Israele che negli Stati Uniti. Il fatto che negli Stati Uniti la Costituzione assuma un ruolo più importante come fonte di una identità politica condivisa di quanto non avvenga in Israele ha attinenza col modo in cui ci si dovrebbe relazionare con gli atti con cui si interpreta la Costituzione, sia essa quella scritta e formale degli Stati Uniti o quella “materiale” di Israele. Il chi e il che cosa dell’interpretazione costituzionale è in qualche modo collegato alla questione del chi e del che cosa dell’identità civile. Perciò, parlando del judicial review in questo contesto, allora dobbiamo pensare che i giudici che esercitano questo potere, specialmente nel sistema americano, sono direttamente, o indirettamente, ma comunque sempre consapevolmente coinvolti in un processo di legittimazione politica del loro ruolo.
Ma, detto ciò, non si risolve ancora il problema inerente a chi spetti l’ultima parola, a chi spetti, in pratica, la responsabilità interpretativa finale.
Ecco che ci si trova di nuovo di fronte ad almeno una duplice possibilità interpretativa, da un lato si può pensare che la Corte, come organo giudiziario supremo ed indipendente, sia l’istituzione più adatta a ricoprire questo ruolo di definizione. Dall’altro, si può pensare (ed abbiamo già visto che, per quanto riguarda gli Stati Uniti ci fu, tra gli altri sostenitori di questa tesi, Lincoln) che la superiorità dei principi in gioco in queste decisioni escluda la possibilità del monopolio del giudiziario, anche perché ciò sarebbe pericoloso e passabile di essere visto come un modo per valicare la Costituzione. Tutti, chi più chi meno, accettano il ruolo del giudiziario, ed in particolare così si crea identità tra le diverse posizioni nella misura in cui, tutti i Poteri siano coinvolti nell’impresa comune di tentare di realizzare ideali costituzionali. Perchè tutti hanno la responsabilità di difendere, in modo adeguato, il tentativo di una migliore comprensione di questi ideali “comuni”. Dred Scott fu naturalmente la grande lezione di Lincoln sulla fallibilità giudiziaria, una versione specifica di una lezione dettagliatamente descritta nel saggio iniziale di The Federalist: “Le cause che servono a dare un pregiudizio falso al giudizio sono veramente così numerose e potenti, che noi, in molte occasioni, vediamo uomini saggi e buoni dalla parte sia sbagliata che giusta di questioni di prima grandezza per la società. Questa circostanza, se ben considerata, darebbe una lezione di moderazione a quelli che sono sempre così persuasi di essere nel giusto, in ogni controversia”.
Avviene così che, mentre l’esistenza di un consenso morale incorporato in una costituzione scritta legittima l’esercizio del judicial review da parte di una istituzione, la possibilità di un errore o di una distorsione, ancor più grave se volontaria, suggerisce l’inadeguatezza di una finalità non esplicitamente qualificata nell’interpretazione costituzionale. Un’altra chiave di lettura può, senza ombra di dubbio, portare invece a sviluppare una teoria costituzionale che, in un modo o nell’altro, si radicalizzi nell’idea che la Costituzione sia quella che i Giudici dicono che sia. In quest’ottica allora gli Americani hanno bisogno di una Corte che sia estremamente impegnata nel processo di chiarire ed elaborare quei significati che portano a definire la Nazione come un tutto omogeneo perché scaturente da radici comuni. Ma, per questo stesso motivo devono anche fare in modo che quell’impegno sia parte di una impresa collaborativi in cui la finalità di ogni giudizio costituzionale che riguarda principi fondamentali diventi qualcosa di più di una questione formalistica di determinare chi ha l’ultima parola.
L’esempio di Israele è illuminante e rende così assolutamente manifesto questo problema. In Israele la nozione di Corte come ultimo interprete costituzionale è particolarmente problematica alla luce della difficoltà storica di questo sistema politico nel conseguire un consenso o una visione costituzionale unificata; per non ritornare nuovamente sulla sua lunga tradizione di supremazia parlamentare che abbiamo visto è andata scemando con l’allontanamento dalla fondazione di Israele e con la maggiore presa di coscienza si sé della Corte Suprema. Ciò che è giusto o sbagliato, applicato in Israele ai principi basilari, dipendeva grandemente dalla percezione della correttezza di una scelta tra filamenti particolaristici e universali nella “costellazione” costituzionale esistente, dato che non esiste un testo che funge da polarizzatore come negli Stati Uniti. La posizione della restrizione giudiziaria riflette, tra le altre cose, un comprensibile desiderio di evitare di fare questa scelta. In ciò si vede ancora il forte rispetto per il Legislativo. Però questo potrebbe anche non essere considerato inevitabile; il judicial review, o più ampiamente, l’interpretazione costituzionale da parte della Corte, ha un potenziale molto maggiore che negli Stati Uniti perché mantiene un ruolo relativamente modesto nello sviluppo della comprensione costituzionale. C’è meno ragione di preoccuparsi di un Giudiziario che si muove attivamente se si capisce chiaramente che i risultati specifici della sua attività posseggono uno status politicamente provvisorio o intermedio nell’elaborazione dei principi del sistema. Infatti Bergman anticipa di ben ventitre anni quello che ha poi fatto il Legislativo. Una Corte che persegue le aspirazioni più libertarie degli elementi fondanti della Nazione può e dovrebbe essere controllata da una Knesset particolarmente sensibile ed attenta a cogliere i sentimenti popolari di cui spesso la Corte Suprema, anzi le Corti Supreme in generale, indipendentemente dallo Stato di cui si parla, è la prima interprete. Allo stesso modo la Knesset dovrebbe, a sua volta, essere controllata dalla Corte. Se da questo processo emerge un genuino colloquio costituzionale esso può contenere al suo interno la possibilità di conseguire una maggiore unità di scopo costituzionale. Ma contiene anche al suo interno una lezione per quei sistemi politici che cominciano con questa unità più grande: anche essi possono trarre giovamento da un’organizzazione costituzionale che permette loro di conseguire un livello più alto di chiarezza nell’articolazione, nello sviluppo e nell’applicazione del principio costituzionale.
E’ quindi più che altro negli auspici che si può cercare di trovare una qualche similitudine tra l’esperienza statunitense e quella israeliana.
3.3 Il judicial review sulle azioni nei Territori Occupati
Molti giuristi israeliani, così come molti giuristi stranieri, quando si accingono ad esaminare il lavoro della Corte Suprema tendono a soffermarsi in particolare su sentenze riguardanti azioni militari o decisioni amministrative nei territori occupati. Notare ciò è importante nel presente lavoro perché ci permette di accedere, seppur quasi esclusivamente in via mediata a causa delle difficoltà linguistiche, all’operato della Corte, e, scendendo ancora più nello specifico, a quella parte del suo operato che gli studiosi di diritto identificano con l’espressione judicial review nei territori occupati.
La Corte Suprema di Israele incominciò ad esercitare una revisione sulle azioni delle autorità militari nel West Bank e nella striscia di Gaza quando l’Israeli Difensive Forces, di qui in avanti IDF, occupò queste zone nel 1967 a seguito della guerra dei Sei Giorni. Negli anni seguenti questa opera di revisione divenne il compito centrale del controllo legale e politico di Israele su questi territori. La Corte ha emanato centinaia di decisioni sulle più svariate situazioni che si sono venute a creare nei territori occupati (attacchi agli insediamenti civili, cambiamenti nella legge locale, demolizione di case, e detenzione amministrativa).
Il judicial review è stato frequentemente menzionato come risposta, critica, alle azioni del governo nei territori occupati.
La percezione del judicial review come una garanzia del rispetto della rule of law riposa sull’enorme prestigio della Corte Suprema.
E’ ormai cosa accettata che il judicial review delle azioni del governo “ha due funzioni primarie – che imprimono sulle azioni del governo il marchio della legittimità, e che controllano gli scopi politici del governo”7373. Il judicial review della Corte Suprema sulle azioni delle autorità militari nei territori occupati risponde appieno a queste due funzioni. Ciò che resta da stabilire è quale sia la sua applicazione dominante.
L’approccio della Corte Suprema nelle decisioni relative ai territori occupati deve essere esaminata alla luce di due fattori: primo, i motivi politici che stavano dietro l’occupazione ed il modo in cui l’occupazione era, ed è, percepita dalla maggioranza degli israeliani; secondo, la natura della Corte Suprema di Israele, la sua posizione nel sistema politico, ed il suo generale approccio nelle materie relative alla revisione dell’operato del governo.
L’occupazione che iniziò nel 1967 e che proseguendo, seppur geograficamente mutata, ancora oggi si è usi considerarla come un unico momento storico, è in realtà frazionabile in vari periodi distinti. Questa suddivisione si può ricondurre a cambiamenti nella situazione politica e nella sicurezza interna, fatti che influenzarono sensibilmente la propensione ad adire, da parte dei Palestinesi, la Corte Suprema e che hanno fatto anche incrementare, e variare, la tipologia delle situazioni che vengono denunciate alla Corte.
Durante la prima decade dell’occupazione furono fatti dei tentativi di opporsi alle azioni militari rivolgendosi alla Corte Suprema di Israele, e molte importanti decisioni vennero prese7474. Erano però numericamente ancora pochi i Palestinesi che decidevano di rivolgersi alla Corte: ciò a causa di diverse ragioni, tra le quali il tendenziale rifiuto di riconoscere, e quindi di legittimare, le istituzioni israeliane, ed ancora la scarsa familiarità con il sistema giudiziario israeliano.
L’accoglimento della richiesta avanzata nel celeberrimo caso Elon Moreh ha avuto la funzione di spronare gli avvocati che rappresentavano i Palestinesi ad intraprendere con maggiore convinzione le vie legali nuove per opporsi ad ulteriori azioni del governo come, ad esempio, la demolizione delle abitazioni. Altri elementi sono molto probabilmente rinvenibile, da un lato, nell’aumento del prestigio delle organizzazioni non governative (ONG) straniere che incominciavano a muoversi per proteggere i diritti dei Palestinesi, dall’altro, nell’opposizione interna in Israele dei gruppi politici che erano contrari alle decisioni di insediamento del governo e, parallelamente, ma forse non indipendentemente, nascevano nel nuovo Stato delle Ong che si ripromettevano come scopo quello di cercare di capire in che modo usare il sistema giudiziario israeliano per far sì che con esso si potessero proteggere i diritti umani anche dei Palestinesi.
L’assenza di una legge che renda esplicito il potere di judicial review nei confronti della legislazione della Knesset non significa, come abbiamo già detto, che non ci sia una tutela dei diritti umani, o dei diritti che potremmo forse definire come internazionalmente riconosciuti. Il concetto dei diritti dell’individuo ha giocato un ruolo centrale nell’interpretazione degli statutes e nel controllo delle decisioni frutto della discrezionalità amministrativa e della legislazione delegata. Negli anni la Corte è intervenuta in un amplissimo raggio di decisioni amministrative relative a delle decisioni dell’autorità amministrativa palesemente discrezionali come la concessione della licenza di stampa, i permessi per manifestazioni pubbliche, la censura degli spettacoli teatrali o dei films, l’elezione dei rappresentanti negli organi pubblici e l’affitto degli edifici pubblici. Tutto ciò è potuto venire alla luce grazie al lavoro compiuto sugli statutes che sono sempre più stati interpretati in maniera tale da essere compatibili con dei diritti fondamentali; allo stesso modo è anche stata invalidata la legislazione delegata che stabiliva delle restrizioni ai diritti degli individui senza però derivare questa autorità da alcuna previsione statutaria.
E’ chiaro che i problemi che si sono venuti a creare nei territori occupati hanno un’origine politica prima ancora che giuridica. C’è, in tal senso, un’evidente disparità tra gli obbiettivi politici del governo negli insediamenti e nelle politiche di sviluppo nei territori occupati, e le ragioni sottese alle decisioni della Corte. Allo stesso modo le ampie spiegazioni fornite dagli organi politici per questa disparità di atteggiamento si basano sulla considerazione che sono differenti i loro compiti e le loro finalità rispetto a quelle di coloro che si occupano di giustizia. Le corti vengono chiamate a decidere su una disputa particolare e non su situazioni nelle quali si è necessariamente costretti ad agire compiendo delle generalizzazioni, che sono quelle invece dalle quali prende spunto il governo. Senza la cornice nella quale si svolge una disputa concreta essi sono costretti, e tenuti, a basare le loro decisioni sui fatti e sulle argomentazioni che vengono esposte dalle parti. Se ciò è vero, è però altrettanto incontestabile che in realtà la Corte non possa decidere prescindendo completamente dalla situazione politica nella quale si innesta il caso concreto che le viene presentato. Come abbiamo già visto, infatti, una delle ragioni dell’accoglimento della richiesta degli attori nel caso Elon Moreh è stato proprio il fatto che i giudici si sono trovati a dover prendere in seria considerazione la dimensione politica della decisione specifica di stabilire un insediamento in quel determinato luogo.
In altri casi gli attori basavano le loro argomentazioni sulla politica generale del governo, senza però provare alcuna connessione tra di essa e le esigenze per cui si richiedeva tutela nel caso concreto. In queste situazioni allora era più facile per la Corte ignorare il contesto politico e basare le proprie decisioni su argomenti quali: la sicurezza o i benefici pubblici che le autorità si aspettavano di ricavare da un certo comportamento.
Tornando ancora un attimo ad esaminare il contesto nel quale si sviluppano queste situazioni è importante sottolineare come, negli anni, i governanti israeliani abbiano cercato, dopo l’annessione finale del West Bank e di Gaza, di applicare il sistema giuridico di Israele in queste zone. Almeno in teoria la legge applicabile nei territori occupati che si trovano ancora sotto il controllo dell’IDF dovrebbe essere la stessa legge che era in vigore quando gli uomini dell’IDF entrarono nell’area. Questa legge pertanto sarebbe dovuta essere soggetta solamente ai cambiamenti introdotti dall’ordine militare7575.
La Corte Suprema di Israele non è un forum internazionale: nel senso che i suoi poteri e la sua giurisdizione sono definiti nelle leggi dello Stato di Israele. Perciò non è affatto auto-evidente che il potere di revisione della Corte si estenda anche alle azioni compiute dai militari in zone che non sono soggette alla sovranità territoriale di Israele, ed in cui quindi il sistema giudiziario israeliano non dovrebbe essere applicabile. Ecco dunque perché un Autore arriva fino ad affermare che i comandi militari nei territori occupati non sarebbero soggetti alla giurisdizione dei tribunali del loro paese d’origine7676.
Quando i primi residenti dei territori occupati si rivolsero alla Corte Suprema, in qualità di Alta Corte di Giustizia, i consiglieri legali del governo dovettero decidere se contestare la giurisdizione della Corte su queste questioni. Shamgar, procuratore generale negli anni in cui si stava andando a creare la giurisdizione della Corte sui territori occupati, e futuro Presidente della Corte Suprema, decise di adottare una linea di condotta che guidasse le decisioni del governo negli anni a venire: le autorità avrebbero domandato che la Corte si esprimesse sul merito dell’istanza senza entrare in questioni di giurisdizione7777.
Erano probabilmente molteplici le ragioni alla base della decisione di adottare questa linea di condotta. Shamgar aveva scritto che la sua idea di fondo era di garantire una qualche forma di controllo esterno sulle azioni militari, così da prevenire comportamenti arbitrari e da mantenere intatta la rule of law.
Un atteggiamento di questo tipo permetteva anche di seguire la linea “filosofica” prevalente nella Corte; cioè quell’idea che portava a pensare che “nelle zone in cui la Corte non interviene, il principio della rule of law è incrinato”7878. Questo è ben lungi dal significare che le istanze rivolte alla Corte Suprema di Israele, dai residenti nei territori occupati comportino il riconoscimento di Israele da parte degli attori, ma consente almeno di pensare ad una forma di legittimazione, per così dire politica, del ruolo dello stato sionista in queste zone conquistate con la guerra.
In uno dei primi casi, Christian society case, la questione della giurisdizione non venne nemmeno menzionata dalla Corte7979. In un caso di poco seguente, Electricity Corporation Case8080, la Corte fece notare come “nessuna delle parti in causa contestasse la sua giurisdizione, ritenendo ciò un elemento significativo per decidere su domande relative alle attività di un comando militare israeliano nella zona”.
La questione della giurisdizione non era però stata risolta e si poteva perciò ipotizzare che si trattasse solamente di un problema di tempo prima che la Corte si trovasse ad affrontare e risolvere tale questione.
Questo avvenne nel caso Rafiah Approach la Corte notò come le autorità ancora una volta si fossero trattenute dal contestarne la giurisdizione. La Corte però affermò di avere giurisdizione in merito alla luce di quanto disposto nella section 77 della Courts Law, 19578181.
Ecco che il judicial revew degli atti dell’IDF nei territori occupati diviene un elemento caratteristico della vita politica e, soprattutto, del sistema giuridico di Israele. La specificazione espressa nel caso Rafiah Approach venne adottata come il punto di vista della Corte anche in altri casi8282. La motivazione era questa: siccome i militari sono dei pubblici servitori che adempiono ad un pubblico dovere stabilito dalla legge, sono soggetti alla giurisdizione della Corte Suprema, in qualità di High Court of Justice.
Il fatto che la giurisdizione della Corte sugli atti militari nei territori occupati trovi giustificazione nell’interpretazione dello statute israeliano di cui sopra, ha un’importante implicazione, che è quella per cui la giurisdizione della Corte non dipenda dal consenso dei partiti o dalle teorie derivanti dalla legge naturale od internazionale. Ciò permette di far sì che, da un lato, le autorità militari non possano aggirare il judicial review negando il consenso alla giurisdizione della Corte, in quanto non c’è bisogno del loro consenso dato quello che è previsto dalla legge. Ma dall’altro, essendo anche il potere legislativo nei territori occupati concentrato nelle mani dei comandi militari, la Knesset potrebbe ridefinire la giurisdizione della Corte così da escludere o da limitarne il potere di revisione delle decisioni adottate nei territori occupati.
Il problema principale per quanto ci riguarda è, non tanto quello relativo alla giurisdizione, quanto piuttosto quello relativo al judicial review della legislazione militare nei territori occupati. In particolare la questione è se essa, la legislazione militare, sia da considerarsi equivalente alla legislazione costituzionale, e perciò immune dall’ingerenza della Corte, o se vada piuttosto considerata equivalente alla legislazione secondaria o delegata, quindi soggetta ad una possibile opera di revisione qualora violasse dei “principi costituzionali”.
La prima volta in cui si discusse espressamente di ciò fu nel caso Rafiah Approach. L’Avvocato del governo sostenne che la legislazione militare dovesse avere lo stesso status, agli occhi della Corte, della legislazione costituzionale della Knesset. Uno dei giudici della Corte Suprema, il giudice Witkon, si pronunciò contro il judicial review della legislazione militare, affermando che l’autorità militare, quando esercita potere legislativo, agisce quale legislatore sovrano nei territori occupati. La sua conclusione era che la legislazione militare dovesse essere tenuta in considerazione, dalla Corte Suprema, al pari della legislazione costituzionale, non passibile dunque di essere soggetta a revisione da parte della Corte stessa. Egli basava questa sua opinione, da un lato, sulla legge amministrativa israeliana, in base alla quale venivano conferiti i poteri legislativi all’esercito, e dall’altro alla luce della legge internazionale.
La sua opinione non venne supportata. Nel caso stesso infatti la Corte adottò un approccio differente. Un altro giudice, il giudice Kister, suggerì che, mentre un comando militare in un territorio occupato è in effetti fonte stessa del suo potere, in tutte queste situazioni esso è invece soggetto agli ordini superiori. In ogni “nazione illuminata” l’esercito è anche tenuto al rispetto delle regole della legge internazionale che ne limitano l’autorità8383.
La visione del giudice Kister divenne velocemente quella accettata dalla Corte.
Nel caso VAT8484la questione riguardava l’ordine militare che imponeva l’IVA nei territori occupati. La Corte non dubitò più del proprio potere di revisione e così, relativamente a quest’ordine, decise che l’esercito aveva ecceduto i poteri legislativi che potevano essere consentiti ad un occupante, in una situazione di guerra, dalla legge internazionale. Inoltre, siccome l’esercito è parte dell’Amministrazione di Israele, tutti i suoi atti, inclusi appunto quelli legislativi, sono soggetti a revisione alla luce del diritto amministrativo israeliano.
Questo atteggiamento e modo di ragionare ebbe ancora seguito nell’operato della Corte Suprema. Con ciò essa aveva deciso di considerare la posizione dell’esercito al pari di quella di un membro della pubblica amministrazione israeliana, cosa questa che diviene il fattore decisivo per assoggettare tutte le azioni dell’esercito al judicial review.
Mentre esercitano il loro potere le autorità militari sono limitate dai principi superiori della legge israeliana8585. La Corte ha addirittura sentenziato che le radici del potere dell’esercito sono da ricercarsi nel diritto pubblico internazionale. Così, nel caso Ja’amait Ascan, la Corte disse: “Questa revisione rivela che dal punto di vista legale le radici dell’autorità ed il potere dell’esercito in una zona soggetta ad occupazione si trovano nelle norme del diritto pubblico internazionale che si occupa di occupatio bellica, e che è parte del diritto di guerra”.
Far derivare il potere dell’esercito da queste fonti significa che ciascuna azione da esso compiuta deve essere esaminata alla luce di queste regole per vedere se le rispetta. Ma la Corte, a dir la verità ha, in molti casi, fatto del suo meglio per evitare di dover ricorrere agli standards del diritto internazionale, cercando così di risolvere le problematiche alla luce delle leggi già esistenti in Israele.
Soffermiamoci un attimo sul caso Rafiah Approach. Questo caso si riferisce al Nord del Sinai, in quel tempo in mano agli israeliani, ma successivamente restituito all’Egitto come previsto dai termini del trattato di pace con Israele. Il caso tratta dello sfratto di Beduini che vivevano nell’area Rafiah Approach, una zona della parte egizia del confine internazionale con la Palestina che separava la Striscia di Gaza dal resto del Sinai. Lo sfratto fu la conseguenza di una crescita di attacchi a civili, sia israeliani che palestinesi, minavano le strade, o sabotavano costruzioni o installazioni. Le autorità militari decisero che era necessario creare una zona cuscinetto tra il Sinai e Gaza così da rendere molto più difficoltosi per i terroristi portare a compimento attentati a Gaza o in Israele, piuttosto che cercare il traffico di armi e di esplosivi. Il comando militare dette l’ordine di chiudere la zona, sebbene i Beduini avessero ancora il permesso di entrare nell’area per occuparsi delle loro coltivazioni durante il giorno. Un indennizzo venne offerto per gli edifici ed i frutteti che dovevano venire evacuati.
L’espulsione dei Beduini dalle loro terre provocò una dura reazione nella sinistra israeliana, specialmente da parte dei membri del partito Mapai presenti nei Kibbutz della zona, che si erano supposti quali immediati beneficiari della zona di sicurezza creata a seguito dell’espulsione. In una domanda rivolta alla Corte Suprema e sottoscritta, nell’interesse di nove sceicchi Beduini, da un avvocato associato con il partito Mapai, il perno attorno a cui ruotava la rimostranza era che l’esercito avrebbe potuto adottare altri sistemi per risolvere il problema e che dunque le vere ragioni, che stavano alla base dell’espulsione, non riguardavano affatto considerazioni di sicurezza, ma piuttosto considerazioni di opportunismo politico, che i convenuti ben si guardavano dal fornire, volte probabilmente alla creazione di nuovi insediamenti. Le autorità militari ammettevano che due avamposti Nachal erano stati stabiliti nella zona dalla quale i Beduini erano stati espulsi, ma insistevano nel sostenere che il solo motivo dell’espulsione erano state considerazioni di sicurezza.
Questo fu anche uno dei primi casi in cui alla Corte venne chiesto di pronunciarsi, tra le altre cose, sulla validità di un ordine militare nei territori occupati (ordine che dichiarava chiusa la zona).
Stabilito che l’autorità militare ha il potere di chiudere delle zone per motivi di sicurezza, il problema che si pone è allora quello di trovare la connessione con il campo d’azione del judicial review in materia di sicurezza.
Uno dei giudici, il giudice Landau, era certo che i militari agissero in buona fede e che pertanto la Corte non avesse spazio per intervenire. Allo stesso modo il giudice Witkon riteneva che la problematica relativa al potere di revisione fosse da limitarsi a due sole questioni. La prima era se fosse formalmente prevista l’autorità che consentisse di invalidare questo genere di atti e, la seconda, era se la sicurezza fosse il vero fattore dietro alla decisione dell’esercito. Nel caso in questione la Corte si rifiutò di compiere un esame volto a considerare sia il problema della sicurezza che le conseguenze derivanti dal suo rispetto. La Corte decise la questione a favore dei convenuti.
Nel caso Rafiah Approach ci sono due aspetti molto importanti da prendere in considerazione. Primo, che la Corte era pronta a separare le intenzioni di insediamento del Governo dalla decisione relativa all’espulsione dei Beduini dalla loro terra. Similmente, se l’esercito poteva convincere la Corte di aver agito per reali ragioni di sicurezza (cosa per altro non difficile), la Corte non si sarebbe spinta a cercare oltre queste giustificazioni: nemmeno per esaminare come una decisione relativa all’esproprio della terra possa adattarsi con le decisioni politiche generali del governo sugli insediamenti. Secondo, la Corte era consapevole di accettare che l’insediamento ebraico fosse meritevole, in certe circostanze, di ricevere particolari misure precauzionali. Quest’ultimo punto fu altrettanto evidente nel caso Beth El8686.
L’atteggiamento della Corte, nonostante fosse composta dagli stessi cinque giudici del caso Beth El, cambiò quando si trovò a dover decidere il già menzionato Elon Moreh8787.
C’è un’evidente differenza fra quelli che sono gli obbiettivi politici degli insediamenti del governo, gli sviluppi politici nei territori occupati ed i ragionamenti giuridici della Corte. Oltre a spiegazioni politiche, per questa differenza, si deve anche considerare la particolare natura delle decisioni giudiziarie. Le corti in generale, non quindi solo la Corte Suprema, sono chiamate a decidere di una lite specifica e non la politica generale del Governo. All’interno di una disputa concreta i giudici devono basare la loro decisione sui fatti e sugli argomenti presentati dalle parti. Perciò, senza doversi interessare delle necessità politiche dei partiti, è molto più facile, almeno in teoria, per la Corte ignorare il contesto. Anche se la realtà mostra che non è sempre così. Una delle ragioni del successo degli attori nel caso Elon Moreh fu che essi si erano mossi per provare la dimensione politica della decisione “specifica” di stabilire un insediamento sulla loro terra, cioè essi contestualizzarono storicamente un evento specifico. In altri casi gli attori avevano invece rivolto le loro motivazioni solo sulla generale politica governativa, senza dimostrare la stretta connessione tra l’azione politica e le esigenze del caso concreto. Perciò era stato più semplice per la Corte ignorare l’ampio contesto politico e basare la sua decisione solo sullo stringente argomento del pubblico beneficio avanzato dalle autorità.
La Corte non ha mai preso posizione sulle motivazioni generali relative alla legalità degli insediamenti civili nei territori occupati. Questo ha lasciato aperta la questione della compatibilità o meno di questi insediamenti sia con l’art. 49 della Convenzione di Ginevra IV8888 sia con i poteri spettanti alla forza occupante previsti dal diritto consuetudinario internazionale.
Con la notevole eccezione del caso Elon Moreh, la Corte si rifiutò di interferire in decisioni connesse con l’uso della terra e con quelle relative agli insediamenti.
La Corte avrebbe certamente potuto fare affidamento sul motivo dominante della non veridicità o unicità della motivazione della sicurezza per bloccare l’uso della terra pubblica per gli insediamenti e per proibire gli espropri di terreni privati per la costruzione di autostrade; perciò avrebbe anche potuto avere un maggiore rilievo l’arguta asserzione fatta nella sentenza del caso Elon Moreh, secondo la quale un occupante in guerra non dovrebbe “creare in queste zone situazioni per cui gli scopi militari che erano presenti all’inizio venissero considerati anche dopo la fine del dominio militare nell’area”.
Elon Moreh rimane l’eccezione che conferma la regola: la Corte, in generale, dà legittimazione ad azioni del governo che sono altamente dubbie, non solamente sul piano politico, ma anche, anzi, soprattutto, per quello che ci interessa, su quello giuridico.
Il discorso sviluppato fino ad ora rischia però di far pensare che gli unici problemi legali nei territori occupati siano quelli relativi all’insediamento dei coloni. Non è affatto così, in realtà le possibili azioni sono molteplici e svariate, ciò che però è vero è che c’è un filo conduttore che lega i vari casi che si sono venuti a produrre nei territori occupati. Questo è costituito dalla problematica della sicurezza, che viene sempre addotta quale motivazione da parte delle autorità militari per giustificare le proprie azioni.
Per mostrare ciò pare opportuno analizzare una vicenda accaduta alla fine degli anni Settanta: il caso Samara8989.
L’attore era nato in un villaggio del West Bank, ma lo aveva lasciato nel 1962 per lavorare in Germania. Egli ritornava periodicamente a visitare i suoi familiari ed in una visita incontrò una residente con cui poi si sposò nel 1968. La moglie continuò però a risiedere nel suo villaggio ed il marito voleva farle visita. Fecero un tentativo di stabilirsi in Germania, ma fallì, e la moglie tornò a casa. Nel tempo la coppia ebbe quattro figli. La prima domanda dell’attore per avere il permesso di risiedere permanentemente nella zona venne accettata, ma l’attore si trovava ancora in Germania in quel momento e non poté perciò sfruttare il permesso concessogli.
Tutte le successive domande vennero rigettate. L’ultima richiesta venne respinta adducendo ragioni di sicurezza, ma quando l’attore decise di agire in giudizio, le autorità ammisero che non c’erano specifiche ragioni di sicurezza per rifiutargli il permesso di residenza permanente. Ciò nonostante la sua domanda era stata rigettata perché egli non soddisfaceva i requisiti richiesti; requisiti che le autorità non erano però tenute, pare, a rendere noti all’attore.
La Corte una volta ancora accettò che i comandi militari avessero la piena autorità di bloccare, e di regolare l’ingresso e l’uscita dai territori occupati. La Corte disse che nell’area non esisteva alcun diritto alla riunificazione familiare. Ed infine essa stabilì che le decisioni dell’esercito erano soggette alla stessa revisione a cui erano soggette le decisioni del Ministero dell’Interno riguardanti l’ingresso stesso in Israele.
La Corte accettava che la determinazione dei criteri per la riunificazione familiare e la loro messa in pratica fosse “una materia sensibile e connessa all’esigenza di sicurezza e delle relazioni estere”; era perciò assolutamente naturale, dal suo punto di vista, che non volesse rimpiazzare la discrezione delle scelte militari con le sue. Tutto ciò benché fosse la Corte stessa a ribadire nella sentenza che “quando il comandante ha agito illegalmente, è nostro compito intervenire”9090.
Aveva agito illegalmente il comando? E’ questo il quesito cui si doveva dare una risposta. Il Consiglio delle autorità stabilì che il caso in questione era una situazione isolata, l’autorità militare vedeva così garantita la applicabilità delle sue decisioni.
In sostanza il comando militare aveva paura che se avesse approvato la richiesta degli attori, essa avrebbe potuto far nascere l’approvazione di molte richieste similari.
La Corte però decise che la paura del comando fosse ingiustificata e che la “sua decisione di rigettare la richiesta fosse censurabile e dovesse essere pertanto revocata”. La motivazione era che c’era sì un numero di fattori che, considerati isolatamente, potevano facilmente esistere anche in altri casi, ma che, se considerati congiuntamente facevano della richiesta dell’attore una situazione unica.
Primo, l’attore era coniuge di un residente; secondo, la coppia non poteva costruire la propria abitazione in Germania, che non era un territorio arabo ed i cui costumi la cui cultura gli erano estranei; terzo, la motivazione originale usata per rigettare la richiesta, cioè che ci fossero alcuni specifici problemi di sicurezza relativi all’attore, non era ben motivata, e non c’erano ragioni di sicurezza per rifiutargli la residenza permanente; infine, la domanda originale dell’attore era stata approvata e fu solo a causa di una situazione contingente che egli non fu capace di utilizzarla. La conclusione della Corte fu che “questa combinazione di circostanze mostra che la decisione del convenuto di rifiutare il permesso richiesto in questo caso, nel quale la motivazione umanitaria è evidentissima, e le cui caratteristiche sono così inusuali, è assolutamente viziata ed è oltretutto inquinata dall’arbitrarietà amministrativa”9191.
Negli anni ’80 la Corte estese, e di molto, la sua opera di revisione. C’erano sicuramente un gran numero di ragioni per questa espansione. Prima fra tutte, il trauma della guerra dello Yom Kippur, nella quale il mito dell’invincibilità dell’IDF venne tragicamente a crollare. Questo mito, fino a quel momento poteva, forse comprensibilmente, aver incoraggiato la Corte a ritenere che la cieca fiducia, quasi sempre riposta nelle decisioni degli addetti alla sicurezza non fosse più acriticamente sostenibile in ogni sfera9292. In secondo luogo, estendere lo scopo della revisione in materia di sicurezza si adattava alla generale tendenza della Corte di estendere l’applicazione del judicial review9393. Infine, i giudici maggiormente responsabili per il cambio erano una nuova generazione di giuristi che vedeva con occhio di particolare riguardo le potenzialità derivanti dall’utilizzazione del judicial review.
La retorica spesso usata dalla Corte negli anni recenti suggerisce che non c’è differenza tra le motivazioni per cui il judicial review viene utilizzato su questioni di sicurezza e quelle per cui viene usato in altri campi. Il giudice Barak presentò il punto di vista della maggioranza quando disse: “In passato la necessità della sicurezza dipendente dalla discrezionalità amministrativa scoraggiò l’utilizzazione del judicial review. I giudici non erano lo staff della sicurezza, ed essi perciò non potevano interferire su considerazioni in merito. Negli anni è invece cominciato a diventare chiaro che quando c’è la possibilità di usare il judicial review non c’è niente di così speciale nelle considerazioni sulla sicurezza da vietarlo … Così come i giudici sono qualificati e preparati ad esaminare la ragionevolezza della discrezionalità adottata in tema di sicurezza. L’approccio è allora tale da far dedurre che non ci sono speciali limitazioni sull’utilizzazione del judicial review sulle decisioni discrezionali dell’amministrazione in materia di sicurezza”9494.
Questa mutazione di atteggiamento presente nelle considerazioni della Corte ebbe importanti implicazioni, in particolare nei casi in cui la Corte aveva seri dubbi relativamente al fatto se le considerazioni di sicurezza fossero o meno la reale motivazione per delle decisioni talvolta piuttosto insolite. Il fatto che le autorità dovessero mostrare alla Corte che ci fosse, non solo una base formalmente giuridica per l’adozione di una misura di sicurezza, ma anche una valida motivazione su cui basare l’utilizzo della misura nel caso concreto, ha avuto effetto sulle decisioni stesse delle autorità. Anche se potrebbe apparire superfluo, è comunque importante sottolineare la potenziale disparità tra la retorica e l’azione, cosa questa che non può, e soprattutto non deve mai, essere ignorata.
Nelle decisioni relative ai territori occupati la Corte ha cercato di dare una risposta razionale a tutte le azioni controverse che sono nate dai comportamenti e dalle decisioni delle autorità di Israele, specialmente quelle causanti problematiche relativamente alla violazione di principi del diritto internazionale umanitario. Il testo dell’art.49 della Convenzione di Ginevra IV è chiaro: proibisce tutte le deportazioni delle persone protette dai territori occupati. Però, contrariamente all’opinione dei commentatori che si rifanno a questo testo, la Corte Suprema ha stabilito che le deportazioni e le espulsioni che vengono compiute dall’autorità militare, e che sono sufficientemente motivate da ragionevoli motivi di sicurezza di Israele e dei suoi abitanti, non sono da considerarsi assolutamente proibite dai limiti imposti dal diritto internazionale.
La demolizione di case a fini punitivi è incompatibile con i principi fondamentali del diritto internazionale umanitario, dei diritti umani generalmente riconosciuti, e del diritto penale. La Corte ha sempre, coerentemente, ignorato questi principi, o comunque si è sempre rifiutata di applicarli adducendo come motivazione l’elevata labilità delle argomentazioni; ed ha stabilito così che gli insediamenti israeliani nei territori occupati non sono solo mossi da una volontà politica. Anche se tutto ciò pare essere ampiamente incompatibile con il diritto internazionale dell’occupazione in guerra.
La Corte fece davvero un serio lavoro contro l’insediamento di coloni su terre private requisite per scopi militari; si rifiutò di stabilire se lo stanziamento di colonie fosse compatibile o meno con l’ultimo paragrafo dell’art.49 della Convenzione di Ginevra IV; ed inoltre legittimò la politica di insediamento accettando che l’insediamento di coloni civili potesse essere frutto di un bisogno militare, rifiutandosi così di interferire con le decisioni delle autorità amministrative relative all’utilizzazione della terra statale per i colonizzatori, e considerando essi come parte della popolazione locale.
La coraggiosa decisione della Corte del 1999 sui metodi usati negli interrogatori da parte del GSS è stata una vittoria per la rule of law e per un cambiamento di prospettiva nel compiere valutazioni legali. Per di più questo giudizio non venne messo in relazione a motivazioni politiche o ad azioni nei territori occupati. E’ però anche da notare che la Corte attese a lungo prima di emettere il suo giudizio, e tale comportamento ha fatto sì che in questo lasso di tempo, le pratiche illegali contro i palestinesi fossero ampiamente e costantemente utilizzate.
L’utilizzazione dello strumento del judicial review da parte della Corte Suprema di Israele relativamente ad azioni militari ed a decisioni amministrative nei territori occupati è il primo, e solo, precedente che la storia conosca9595. La sola esistenza di questa attività di revisione ha avuto una significativa e limitante influenza sugli atti dell’autorità. Infatti, nelle decisioni adottate dalle autorità amministrative, specialmente per quelle decisioni che hanno a che fare con questioni sostanziali di principio o di scelta politica, la necessità di cercare la legittimazione della Corte è divenuta via, via, una esigenza sempre più forte.
La situazione israeliana mostra le difficoltà che nascono dall’utilizzazione del judicial review. I principi presenti nel diritto internazionale sono il perno attorno a cui ruota la possibilità di rivedere le azioni dell’esercito nei territori occupati. Un altro problema deriva dalla considerazione che non c’è solo la Corte Suprema, ma anche corti minori, le quali sono notoriamente riluttanti nel far rispettare il diritto internazionale, specie se esso va contro quanto deciso dal potere esecutivo dello stato. Esse cercano pertanto tutti i possibili espedienti per non dover far ciò9696.
L’attitudine della Corte Suprema di Israele di applicare gli standards del diritto internazionale sembra perpetuarsi attorno ad una sorta di metodo generale che si muove dalla considerazione che l’occupazione militare è una funzione del conflitto. Coinvolgendo una Corte nazionale nel decidere dispute tra le autorità militari e gli abitanti dei territori occupati, le è richiesto di assumere un comportamento di equidistanza tra le parti che non può però esistere in una tale situazione.
Nel West Bank ed a Gaza, le difficoltà relative all’occupazione militare erano state aggravate dall’ambigua abitudine delle autorità di Israele, e di gran parte della società israeliana, di favorire l’occupazione di questi territori. Come abbiamo già accennato all’inizio di questo capitolo c’è una palese differenza tra la posizione politica adottata dai governi che hanno avuto il potere dal 1967 e quella sostenuta dai loro avvocati quando apparivano davanti alla Corte Suprema. Mentre i rappresentanti del governo continuavano a sostenere con vigore, sia nei forum internazionali, sia alla Knesset, che tanto la zona del West Bank quanto Gaza non erano territori occupati, i loro avvocati giustificavano le azioni che si andavano a compiere in questi territori sulla base del diritto internazionale dell’occupazione bellica.
In molte occasioni il Governo provvede a ciò utilizzando un apposito sistema di escamotages. Sul piano politico, il Governo si riferisce ai territori occupati come a colonie, con tutte le conseguenze che ciò comporta: sfruttamento delle risorse e mercato migliorativo della patria e dei suoi cittadini, ed una chiara distinzione tra lo status dei “nativi” e quello dei colonizzatori. Ma quando si deve muovere sul piano giuridico, si rifugia sul diritto di occupazione in guerra, il quale gli permette di adottare un comportamento che può anche essere causa delle limitazione e della violazione dei diritti e delle libertà dei residenti locali palestinesi per motivi di sicurezza e di necessità militari.
In verità, il diritto bellico d’occupazione metterebbe dei seri limiti alla libertà di azione degli occupanti, ma, generalmente, le autorità ricevono il supporto della Corte nell’aggirare questi limiti.
Quando si opera in questo contesto, la revisione da parte della Corte Suprema sulle azioni delle autorità nei territori occupati perde gran parte della sua unicità. Molte istituzioni civili del governo hanno avuto un aiuto per amministrare svariati aspetti della vita nei Territori. Si pensi, per esempio, alla polizia israeliana, la quale ha ricevuto il compito di svolgere le interrogazioni dei sospetti criminali. Allo stesso modo gli ufficiali dell’Israel Lands Authority e del Water Commisioner sono stati incaricati della gestione della terra e delle risorse idriche. Per di più, sebbene la revisione sulle decisioni prese dalle autorità militari nei territori occupati fosse senza precedenti, la revisione da parte delle corti del potere coloniale sulle azioni delle autorità colonizzanti non è senza precedenti.
Già all’inizio erano state poste molte domande relative al fatto se la Corte avesse giurisdizione sulle azioni compiute dall’esercito nei territori occupati. Questo è impossibile da sapere con assoluta certezza, se non per l’espediente di considerare le autorità militari come parte della Pubblica Amministrazione, dato che la Corte si astenne dal dare una risposta certa, argomentata e quindi giustificante la possibilità di esercitare la propria giurisdizione su tali campi. Perciò, se una domanda, critica, può essere mossa verso molte decisioni della Corte, questa è quali sarebbero potute essere le conseguenze qualora essa avesse ritenuto più opportuno rifiutarsi di esercitare la propria giurisdizione quando le si presentavano casi di questa natura. La risposta a questa domanda è tutt’altro che evidente e certa. In poche parole si può dire che la mancanza di limiti formali esterni alla discrezionalità dell’esercito ha certamente portato, in più occasioni, a decisioni assolutamente arbitrarie. In più c’è da fare una considerazione anche di carattere storico, ed è che il processo di decolonizzazione, in altre parti del mondo, era iniziato quando dei gruppi organizzati nella madre patria erano diventati consapevoli della differenza fra i valori democratici dichiarati dalla loro società e le azioni della nazione nelle colonie. E’ possibile che, a medio o a lungo termine, la reale mancanza di quei limiti, che avrebbero potuto causare l’assenza dell’esercizio del judicial review, potrebbe rendere l’occupazione meno accettabile per le èlites israeliane, e che la pressione per porre fine all’occupazione per mezzo di insediamenti politicamente studiati, ricominciata in maniera assai massiccia dopo l’Intifada del 1987, si faccia sentire quanto prima.
36 36 A.Bergman v. Minister of Finance and State Comptroller, H.C. 98/69, 23 (1) PD 693 (1969), in Zamir, Zysblat, Public Law op cit.
37 37 R.Hirschl, Israel’s Constitutional Revolution: The Legal Interpretation of Entrenched Civil Liberties in an Emerging Neo-Liberal Economic Order, in The American journal of comparative law, 46 1998, pag.427.
38 38 Caso che esamineremo tra breve.
39 39 Marbury v. Madison, 5 U.S. 137 (1803). Si vedano, tra gli altri, a commento di tale pronuncia, M.Einaudi, Le origini del controllo di costituzionalità negli Stati Uniti d’America, Torino 1930, Cappelletti, Il controllo di costituzionalità delle leggi, Milano 1964, G.Lombardi, Premesse al corso di diritto pubblico comparato, Milano 1986, U.Mattei, Common Law. Il diritto anglo-americano, in Trattato di diritto comparato diretto da R.Sacco, Torino 1992.
40 40 “La maggioranza richiesta da questa legge per un cambiamento ai paragrafi 4, 44 o 45, è quella della maggioranza assoluta dei membri della Knesset, ad eccezione delle mozioni poste per modificare l’ordine del giorno della Knesset. In questo paragrafo “cambiamento” significa sia un cambiamento esplicito che implicito”. Basic Law: The Knesset paragrafo 46.
41 41 Peter Elman, “Comment”, in Israel Law Review 4 (1969), pag 568. Il giudice Landau evitò la giustificabilità della questione sostenendo che il Procuratore Generale non aveva contestato questa questione ed inoltre che il caso era di estrema urgenza e pertanto non consentiva l’esame accurato che la questione meritava. Ciò nonostante il suo rinvio della questione fece inevitabilmente sorgere un parallelo con il caso Marbury, nel senso che entrambe le sentenze sfidavano una sezione potente del governo senza dare la possibilità a quella sezione di una buona opportunità per rispondere efficacemente.
42 42 Legge Elettorale (Ratifica della Validità delle Leggi), 1969.
43 43 In Martin Edelman, The Changing Role of the Israeli Supreme Court, in Comparative Judicial Systems: Challenging Frontiers in Conceptual and Empirical Analysis (John R. Schimdhauser, ed. 1987) pag.575.
44 44L.Hartz, The Liberal Tradition in America, New York, Harcourt, Brace & World, 1955.
45 45 G.J.Jacobshon, Apple of gold: constitutionalism in Israel and the United States, Princeton University Press, 1994.
46 46 Per un’idea generale del pensiero filosofico di Locke si veda quanto meno, N.Abbagnano, G.Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, Paravia, Torino 1992, pag.293.
47 47 L.Hartz, op.cit.
48 48 R.A.Burt, Inventing Judicial Review: Israel and America, in Cardozo Law Review 10 (1989), pp. 2013-2097.
49 49 “Kol Ha’am” Company Limited v. Minister of the Interior, H.C. 73/53, 87/53, (1953) 7 P.D. 871. In questo caso la Corte Suprema israeliana invalidò la sospensione, decretata dal Ministro dell’Interno, di un giornale che aveva criticato una supposta decisione del governo di inviare delle truppe in Corea. L’affermazione che era stata presa una decisione in tal senso invece si rivelò falsa. In analogia alla tradizione americana la Corte ritenne che una semplice “tendenza” a, o meglio possibilità di, mettere in pericolo la pace pubblica non fosse sufficiente ad autorizzare il Ministro a trovare in ciò un siffatto pericolo per la pace pubblica. A meno che la pubblicazione non presentasse una “quasi certezza” o una “reale probabilità” di pericolo per la pace pubblica, la sospensione era perciò ingiustificata. In Zamir, Zysblat, Public op.cit.
50 50 Izat Muhamed Mustafa Dwaikat and others v. The State of Israel and others (the “Elon Moreh Case”), H.C. 390/79, 34(1) PD 1 (1980), in Zamir, Zysblat, op.cit.
51 51 Per avere un’idea della situazione storica e politica in America in quegli anni I testi consultabili, anche in lingua italiana, sono numerosissimi. Tra di essi si può partire da S.Guarracino, P.Ortoleva, M.Revelli, Storia dell’età moderna, dall’assolutismo alla nascita delle nazioni, Milano, 1996, pag. 439, e poi seguire le indicazioni bibliografiche in esso contenute.
52 52 R.Burt, Inventing op.cit.
53 53 Marbury v. Madison, 5 U.S. 137 (1803), Dred Scott v. Sandford, 60 U.S. 393 (1857).
54 54 R.Hofstadter, The idea of a Party System: The Rise of Legitimate Opposition in the United States, 1780-1840, Berkeley, University of California Press, 1969, p.90.
55 55 Hartz, op. cit., pag.12.
56 56 Allen Shapiro considera il terremoto politico che circonda Marbury decisivo per lo sviluppo del judicial review. Ma in maniera interessante egli vede in modo differente il parallelo con la situazione di Israele: per esso la Corte non aveva assunto un ruolo di distacco olimpico, ma piuttosto era diventata una parte giocante nelle battaglie partigiane. Così essa “divenne un baluardo di potere di forze che aveva perso la presa dei centri politici e divenne così un portavoce di una visione della nuova repubblica che era stata sconfitta ai sondaggi…Questo potrebbe essere il vero parallelo all’attuale stadio di sviluppo costituzionale di Israele”. Jerusalem Post, 2 Dicembre 1988.
57 57 Burt, Inventing op.cit., p.2067.
58 58 Burt, Inventing op.cit., p.2074.
59 59 J.C.Calhoun, A Disquisition on Government, Bobbs-Merril Co., Indianapolis 1953, p.44.
60 60 Riportato in T.C.Grey, Origins of the Unwritten Constitution: Fundamental Law in American Revolutionary Thought, Standford Law Review 30, 1978, p.869.
61 61 Anche oggi, in una realtà diversa come quella europea, permane il problema del trovare una base comune ad una nuova realtà politica. “Quando si scrive una nuova Costituzione (sia pure un trattato costituzionale) si disegnano le regole del gioco, i principi, i diritti, i doveri e gli obiettivi che sono condivisi da un intero gruppo sociale. E’ tutta la Costituzione, allora, che tesse la trama dei valori condivisi e di riconoscimento, sicchè, per sapere quali essi siano, è a tutta la Costituzione che si deve far riferimento”. M.Lucani, da un articolo pubblicato su La Stampa del 21 febbraio 2003.
62 62 La sentenza Shalit, 23 (2) P.D. (1970) at 520, è commentata in Jacobshon, Apple of op.cit., p.121. Shalit è una decisione riguardante lo status di bambini figli di un padre israeliano ed ebreo e di una madre non ebrea, naturalizzata cittadina d’Israele; la controversa decisione portò la Knesset a legiferare nel senso di precludere la registrazione di chiunque come ebreo se, tra le altre cose, questi non fosse nato da madre ebrea o convertita all’ebraismo.
63 63 Burt, Inventing op. cit., p.2095.
64 64 Burt, Inventing op. cit., p.2095.
65 65 Il riferimento è ad un caso del 1955, Comitato per la protezione delle terre espropriate di Nazareth contro il Ministro delle Finanze, 9 P.D. 1261, in Jacobshon, Apple of op. cit.
66 66 Il nome del politico in questione è Meir Kahane.
67 67 Powell v. McCormack, 395 U.S. 486, 549 (1969). Questo fu il primo caso in cui la Corte affermò la supremazia giudiziale in una disputa concernente la sua autorità sul Congresso.
68 68 Soprattutto dopo l’emanazione della Basic Law del 1992.
69 69 Bergman, 23 (1) P.D.
70 70 M.B.Nimmer, The Uses of Judicial Review in Israel’s Quest for a Constitution, in Columbia Law Review 70 (1970), pag.1218. La decisione in Bergman può essere paragonata ad una decisione Americana, Partito americano del Texas contro White, 415 U.S. 767 (1974), nella quale la Corte sosteneva uno statute del Texas che, fra le altre cose, negava il voto ai partiti che non erano riusciti ad assicurarsi almeno il 2% dei voti nelle precedenti elezioni. La decisione può essere vista come mostrante più riguardo alla sezione legislativa rispetto a quello che era accaduto nel caso di Israele, specialmente visto che la legislatura era quella di uno Stato e non del Congresso.
71 71 Alfred H. Kelly, W.A. Harbison, H. Belz, The American Constitution: its Origins and Development, W.W. Norton & Co., New York 1983, p.181.
72 72 G.J. Jacobshon, Apple op. cit., p.131.
73 73 C.Black, The people and the Court: Judicial review in a Democracy, Macmillan, New York 1990, 223.
74 74 In realtà già prima di questo periodo ci furono dei tentativi in tal senso da parte dei palestinesi. Un caso è ad esempio quello del Comitato per la protezione delle terre espropriate di Nazareth contro il Ministro delle Finanze, 9 PD 1261 (1955). Questo caso riguardava l’espropriazione della terra araba da parte dell’Autorità dello Sviluppo allo scopo di stabilire un Kiryah, cioè degli uffici del governo e delle abitazioni per i dipendenti pubblici. Gli attori sostenevano che il trasferimento delle terre dai loro proprietari arabi ai coloni ebrei costituiva una discriminazione nei confronti degli arabi in favore degli ebrei. Tuttavia la Corte appoggiò l’espropriazione dimostrando, fra le altre cose, che non era suo compito quello di indagare se lo scopo per cui la terra venne espropriata era effettivamente uno scopo pubblico come affermato nell’ordinanze che ne disponeva. La Corte si limitò ad esaminare se la scelta delle terre da espropriarsi, in seguito al pagamento di un equo(?) indennizzo, fosse stata arbitraria o meno. La risposta della Corte fu negativa, ma ciò che più colpisce è la motivazione per la quale si considerava che la discriminazione fosse da considerarsi quale parte del contesto delle realtà sociali del paese. La domanda che sorge spontanea è se una tale considerazione sia da considerarsi sufficiente per giustificare atteggiamenti discriminatori e lesivi dei più elementari diritti come quello di proprietà. Questa sentenza è riportata da G.J.Jacobshon, Apple of op.cit., 122.
75 75 Per una descrizione dei cambiamenti che si erano avuti nel sistema legale dei territori occupati dopo il 1967 si veda: R.Shehadeh, Occupier’s Law: Israel and the West Bank, revised ed., Washington: Institute for Palestine Studies, 1988.
76 76 D.Kretzmer, The Occupation of Justice: The Supreme Court of Israel and the Occupied Territories, in State University of New York, 2002, 19.
77 77 M.Shamgar, Legal Concepts and Problems of the Israeli military Government-The Initial Stage, in Military Government in the Territories Administered by Israel 1967-1980, The Legal Aspects, Jerusalem, Harry Sacher Institute for Legislative Research and Comparative Law, 1982, pp.13-43.
78 78 Kach Faction v. Knesset Speaker 39 (3) PD 141, 157 (1985). In Jacobshon, Apple op. cit.
79 79 Christian Society for the Holy Placet v. Minister of Defense (1971) 26 (1) PD 574, in Kretzmer, The occupation of op.cit.
80 80 Electricity Corporation for Jerusalem District v. Minister of Defense (1972) 27 (1) PD 124, 136, in Kretzmer, The occupation of op. cit.
81 81 Khelou v. Government of Israel (1972) 27 (2) PD 169, 176 (Rafiah Approach case), in Kretzmer, The occupation of op. cit.
82 82 Come ad esempio in Ja’amait Ascan Ala’almun Althaunia Alnahduda Almasulia etc. v. IDF Commander in Judea and Samaria Region and another (1982) 37 (4) PD 785, 809. Si trattava di una causa in cui l’attore era una società cooperativa. Il suo intento era quello di costruire un complesso residenziale per insegnanti che siano membri della società e che risiedano in Giudea ed in Samaria. Svolte tutte le pratiche la società acquisto i terreni in Giudea ed in Samaria ed suoi membri fecero perciò richiesta per avere i permessi di costruzione. Le richieste furono rilasciate, ma successivamente cancellate dai convenuti che requisirono la terra per costruire due autostrade che avrebbero dovuto collegare le città in giudea con altre città nella zona, incluso Israele. I giudici decisero che i convenuti avevano agito legalmente e secondo la loro autorità e che pertanto la richiesta degli attori dovesse essere respinta. In Zamir, Zysblat op. cit.
83 83 Il terzo giudice di questo caso era Landau. Egli sostenne l’opinione del giudice Kister.
84 84 Abu Itta v. IDF Commander in Judea and Samaria (1981) 37 (2) PD 197, in Kretzmer, The occupation of op. cit.
85 85 Ma quali essi siano però non ci è dato di saperlo; almeno non fino alle basic laws degli anni Novanta.
86 86 Nel caso Beth El, Ayubb v. Minister of Defense 33 (2) P.D. 113 (1978), una terra requisita per motivi militari divenne poi luogo di due insediamenti di coloni. Nonostante la forte opposizione degli attori, la Corte non si discostò da quanto già deciso nel caso Rafiah Approach. Entrambi in Kretzmer, The occupation of op. cit.
87 87 Sul caso Elon Moreh ci si è già soffermati a lungo avendolo considerato, insieme al caso Bergman, il vero punto di partenza del judicial review in Israele. Pertanto qui ci si limita, soltanto, a riportarne brevemente i fatti. La vicenda si svolge poco tempo dopo il trattato di pace stipulato tra Israele e l’Egitto. A dispetto del fatto che i giudici fossero gli stessi del caso Beth El, la decisione fu diversa. Nel gennaio del 1979, durante la discussione sugli accordi di Camp David, membri attivi del movimento dei colonizzatori, Gush Emunim, stabilirono un insediamento nell’area di Nablus, domandando che gli fosse concesso il permesso di insediarsi nella zona. Il governo, visto il periodo, era ovviamente molto sensibile ai mutamenti che stavano avvenendo nell’ottica degli insediamenti ebraici in qualsiasi luogo di Israele. Ma allo stesso tempo era desideroso di mostrare che era egli, e non il movimento dei colonizzatori, a dettare le scelte politiche. I rappresentanti del Governo cercarono di persuadere i coloni ad andarsene dal luogo, promettendogli che un insediamento nella zona sarebbe comunque stato creato. L’apposito comitato successivamente esaminò potenziali siti per un insediamento nella zona di Nablus ed optò per un sito su di una terra privata. Il Capo del comitato diede l’approvazione per procedere alla requisizione della terra per scopi militari, ed il Comitato per la Sicurezza fu d’accordo con questa decisione.Immediatamente dopo che la decisione venne approvata, fu dato ordine al comando dell’IDF nel West Bank di requisire una considerevole estensione di terra per “necessità militari”. Appena due giorni dopo, civili israeliani con l’appoggio dell’IDF, cominciarono a procedere nella requisizione della terra per il nuovo insediamento di Elon Moreh.
La decisione del governo incontro una seria opposizione pubblica. I lavori nella zona furono interrotti dall’ingresso di dimostranti del movimento Peace Now. Dopo un gran numero di palestinesi entrarono nella zona per una manifestazione, guidati dal sindaco di Nablus, ma furono prontamente fatti allontanare dall’IDF.
I proprietari di parte della terra requisita decisero allora di adire la Corte Suprema, la quale dette subito l’ordine di non procedere con i lavori. Siccome la domanda era rivolta contro il Governo di Israele ed il Ministro della Difesa, il naturale candidato a presenziare in nome del governo, ed a prestare giuramento, era il Ministro della difesa. Così uno dei due Ministri, insieme a quello degli esteri, che si erano opposti all’insediamento, il Generale Ezer Weizman, si trovò nella curiosa condizione di dire al Primo Ministro che egli avrebbe potuto dichiarare che una base dell’esercito era necessaria per scopi militari, ma non avrebbe mai potuto giurare che c’erano alla base di questa scelta valide motivazioni di sicurezza.
Perciò al suo posto fu mandato un membro del governo, il chief-of.staff, che invece sostenne entrambe le motivazioni. La Corte, pur non dubitando dell’onestà del giuramento del rappresentante del governo, decise però, come già sappiamo, di accogliere la richiesta degli attori, ribaltando così quanto fatto nel caso Beth El.
88 88Testo dell’art. 49. Individual or mass forcible transfers, as well as deportations of protected persons from occupied territory to the territory of the Occupying Power or to that of any other country, occupied or not, are prohibited, regardless of their motive. Nevertheless, the Occupying Power may undertake total or partial evacuation of a given area if the security of the population or imperative military reasons so demand. Such evacuations may not involve the displacement of protected persons outside the bounds of the occupied territory except then for material reasons it is impossible to avoid such displacement. Persons thus evacuated shall be transferred back to their homes as soon as hostilities in the area in question have ceased. The Occupying Power undertaking such transfers or evacuations shall ensure, to the greatest practicable extent, that proper accommodation is provided to receive the protected persons, that the removals are effected in satisfactory conditions of hygiene, health, safety and nutrition, and that members of the same family are not separated. The Protecting Power shall be informed of any transfers and evacuations as soon as they have taken place. The Occupying Power shall not detain protected persons in an area particularly exposed to the dangers of war unless the security of the population or imperative military reasons so demand. The Occupying Power shall not deport or transfer parts of its own civilian population into the territory it occupies. Il testo integrale può essere reperito sul sito http:// wwics.si.edu/subsites/ccpdc/frps.htm.
89 89 Samara v. IDF Commander in Judea and Samaria (1979) 34 (4) PD 1, in Zamir, Zysblat, op. cit.
90 90 In Samara, p.4
91 91 In Samara p.5
92 92 S.Shetreet, The Scope of Judicial Review of National Security Considerations in Free Speech and other Areas: The Israeli Perspective, 18 Isr YHR (1988) 35.
93 93 D.Kretzmer, Judicial Review of Knesset Decisions, 8 Tel Aviv Studies in Law, 1988, 95.
94 94 Schnitzer v. Chief Military Censor (1988) 42 (4) PD 617. In D. Kretzmer, The Occupation op. cit., 120.
95 95 O almeno così lo ritiene D.Kretzmer in The Occupation of op.cit., 196.
96 96 E.Benvenisti, Judicial Misgivings Regarding the Application of International Law: An Analysis of Attitudes of National Courts, 4 European Journal of International Law, 1993, 159.