Capitolo 2: La Corte Suprema
2.1 Le origini della Corte Suprema
2.2 La prima giurisprudenza della Corte Suprema
2.3 La “rivoluzione costituzionale” del 1992-1994
2.1 Le origini della Corte Suprema
La Corte Suprema israeliana ha come suo antecedente l’High Court britannica presente in Palestina dal 1917 al 1948, anno di proclamazione dello Stato di Israele. Nel 1948 la Corte Suprema funzionava in modo molto simile a quello della House of Lords del sistema britannico; il suo impatto sul processo politico era marginale invece che centrale. Dagli anni ottanta del secolo scorso, ha invece iniziato ad esercitare, con una certa continuità, un potere simile a quello del suo alter ego americano.
Nel lasso di tempo che va dal 1982 al 1991 la Corte trattò questioni come quella riguardante la disputa religiosa concernente lo scavo archeologico nella città di David, la sospensione da parte del Governo della pubblicazione di un giornale di Gerusalemme Est (arabo), l’ininterrotta validità dello sfratto del 1948 degli arabi residenti a Ikrit, il diritto dei Rabbini della Riforma di celebrare matrimoni in Israele e la distribuzione da parte dell’esercito delle maschere antigas anche alla popolazione araba durante la Guerra del Golfo. E’ chiaro che la Corte, decidendo su questioni di questo tipo, ha influenzato direttamente la vita pubblica e le dispute politiche. Tuttavia, a differenza della Corte Suprema americana, quella israeliana funziona come un’importante agenzia politica in assenza di una costituzione scritta.
Gli israeliani, perciò, con piena consapevolezza della loro società estremamente politicizzata, si sono dati da fare per far sì che siano minime le influenze sul potere giudiziario da parte di quello politico. La Legge sui Giudici del 1953 afferma che : “un giudice in questioni giudiziarie non è soggetto ad alcuna autorità se non a quella della legge”. Le corti civili sono la Corte dei Magistrati, la Corte Distrettuale e la Corte Suprema9. In aggiunta alla diffusa preoccupazione per la qualità dei giudici, che però venne sanata già dagli inizi dal fatto che i giuristi fossero tutti di scuola anglo-americana avendo, come è prassi ancora oggi diffusa, studiato o comunque perfezionato gli studi in università della Gran Bretagna o degli Stati Uniti, ed ugualmente la composizione del Nomination Committee10, che i requisiti formali richiesti per gli incarichi giudiziari rivelano un desiderio primario di evitare qualsiasi presunta faziosità. Dopo essere stati nominati, i giudici della Corte Suprema, così come quelli delle corti inferiori, mantengono la loro carica fino al raggiungimento della pensione all’età di settant’anni11. In questo modo, già nei primi anni di vita di Israele, quando ancora si cercava di delineare il nuovo Stato, si operò una scelta assolutamente consapevole in una realtà, politica e sociale, dove qualsiasi altra attività era invece gestita da persone scelte in base all’affiliazione politica.
Questa preoccupazione ha fatto sì che il comportamento giudiziario sia imbrigliato da una serie di norme consuetudinarie formatesi per assicurare la neutralità politica e per far sì che sia questa l’immagine manifestata alla società. La più ovvia, ma anche la più rigidamente osservata di queste consuetudini è quella secondo la quale i giudici non si devono occupare di politica. Coloro che trovano questa proibizione troppo restrittiva immancabilmente rinunciano alle loro nomine giudiziarie. Emblematico, in tal senso, è un caso accaduto nel 1983 quando il Primo Ministro Begin convinse il giudice Menachem Elon della Corte Suprema a candidarsi, appoggiato dal Likud, alla carica di Presidente di Israele, il giudice pubblicamente annunciò la sua decisione di non partecipare ai lavori della Corte durante il periodo antecedente le elezioni presidenziali. Il giudice Elon perse le elezioni e solo allora riprese i suoi normali compiti giudiziari, ma neanche questo comportamento, apparentemente così corretto e consapevole, fu sufficiente a soddisfare appieno la popolazione israeliana: “In base ad ogni test pubblico accettato e in base alla restrizione che il giudice Elon aveva imposto a se stesso durante il periodo della campagna, chi è stato proposto per una carica così prestigiosa da corpi apertamente politici non dovrebbe servire la Corte Suprema”12. Come risultato di deliberate decisioni politiche e di continui atteggiamenti di comportamento giudiziario gli israeliani sono riusciti a mantenere completamente indipendente la loro magistratura.
In Israele il prestigio delle corti, e quindi il loro potere e la loro autorità, trova le sue radici nel rispetto per la rule of law. Da questa prospettiva la legge è vista come qualcosa di assolutamente distinto dalla politica. Infatti, mentre in politica i valori ed i principi sono percepiti come strumenti per raggiungere certi risultati; in ambito giudiziario la legge è invece percepita come derivante da un’analisi imparziale dei principi. Legge e politica sono viste come metodi distinti per la risoluzione di conflitti. L’indipendenza del potere giudiziario, cosa funzionante ed osservabile, dimostra che il rispetto per le corti si è profondamente radicato nella cultura politica di Israele e, si noti bene, di tutti i cittadini israeliani.
Per tutta questa serie di motivi i giudici vengono frequentemente scelti per svolgere compiti che non devono essere influenzati da alcuna ideologia, né in apparenza né, tanto meno, in sostanza. Essi ricoprono così il ruolo di ufficiali di controllo in un certo numero di comitati e tribunali speciali come il Tribunale di Assicurazione Nazionale e il Tribunale di Affitto. Per legge inoltre un giudice della Corte Suprema, scelto dai membri di questa istituzione, presiede il Comitato delle Elezioni che vigila sulla regolarità delle elezioni in Israele.
Senz’altro uno dei migliori, se non il migliore, indicatori della percezione pubblica della Corte Suprema è la struttura della Commissione d’Inchiesta di Israele. Essa è stata creata per investigare su questioni di importanza pubblica attuale e vitale che richiedano dei chiarimenti. Le più famose inchieste sono state quelle condotte dalle Commissioni: Agranat (1974) e Kahan (1983)13. La Commissione Agranat investigò sulle azioni del Governo prima e durante la Guerra dello Yom Kippur del 1973. A causa delle scoperte della Commissione il Primo Ministro Golda Meir e l’allora Ministro della Difesa Moshe Dayan si sentirono costretti a rassegnare le dimissioni dai rispettivi incarichi istituzionali. La Commissione Kahan investigò invece sul massacro, da parte dei Falangisti libanesi, di civili palestinesi nei campi profughi di Chatila e di Sabra a Beirut. Il risultato delle indagini di questa commissione portò alle dimissioni dell’allora Ministro della Difesa Ariel Sharon14, che fu considerato dalla Commissione indirettamente responsabile del massacro per non averlo saputo prevenire né troncare mentre era ancora in corso. Tutti i membri delle Commissioni d’Inchiesta sono nominati dal Presidente della Corte Suprema, ed è un giudice della Corte Suprema in carica che deve presiedere le Commissioni stesse.
Si può così pensare che gli israeliani, proprio a causa delle forti divisioni politiche presenti all’interno della loro società, vedano l’utilità di un organo decisionale indipendente, obiettivo ed imparziale. E poiché l’ordinamento giudiziario è percepito come luogo di giudizi imparziali, ecco che le corti, ed in particolare quella Suprema, hanno visto accrescere la loro autorità. Autorità che dà all’ordinamento giudiziario di Israele un considerevole potere di indirizzo politico.
Per ciò che riguarda poi nello specifico i compiti della Corte Suprema, oggi questi sono elencati dalla legge che disciplina il potere giudiziario, la Basic Law: The Judiciary, il cui terzo capitolo si occupa, all’art.15, esclusivamente della Corte Suprema. Essa ha una duplice giurisdizione, da un lato siede come Corte d’Appello, sia civile sia penale, dall’altro come Alta Corte di Giustizia e, come tale, decide in prima ed unica istanza ed esercita il judicial review sugli atti degli altri poteri dello stato.
Le competenze che le spettano quando è Alta Corte di Giustizia sono:
- Il dare ordine di rilasciare le persone ingiustamente detenute o imprigionate;
- L’ordinare alle autorità statali, a quelle locali, a quelle militari e ai loro organi e ad altre persone ancora che ricoprano funzioni pubbliche, di compiere, oppure di astenersi dal compiere, atti legittimi per l’esercizio delle loro funzioni o, se questi erano stati impropriamente eletti o designati, di astenersi dall’agire;
- L’ordinare alle corti, agli enti ed agli organi che per legge hanno potere giuridico, o quasi giuridico, di essere rispettosi dei principi contenuti in questa legge; e alle corti religiose di occuparsi, o di astenersi dall’occuparsi, o di continuare ad occuparsi di una particolare questione, o di annullare un procedimento impropriamente iniziato o una decisione erroneamente presa;
- L’ordinare alle corti religiose di trattare una particolare questione limitatamente alla loro giurisdizione, o di astenersi dal trattare, o di continuare a trattarne una anche oltre la loro giurisdizione, ciò affinché l’attore non possa, senza una ragionevole motivazione, sollevare una questione di giurisdizionalità fino a quando la corte religiosa non abbia emesso la sentenza, la Corte può annullare un procedimento intrapreso o una sentenza emessa da una corte religiosa se ciò è stato fatto senza autorità.
Fin qui si sono visti i compiti che la legge ha assegnato alla Corte Suprema. Di qui in avanti vedremo come la Corte sia riuscita, grazie al prestigio di alcuni dei suoi membri, all’uso dell’attività interpretativa, e talvolta anche con l’enfatizzazione della necessità di tutelare i diritti dei cittadini e degli altri residenti che sono entrati in conflitto con le agenzie governative, ad accrescere la reputazione di imparzialità e di obbiettività dell’ordinamento giudiziario, riuscendo in questo modo anche ad ampliare i suoi poteri ed il campo del suo intervento.
2.2 La prima giurisprudenza della Corte Suprema
Per uno studente di giurisprudenza italiano è spontaneo, nell’avvicinarsi allo studio dell’ordinamento di un altro stato, andare per prima cosa alla ricerca della Costituzione e del suo “guardiano”.
Questo tipo di approccio è però infruttuoso per quanto riguarda Israele: infatti, come abbiamo già visto, una Costituzione non c’è, anche se la maggior parte degli studiosi è concorde nell’affermare il contrario ed a trovarne giustificazione a partire dall’emanazione delle Basic Laws del 1992 e del 199415. Manca, come necessaria conseguenza, anche l’organo preposto alla tutela dei principi in essa contenuti, ma la cosa non stupisce, anzi stupirebbe il contrario, in quanto sarebbe una ammissione, nemmeno tanto implicita, del valore superiore di certe leggi rispetto ad altre.
Riguardo a questo aspetto, cioè la mancanza di una Corte costituzionale, l’esame dei fatti presenta una realtà diversa da quella enunciata dalle leggi, realtà che si è venuta a creare in seguito al ruolo che il potere giudiziario, e la Corte Suprema in particolare, sono riusciti a ritagliarsi nell’ordinamento dello Stato israeliano.
Una domanda che sembra opportuno porsi prima di affrontare questo argomento è quale sia il ruolo della Costituzione in un ordinamento democratico. La risposta a tale domanda è stata data da diversi studiosi i quali, pur seguendo percorsi diversi, giungono a conclusioni simili.
Si vede nella Costituzione una forma di auto-limitazione del potere della maggioranza che si esercita attraverso il riconoscimento di diritti, frutto del comune sentire morale di un popolo, a tutti gli individui, quindi anche a quelli che usano questi diritti di libertà (di parola, di associazione ecc.) al fine di manifestare il proprio pensiero, per quanto esso possa essere contrario a quello della maggioranza16. Anche perché un ordinamento di solo potere della maggioranza finirebbe per trasformarsi da democrazia in dittatura. Quindi, negli ordinamenti dove esiste una Costituzione scritta, è essa a dover contenere questi diritti riconosciuti a tutti; altrimenti, dove una Costituzione scritta non ci sia, tocca alla maggioranza, che di volta in volta si trovi a governare, a dover limitare la propria forza.
E’ ovvio come, in un ordinamento privo di situazioni costituzionalmente garantite, diventi ancor più importante il ruolo del potere giudiziario il quale, con la propria capacità di interpretazione degli atti legislativi, può perseguire uno scopo almeno di rispetto, se non di vero e proprio equilibrio, fra il governo della maggioranza ed i valori fondamentali del popolo.
Si capisce come questo tipo di discorso ponga ulteriori problemi perché, se è evidente che una Costituzione, comunque essa sia, serve a cristallizzare i valori fondamentali di una società, è altrettanto evidente che l’assenza di questo testo rimetta all’apprezzamento dei giudici, e quindi ad un’operazione discrezionale, l’individuazione di questi valori. Perciò il giudice in un contesto come quello israeliano deve essere ben consapevole che le sue scelte hanno una valenza politica e che come tali siano preferibili scelte che incontrino il consenso della nazione a quelle che non lo incontrino. In realtà tutto ciò in Israele funziona fino ad un certo punto, in quanto la Knesset ha l’autorità per esprimere essa stessa la linea interpretativa dei suoi atti. Questo comportamento è una palese violazione del principio di separazione dei poteri, che come tale, puro, non esiste in nessun sistema moderno, ma che è particolarmente debole in Israele dove, almeno fino agli anni ottanta del secolo scorso, la supremazia del legislativo sul giudiziario era enorme, anche a livello di subconscio, e lo vedremo fra poco.
In ogni caso resta ancora da stabilire come, un giudice non eletto, e che perciò non è espressione della scelta del popolo, possa individuare i valori fondamentali della società nella quale opera. Una soluzione a tale problema viene proposta da uno studioso, anche Presidente della Corte Suprema17. Questi ritiene che il giudice debba tener conto del grado di approvazione o di disapprovazione manifestato dalla società nei confronti dei valori esistenti e delle norme giuridiche da essi derivate. Il giudice “non dovrebbe considerarsi paladino di un nuovo consenso sociale”, dovrebbe essere il Parlamento, in quanto rappresentante della società, a cogliere la necessità di cambiamento che essa, la società, richieda. Questo non vuol dire che il giudice non debba mai porsi contro il contesto sociale, anzi quando questo è frutto di una situazione estemporanea è opportuno che il giudice gli si opponga, però questa non deve essere una presa di posizione irremovibile perché il suo compito è anche quello di seguire i reali mutamenti sociali.
A questo punto, per vedere più chiaramente le cose appena affermate, entriamo nello specifico del ruolo della Corte Suprema e della revisione costituzionale. Generalmente questo potere è, o esplicitamente previsto da una costituzione scritta, o lo si fa comunque derivare dalla necessità di tutelare i principi basilari in essa contenuti, si pensi al caso statunitense, ed è usato in particolare per controllare gli atti del potere legislativo.
Per Israele il discorso è però completamente diverso e la storia del judicial review in questo ordinamento è il frutto dell’ attività della Corte Suprema come Alta Corte di Giustizia la quale, anche in assenza di una Costituzione scritta, è stata capace di elevarsi a guardiano di quei valori basilari dell’identità politica della nazione in cui opera.
La Knesset ha il potere, o almeno lo ha avuto fino al 1992, di cambiare qualsiasi principio costituzionale, intendendo come tali quelli espressi nelle basic laws, con una maggioranza semplice senza che questi atti possano subire un vaglio di costituzionalità. Questo comportamento di “supremazia parlamentare” (sul quale torneremo in seguito), che a noi sembra difficile da comprendere, pare trovare giustificazione nella particolare situazione di Israele, una situazione che può portare ad avere bisogno di cambiare certe leggi o di contravvenire ai principi in esse contenute per superare situazioni di crisi18.
Nei suoi primi anni di vita la Corte evitò di contrapporsi direttamente agli altri due poteri dello Stato. Ciò non vuol dire che non fece nulla, bensì che fu assai abile ad usare i poteri che le erano stati assegnati, in particolare quello di interpretazione delle leggi e degli atti amministrativi. Così poté gradualmente stabilire, attraverso l’interpretazione delle leggi, dei diritti violabili solo in situazioni di estrema necessità tra le quali, specialmente, questioni di sicurezza interna, un tema quanto mai attuale in Israele.
In particolare è interessante, per avere un’idea dell’evoluzione del ruolo della Corte, esaminare brevemente alcuni casi, seguendo l’ordine cronologico e lasciando i casi più significativi ad un’analisi più accurata che si farà in seguito.
La prima sentenza è quella del caso Leon v. Gubernik19 che venne emessa pochi giorni dopo l’insediamento della Corte. Nel 1939 l’Alto Commissariato presente in Palestina emise un’ordinanza che dava il potere all’autorità amministrativa di requisire proprietà private. Con la nascita del nuovo Stato questo potere venne esercitato per requisire abitazioni, abbandonate dai loro proprietari, per i nuovi immigrati che in quegli anni stavano arrivando in Israele. Nel caso in questione si tentò di attaccare questo potere adducendo in particolare due motivazioni: la prima, strettamente formale, era che l’ordinanza in questione non fosse stata assorbita nella legge israeliana alla luce della sezione 11 della Law and Administration Ordinance che prevedeva che l’assorbimento della legge Mandataria fosse soggetto alle modificazioni risultanti dallo stabilirsi del nuovo Stato e dei suoi poteri; la seconda, che viste le circostanze, l’esercizio di questo potere fosse irragionevole.
La prima motivazione si può analizzare da due punti di vista. Da un lato la si può vedere come un modo per dare forza al primo atto legislativo del Consiglio Provvisorio dello Stato. Perciò seguendo questa visione una decisione che ritenga invalida una legge mandataria alla luce della sezione 11 non indebolisce la posizione dell’autorità legislativa, ma piuttosto rispetta le sue esplicite decisioni e direttive. Dall’altro lato viene vista come un espediente per dare alla Corte il potere di potersi esprimere su di una questione che invece avrebbe avuto l’intenzione di risolvere il potere legislativo stesso decidendo sulla validità o invalidità della legislazione.
La Corte scelse questo secondo modo di intendere la questione giustificando il fatto che suo dovere fosse decidere sulla validità di certe leggi ben conosciute e di ritenerle invalide quando si fossero dimostrate in disaccordo con lo “spirito dei tempi”20.
Riguardo all’accusa di irragionevolezza la Corte affermò come fosse dovere del legislatore decidere sull’esistenza o meno di una legge, e come nessuno potesse arrogarsi il diritto di credere che il legislatore avrebbe voluto trasferire questo dovere alla Corte stessa. Perché ciò potrebbe violare il principio di separazione dei poteri, ed anche perché, sebbene sia la Corte stessa a notare come questo principio non venga più inteso così rigidamente come ai tempi in cui venne formulato da Montesquieu, ciò non toglie che occorra comunque che sia una legge ad attribuire al potere giudiziario la facoltà di intervenire sul sistema legale.
Più delle spiegazioni addotte dalla Corte è interessante notare la percezione che essa aveva di se stessa, ovvero che il suo ruolo fosse quello di interpretare ed applicare la legge esistente nelle dispute tra cittadini e tra i cittadini e i poteri dello stato e non di formulare opinioni su come dovrebbe essere una legge, perché così facendo avrebbe rischiato di sconfinare nel campo di uno degli altri poteri, in questo caso quello legislativo.
Questo modo di vedere la Corte lo riaffermò pochi anni dopo nel caso Jabotinsky v. Weizmann21. La sezione 9 della Transition Law, 1949, stabiliva che, quando fosse stato necessario formare un nuovo governo, il Presidente dello Stato, dopo essersi consultato con i rappresentanti dei gruppi parlamentari della Knesset, potesse affidare l’incarico di formare il governo ad un membro della Knesset stessa. La domanda che venne posta alla Corte era se il Presidente fosse obbligato a rispettare questa regola qualora ritenesse che nessun membro della Knesset, il quale si fosse dimostrato disponibile ad accettare questo incarico, fosse in grado di formare un governo. La Corte si dichiarò incompetente e lo fece, come nel caso precedente, dicendo che si trattava di un problema tra il Presidente dello Stato, il Governo e la Knesset, in pratica cioè tra il potere esecutivo e quello legislativo: i rimedi andavano quindi cercati nelle procedure parlamentari.
E’ evidentissimo come la Corte cerchi il più possibile di non intromettersi negli affari degli altri poteri. Al punto che un autore22, esaminando questo atteggiamento della Corte, giunge a considerare che probabilmente la Corte confidi molto nell’abilità degli altri poteri di decidere certe questioni anche quando queste siano prettamente legali e perciò di sua competenza.
La Corte affermò in pratica di non avere giurisdizione su questa questione, perché esulava dal suo compito di amministrazione della giustizia: di nuovo quindi non è un problema tecnico, ma è il problema di come la Corte percepisce il suo ruolo. Vedremo come, in sentenze successive, questo modo di vedere della Corte verrà considerato un errore23.
Anche in Baron v. Prime Minister and Minister of Defence24, un caso nel quale l’ attore domandò alla Corte di proclamare organizzazione terroristica, alla luce dell’ Ordinanza di Prevenzione del Terrorismo del 1948, il gruppo LEHI25, la Corte seguì la linea già tracciata nei casi precedenti. Nel rifiutarsi di pronunciarsi in merito il Presidente della Corte Suprema, Smoira, infatti diede come spiegazione il fatto che non fosse suo compito esaminare il modo in cui le altre istituzioni adempiessero ai loro compiti.
Di nuovo si vede che, nei suoi primi anni di vita, la Corte si è rifiutata di pronunciarsi su qualsiasi questione che potesse riguardare atti o fatti degli altri poteri dello Stato.
Un primo segnale del mutato atteggiamento della Corte si vede nella motivazione di una sentenza vergata solo cinque anni più tardi dal giudice Agranat nel caso Kol Ha’Am v. Minister of Interior26. Il giudice Agranat creò, dal nulla, una tutela costituzionale per i diritti civili in un sistema legale che, fino ai primi anni novanta, rimarrà privo di un bill of rights scritto.
Con questa sentenza la Corte Suprema supera finalmente quella iniziale volontà di non ingerenza nei confronti degli altri poteri, almeno per quanto riguarda la protezione dei diritti individuali e civili, considerando ciò un suo dovere primario. Non bisogna però pensare che dal 1953 in avanti la Corte non si sia più piegata alla volontà degli altri poteri, perché, se da una parte è stata molto tutelata, ad esempio, la libertà di parola, non lo sono stati altrettanto i diritti umani nei territori occupati. Ma su questo torneremo in seguito con la dovuta attenzione.
A questo punto la posizione della Corte è abbastanza ben delineata e non si modificherà, salvo alcune eccezioni come il caso Bergman, fino agli anni ottanta quando, ad incominciare dal caso Elon Moreh27, la Corte Suprema, dichiarando una decisione del Governo, riguardante la confisca di terra nel West Bank per costruire un insediamento, nulla ed illegale, rivide nel merito, ed è questa la grande novità, una decisione del Governo. In pratica la Corte notò come il Governo avesse preso quella decisione sulla base di considerazioni di natura politica e non per motivi di sicurezza nazionale che sarebbero stati gli unici a consentirgli la violazione di diritti civili, individuali, ed entro limiti ancor più ristretti, di quelli umani.
Gradualmente, da qui in avanti, la Corte Suprema aumenterà la sua capacità di intervento attraverso l’ attività interpretativa ed in particolare attraverso l’ utilizzazione del principio della ragionevolezza che, secondo molti autori, è elemento caratterizzante il lavoro della Corte. La ragionevolezza consiste nel criterio base per giudicare la costituzionalità degli atti del governo. L’ importanza di questa regola è espressa nell’ opinione del giudice Barak nel caso Ressler v. Minister of Defence, nella quale egli sostiene che nessun atto del Governo vada considerato esente da un controllo di judicial review alla luce del criterio della ragionevolezza. Dagli anni ottanta dunque la Corte ha capito come ogni decisione di natura amministrativa si possa esaminare nel merito; quindi, anche senza una Costituzione scritta, sono poche le aree della vita pubblica che non siano soggette ad un potere di revisione da parte della Corte. In assenza di un potere di judicial review formale la Corte è stata abile nel creare una tradizione di interpretazione della legge che funziona come elemento costitutivo di un potere di judicial review in qualche modo assimilabile ad un judicial review formale.
Per tirare le fila del discorso può essere molto significativo prestare attenzione a ciò che sostiene un autore28, ovvero che un giudice sia giustificato dal rifiutarsi, moralmente, di seguire i principi contenuti in una legge qualora la reputi contraria ai valori fondamentali dell’ ordinamento. Una legge d’altronde è necessariamente generale e come tale concede, come si è già detto, ai giudici la possibilità di interpretarla permettendo così, come si vedrà trattando dei casi Bergman ed Elon Moreh, un potere di judicial review nei confronti di diritti che vengono sentiti come superiori.
In conclusione quindi, nonostante la inesistenza di una costituzione scritta, o almeno di un Bill of Rights, quest’ultimo in realtà assente solo fino al 1992, la Corte Suprema ha saputo rivendicarsi una significativa funzione costituzionale. In diversi casi ha affermato il diritto di poter interpretare la legislazione alla luce di alcuni principi sopra statutari, ad esempio quello di uguaglianza, che essa ha considerato esistenti indipendentemente dall’attività dell’autorità legislativa. Tra di essi si possono ricordare i diritti di interrogare e di controinterrogare che sono stati affermati nonostante la loro assenza dai procedimentary statutes, così come la assoluta discrezionalità delle autorità amministrative nel rifiutare le licenze, o nel procedere alla registrazione delle società, piuttosto che nel determinare le liste elettorali e nel censurare i giornali è stata diminuita. Così quando il linguaggio utilizzato nel testo di uno statute si presta ad essere ugualmente interpretato in due o più modi differenti, senza nel fare ciò forzarne eccessivamente il significato, il ricorso ad un senso piuttosto che ad un altro è semplicemente una tecnica che coinvolge l’ampio uso del potere creativo della Corte. Ma quando una Corte aggiunge dei requisiti ad uno statute, come ha fatto la Corte di Israele nei casi prima citati, o quando gioca sul linguaggio al fine di conformarlo a qualche norma al di sopra della legge statutaria, essa ha assunto su di sé un compito molto più gravoso e significativo.
Mentre la Corte può servirsi di questi espedienti e mezzi per estendere la sua autorità, ci sono però dei limiti che non può valicare; così non può invalidare atti governativi perché incostituzionali. Nella sua veste di “interprete dell’intenzione legislativa”, la Corte è legata ai successivi chiarimenti della Knesset.
In Israele dunque l’autorità della Corte, il prestigio di alcuni dei suoi membri, e la cura usata nell’imporre come primari, e perciò invalicabili, specialmente i valori della giustizia naturale maggiormente accettati ha reso difficile l’annullamento di tali interpretazioni da parte della Knesset, la quale, facendo ciò, avrebbe rischiato di prendere delle decisioni assolutamente impopolari. La non interferenza, o meglio forse la poca interferenza, della Knesset sui giudizi della Corte si è basata sulla percezione dei Giudici come imparziali e neutrali “guardiani della legge”. E questa tradizione di rispetto legislativo per la divisione dei poteri ha avuto l’effetto politico e pratico di aggiungere ulteriore prestigio ed autorità alle decisioni della Corte.
2.3 La “rivoluzione costituzionale” del 1992-1994
Un momento cardine per la tutela delle libertà fondamentali in Israele si è vissuto negli anni 1992-1994 quando vennero promulgate due importanti Basic Laws. La prima intitolata Basic Law: Human Dignity and Liberty, la seconda Basic Law: Freedom of Occupation.
Queste due leggi, di indubbia importanza per quanto riguarda il contenuto, cioè la tutela di quelle libertà e di quei diritti che abbiamo visto essere gli elementi fondamentali di una costituzione, sono causa scatenante di un dibattito in dottrina. Infatti queste leggi se, da un lato danno vita ad un vero e proprio Bill of Rights, dall’altro ripropongono un problema che abbiamo, almeno in parte, già affrontato29 cioè quello del valore delle Basic Laws. A ben guardare non si tratta solo di un problema di schieramenti dottrinali che si fronteggiano in modo più o meno disponibile al confronto, bensì di un problema di grande valore pratico perché, qualora si decidesse di considerarle norme di grado pari a quello di qualsiasi altra legge, si rischierebbe allora una situazione per cui qualsiasi atto legislativo potrebbe, in base ad esempio al principio per cui lex posterior derogat priori, abrogare quanto previsto in queste Basic Laws.
In realtà la questione si pone in termini ancora più complessi perché la Basic Law: Freedom of Occupation presenta, all’art.7, una entrenched clause che prevede, per la sua modifica, la necessità del voto della maggioranza assoluta dei membri della Knesset. Una simile garanzia non è però prevista nell’altra Basic Law, ed ecco allora che l’esame dei testi potrebbe condurre ad una conclusione francamente difficile da accettare, quella secondo cui le basic laws hanno fra di loro un valore, come fonte del diritto, diverso. Proprio per evitare di trarre conclusioni così suggestive, ma anche così improbabili, è opportuno fare almeno una succinta analisi delle posizioni dottrinali che si sono sviluppate in merito al valore di queste leggi.
La dottrina maggioritaria30, che per altro è molto ben rappresentata all’interno della Corte Suprema stessa, ritiene che le basic laws altro non siano se non i capitoli di quella Costituzione che la Risoluzione Harari aveva stabilito che fosse opportuno che si compilasse appunto “capitolo per capitolo”.
L’opinione di minoranza ritiene invece che il potere costituente sia stato attribuito solo ed esclusivamente a quella che è poi diventata la “Prima Knesset”, ma assolutamente non alle seguenti, dato che solo ad essa gli elettori avevano conferito tali poteri31.
Tornando ora ai diritti tutelati dalle due Basic Laws in questione, ed avendo ben presente il fatto che non vi sia accordo sul valore di queste leggi, non bisogna credere che fino al 1992 i diritti umani in Israele venissero sistematicamente ed impunemente violati.
Anche riguardo a ciò però vi sono due scuole di pensiero che, pur giungendo alla stessa conclusione, passano attraverso ragionamenti differenti e conclusioni contrastanti sull’utilità e l’importanza di queste leggi32.
Da un lato c’è chi ha salutato queste leggi come un evento che avrebbe finalmente posto Israele fra gli Stati democratici occidentali già dotati di norme di tutela dei diritti umani, attraverso un potere di judicial review formalmente assegnato al giudiziario, salvo coloro che si opponevano a questa visione tra cui, principalmente, i politici ed alcuni degli accademici e dei giudici più restii ad ammettere che la sovranità del legislativo potesse incontrare il limite del judicial review. In tal senso, per comprendere la questione, più agevolmente, può essere utile esaminare un caso concreto, la sentenza United Mizrahi Bank Ltd, et al. v. Migdal Village del 19953333. Con questa sentenza la Corte non invalidò la legge sottopostale ad esame perché, pur limitando il diritto di proprietà tutelato dall’art.3 della Basic Law: Human Dignity and Liberty, andava ritenuta conforme ai valori dello Stato quanto allo scopo, ed i mezzi utilizzati per raggiungerlo necessari e proporzionati. Ma ciò che più di ogni altra cosa è importante cogliere dalla pronuncia in questione è l’attribuzione che la Corte fa a se stessa del potere di judicial review il quale, prima di questa sentenza, poteva essere rinvenuto, normativamente parlando, solo nelle entrenched clauses contenute in alcune Basic Laws, come mostra anche una storica sentenza del 1969, il caso Bergman v. Minister of Finance di cui ci occuperemo in seguito.
Nel caso che stiamo esaminando la Corte va ben oltre l’invalidare una legge per contrasto con una Basic Laws contenente un’entrenched clause, si spinge infatti fino ad affermare esplicitamente il proprio potere di invalidare e di disapplicare la legislazione ordinaria che si ponga in contrasto con i diritti tutelati sia nella Basic Law: Human Dignity and Liberty, sia in quella Freedom of Occupation. Per dirlo in altri termini la Corte Suprema ha attribuito natura costituzionale a quello che può essere considerato il Bill of Rights israeliano. E’ palese che un ragionamento di questo tipo si basi sulla considerazione, già vista in precedenza, della Knesset quale organo costituente.
Se fino ad ora abbiamo seguito la linea di chi attribuisce a queste leggi il valore di una “rivoluzione costituzionale”, è ora il caso di vedere le giustificazioni di chi invece tende a sminuirne l’importanza.
Chi assume come propria questa visione lo fa ponendo al centro del suo discorso l’importanza dell’operato della Corte Suprema. Questi autori ritengono infatti che non siano queste Basic Laws a dare il via ad una rivoluzione, ma che una rivoluzione, limitata alla tutela dei diritti umani e non tale da estendersi fino al riconoscimento del potere di judicial review, era già in atto da quarant’anni ad opera dell’attività creativa ed interpretativa della Corte stessa. Quindi l’innovazione non consiste nella garanzia dei diritti umani e civili, che era già presente, e a cui abbiamo già accennato e che comunque vedremo meglio in seguito, grazie all’operato della Corte Suprema, ma consiste piuttosto nell’attribuzione dello status di norme costituzionali alle disposizioni riguardanti i diritti umani, ad opera della giurisprudenza e non dunque della legislazione.
Un importante seguito, riguardo a queste leggi, si è avuto con due sentenze del 1999.
Con la pronuncia Saguy Zemash v. Minister of Defence del 14 ottobre 199934 la Corte suprema ha dichiarato per la prima volta incostituzionale una legge per violazione della Basic Law: Human Dignity and Liberty. In particolare è stata considerata contrastante con l’art.5 della Basic Law in questione, la norma della legge sulla giurisdizione militare per la quale il fermo di polizia nei confronti di un soldato può durare fino a 96 ore. Contrastante perché l’art.5 sancisce il divieto di “…ogni privazione o restrizione della libertà di una persona tramite la carcerazione, l’arresto, l’estradizione o altro”. Questo divieto è in realtà superabile in casi particolari di necessità che però in questo contesto non sono stati ritenuti sufficienti: in particolare la Corte ha fatto riferimento al fatto che il fermo di polizia per la popolazione civile avesse una durata massima di 24 ore.
L’importanza di questa sentenza non è tanto la dichiarazione di illegittimità di una legge quanto, piuttosto, l’aver utilizzato come parametro una Basic Law priva di carattere di rigidità, cioè priva di entrenched clauses.
La seconda sentenza è quella Issa Ali Batat et al. v. The General Security Service et al. del 6 settembre 199935. In questo caso la Corte Suprema si è pronunciata sull’utilizzo da parte dei membri del General Security Service, d’ora in poi GSS, di sistemi di coercizione fisica durante l’interrogatorio degli indiziati di reato. Questi infatti vengono usualmente indotti a confessare in seguito all’utilizzo di tecniche quali lo “scuotimento”, che nella sentenza stessa è considerato quale possibile causa di seri danni cerebro-spinali, di perdita di conoscenza e di perdita di controllo del proprio corpo, le messa in posizione “shabach”, che è considerata causa di possibili seri danni muscolari, la messa in posizione “rannicchiata”, l’eccessivo stringimento delle manette, con i conseguenti danni alle mani ed alla circolazione sanguigna, ed infine la privazione del sonno come elemento aggiuntivo alle altre tecniche. Questa breve descrizione non è fatta per il gusto dell’orrido quanto piuttosto per rendere l’idea degli argomenti con cui i giudici della Corte Suprema si sono dovuti confrontare.
La Corte Suprema si è trovata, come spesso le accade, nella posizione di dover mediare tra due esigenze fondamentali: la repressione delle azione terroristiche e la salvaguardia dei diritti umani.
I giudici sono giunti alla conclusione che i GSS non hanno il potere di svolgere interrogatori mediante il ricorso a mezzi di tortura, ma non lo hanno fatto partendo dalla constatazione della loro contrarietà ai principi della Basic Law: Human Dignity and Liberty, bensì notando come non esista alcuna legge che consideri differente la posizione dei membri del GSS da quella degli altri addetti delle forze dell’ordine ai quali è invece normativamente vietato l’uso della violenza nei confronti degli indagati.
La Corte Suprema ha inoltre rimandato l’efficacia di questa sentenza per un anno, cosa che ha consentito ai GSS di poter continuare a far ricorso a questi metodi ed alla Knesset di poter emanare una legge che li autorizzi a ciò in conformità, a questo punto, con l’art.8 della Basic Law: Human Dignity and Liberty.
A questo punto si può cercare di trarre alcune considerazioni finali.
Le due Basic Laws di cui ci siamo occupati hanno forse dato vita, come abbiamo visto, a più problemi di quelli che hanno risolto. In particolare si prestano a due interpretazioni distinte, ma entrambe assolutamente accettabili e corrette. Per questo risulta forse più produttivo l’esame della giurisprudenza della Corte. La Corte, che già si era fatta garante dei diritti umani, si appiglia a queste leggi per poter finalmente trovare un fondamento normativo al potere di judicial review e lo fa, ancora una volta, grazie alla propria abilità interpretativa che la porta a non più differenziare fra basic laws contenenti o meno entrenched clauses. Riguardo al judicial review possiamo quindi spingerci fino ad affermare come l’utilizzo di queste leggi, e la loro interpretazione, nella sentenza del 1995 di cui ci siamo occupati dia, a quest’ultima, il significato di una sorta di ultimo Marbury v. Madison israeliano. Riguardo invece alle basic laws ed al loro valore costituzionale abbiamo visto come ci sia una dottrina prevalente, ma non unanime, come tale perciò frutto ancora di notevoli divergenze e dibattiti.
9 Per corti civili si intendono quelle diverse dalle corti militari e religiose.
10 Il Nomination Committee è presieduto dal Ministro della Giustizia, ne fanno parte un altro Ministro scelto dal Governo, il Presidente della Corte Suprema e due altri giudici eletti dai membri di quella corte, due membri della Knesset scelti tramite ballottaggio segreto (per mitigare gli effetti della disciplina di partito) e due avvocati praticanti eletti dalla Camera degli avvocati. Le decisioni del Nomination Committee vengono prese per voto maggioritario e le sue scelte vincolano il Presidente d’Israele che è incaricato delle nomine.
11 Quando sono in carica sono soggetti ad un Comitato Disciplinare che ne assicura il corretto comportamento.
12 Così in un articolo comparso sul quotidiano Ha’aretz del 15 marzo 1983.
13 Dai nomi dei Presidenti della Corte Suprema che le hanno presiedute.
14 La questione sta avendo strascichi anche nel presente dato che è notizia del 12 febbraio 2003 il fatto che, in seguito alle richieste dei famigliari di ventidue delle vittime, la Corte di Cassazione di Bruxelles abbia deciso il rinvio a giudizio di alcuni dei capi dell’esercito israeliano durante quel massacro, tra i quali l’allora Capo di Stato maggiore, generale Rafael Eitan, i generali Amos Yaron ed Amir Drori. Ma l’aspetto più clamoroso della vicenda è il fatto che lo stesso rinvio a giudizio è previsto per l’attuale Primo Ministro Ariel Sharon, rinvio per ora sospeso dall’immunità di cui gode visto il suo ruolo istituzionale (notizie tratte da un articolo di Aldo Baquis pubblicato su LA STAMPA del 13 febbraio 2003).
15 Fanno parte di questo nutrito gruppo fra gli altri: M.Shamgar, A.Barak, D.Kretzmer, R.Gavison, C.Klein, H.Somer, L.Sheleff, Y.Dotan, M.Hofnung.
16 Sul concetto di costituzione si vedano tra gli altri Mortati, Costituzione (Dottrine generali), in Enciclopedia del diritto, XI, p.152, Modugno, Il concetto di costituzione, in Aspetti e tendenze del diritto costituzionale (Scritti in onore di C. Mortati), 1, Milano 1977, p. 197 ss., Id., Costituzione (teoria generale), in Enciclopedia giuridica, vol. IX, Roma 1988, Crisafulli, Costituzione, in Enciclopedia del Novecento, Milano 1975, I, p. 1030 ss., Giannini M. S., Caratteri delle Costituzioni moderne, in AA. VV., La costituzione italiana. Verifica di un trentennio, Milano 1979, p. 68 ss., Dogliani, Introduzione al diritto costituzionale, Bologna 1994, Nania, Il valore della Costituzione, Milano 1985, Zagrebelsky, Società – Stato – Costituzione, Torino 1988, Bartole, Costituzione (Dottrine generali e diritto cosituzionale), in Digesto delle discipline pubblicistiche, IV ed., Torino 1989, Sartori, Costituzione, in Elementi di teoria politica, Bologna 1989, p. 11 ss., Onida, Costituzione italiana, in Digesto delle discipline pubblicistiche, IV ed., vol. II, Torino 1990, Spadaio, Contributo per una teoria della Costituzione, Milano 1994.
17 A. Barak, La discrezionalità del giudice, Giuffrè, Milano 1996, p. 208.
18 Si pensi a tutta l’ esperienza dei Governi di Unità Nazionale.
19 Leon v. Gubernik (Hacting District Commissioner of Tel-Aviv) (1948) 1 P.d. 58, in G. J. Jacobshon, Apple of Gold. Constitutionalism in Israel and in the United States, Princeton University Press, Princeton, 1993.
20 D. Kretzmer, Forty years of Public Law, in Israel Law Review 1990, pp. 341 ss.
21 Jabotinsky v. Weizmann (1951) 5 P.D. 801, in G. J. Jacobshon, Apple of op.cit.
22 D. Kretzmer, Public Law in Israel, in Israel Law Review 1990, pp. 351 ss.
23 Ressler v. Minister of Defence (1988) 42 (ii) P.D. 441, in Zamir, Zysblat, Public law in Israel, Oxford, Oxford University Press, 1996.
24 Baron v. Prime Minister and Minister of Defence (1948) 1 P.D. 109, in Kretzmer, The Occupation of Justice: The Supreme Court of Israel and the Occupied Territories, in State University of New York, 2002.
25 Lohamei Herut Israel – Israel Freedom Fighters.
26 Kol Ha’Am v. Minister of Interior (1953) 7 P.D. 871, in Zamir, Zysblat, Public op. cit.
27 Izat Muhamad Mustafa Dwaikat and others v. The State of Israel and others (1980) 34(i) P.D. 1, in Zamir, Zysblat, Public op. cit.
28 M. B. Nimmer, The uses of Judicial Review in Israel’s quest for a Constitution, in Columbia Law Review 1970, pp. 1219 ss.
29 Vedi capitolo 1 §1.2.
30 Si vedano ad esempio: G. Jacobsohn, Apple of Gold. Constitutionalism in Israel and in the United States, Princeton, Princeton University Press, 1993, 106, B. Akzin, The place of the Constitution in the modern State, in Israel Law Review, 1967, 15 ss., E. Gutmann, Israel: Democracy without a constitution, in V. Bogdanor, Constitutions in Democratic politics, Aldershot, Gower, 1988, pp.290 ss., M. Hofnung, The Unintended Consequences of Unplanned Constitutional Reform: Constitutional Politics in Israel, in American Journal of Comparative Law, 1996, pp.588 ss., A. Barak, The constitutionalization of the Israeli legal system as a result of the basic laws and its effect on procedural and substantive criminal law, in Israel Law Review, 1997, 3ss.
31 Ad esempio: M.B. Nimmer, The uses of judicial review in Israel’s quest for a Constitution, in Columbia Law Review, 1970, 1239, E.Likhovski, The courts and the legislative supremacy of the Knesset, in Israel Law Review, 1968, 345 ss., si veda inoltre l’opinione del giudice Tal, nel caso Bank Mizrahi v. Migdal, parzialmente riportata e commentata in A. Gambaro, A.M. Rabello, Towards a new European ius commune, Gerusalemme, The Hebrew University of Jerusalem, 1999, 371.
32 Si vedano ad esempio, R. Gavison, A Constitutional Revolution, in A. Gambaro, A. M. Rabello, Towards a new european ius commune, Gerusalemme, The Hebrew University of Jerusalem, 1999, 517 ss., A. Barak, The constitutionalization op.cit.
33 33 La sentenza United Mizrahi Bank Ltd., et al. v. Migdal Village (1995) è parzialmente pubblicata in A.Gambaro, A.M. Rabello op.cit.
34 Sentenza commentata da D. Izenberg, High Court overrules IDF detention law, in The Jerusalem post, 15 ottobre 1999 e M. Caielli, La protezione costituzionale delle libertà fondamentali in Israele, Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, Torino, 2000, p.493.
35 La sentenza Issa Ali Batat et al. v. The General Security Service et al. del 6 settembre 1999 è disponibile sul sito internet: www.court.gov.il/mishpat/html/en/verdict/judgment.rtf ed è commentata da E. Ottolenghi, Una sentenza della Corte Suprema israeliana sulla facoltà dei servizi di sicurezza di fare uso della forza nel corso di interrogatori, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, 1999, IV, pp.1489 ss.