Qualche nota all’articolo di Kolot di ieri (clicca qui)
Irene Kajon
Ho letto con grande interesse l’intervento di Pierpaolo Pinhas Punturello, apparso su Kolot il 30 maggio, riguardo alle persone che si convertono all’ebraismo: una testimonianza sofferta, toccante, che accolgo con rispetto e simpatia. Mi colpisce tuttavia il fatto che egli, in diversi punti del suo intervento, mostri di identificare semplicemente l’appartenenza all’ebraismo con l’appartenenza a una comunità religiosa, osservante delle Mitzvot, riunita in occasione delle feste.
A esempio: Punturello contrappone la “scelta religiosa sana, consapevole” compiuta dal proselita, la quale aprirebbe verso il futuro, al legame con la memoria familiare coltivata dall’ebreo di nascita, non osservante; ritiene che l’adesione alla religione ebraica da parte di chi si converte porti a una vita ebraica positiva, conforme ai dettami dell’ortodossia, mentre chi nasce ebreo, ma si allontana da questo tipo di ebraismo, aprirebbe la porta al libero arbitrio e dunque anche all’abbandono dell’elemento ebraico in sé; qualifica come “decente vita ebraica” soltanto il formare minian e partecipare alle funzioni religiose.
Certo, chi si converte al cristianesimo o all’Islam aderisce a una fede religiosa, e non ha bisogno di condividere altro. Ma l’ebraismo non e’ soltanto una religione: e’ anche appartenenza a un popolo, a una cultura, a una storia comune, e tale cultura e storia non coincidono con la religione, hanno aspetti diversi e anche a volte lontani da essa. Che ne è, nella posizione che Punturello difende, del sionismo del non osservante Theodor Herzl, che fu venerato da milioni di Chasidim della Polonia di fine Ottocento? Qualcuno oserebbe dire che Herzl non appartenga all’ebraismo? E Martin Buber che, a rischio della vita, si trattenne in Germania fino al 1938, come capo di un’organizzazione che preparava gli ebrei tedeschi a emigrare, il quale non partecipava alle preghiere in sinagoga? Vi sono attualmente sia entro lo Stato di Israele che nella Diaspora centinaia di migliaia di persone che vivono il loro ebraismo in forme diverse rispetto a quella affermata dalla Halachah. Di loro ognuno che si professi ebreo dovrebbe tener conto, pena la perdita della multilateralità e complessità dell’esperienza ebraica.
Vi e’ una bella espressione che e’ affermata tanto da coloro che si richiamano prevalentemente a un ebraismo religioso quanto da coloro che si richiamano a un ebraismo visto prevalentemente come storia, tradizioni, e cultura: quella di ahavat Israel, l’amore per il popolo. Nelle fonti religiose ebraiche come nella storia ebraica questo aspetto – sia pure a volte contraddetto da tanti episodi di lacerazioni e conflitti – compare. Un atteggiamento di attenzione e comprensione nei confronti di altri ebrei non mi sembra emerga, invece, dall’intervento di Punturello, quando muove loro le sue accuse di una “identità statica”, di essere rivolti al “passato”, di conservare solo “cognomi ebraici”, rivendicando, non senza una punta di superiorità, il proprio ebraismo “positivo, attivo”.
Per curiosità ho controllato la citazione con la quale egli chiude il suo intervento, tratta dal Talmud, Yevamot 47b. Il testo non dice, come Punturello riporta: “I convertiti sono duri per Israele come fossero spine”, nel senso che essi formerebbero per gli ebrei di nascita quasi dei pungoli, delle presenze critiche in grado di spingerli di nuovo verso l’ebraismo; ma: “I convertiti sono duri [da sopportare] per Israele come fossero piaghe”, con riferimento a Levitico 13:2. Il Talmud – in profondo accordo con il filosofo ebreo Leo Strauss, simpatizzante in gioventù del sionismo nazionalista – vuole evidentemente ricordare quanto problematica e difficile sia l’appartenenza alla religione e al popolo ebraici. Il proselita, che entra a far parte a pieno titolo dell’ebraismo, viene informato dai suoi maestri di tale situazione.