Yonatan Bassi
Il testo che presentiamo di seguito è stato appena pubblicato in Israele da Yonatan Bassi, cugino di Amos Luzzatto, a commento del libro di Shadal [Samuel David Luzzatto, n.d.r.] Sulla compassione e l’osservanza, dato nuovamente alle stampe in occasione del 60° anniversario dello Stato di Israele. Nel 2006 Yonatan si è assunto l’incarico di coordinare per conto del governo israeliano l’evacuazione dei coloni da Gaza, e per questo ha subito pesanti attacchi personali da parte delle frange religiose più intransigenti, anche in ambienti molto vicini a lui.
“In ogni generazione l’uomo deve pensare come se lui stesso fosse uscito dall’Egitto”
- Perché pubblicare di nuovo questo testo? Solo perché è scomparso dalle librerie?
- Perché salvare dall’oblio questo libretto che si occupa di mitzwot [plurale di mitzwà, precetto, n.d.r], scritto da un rabbino italiano del diciannovesimo secolo? C’è forse in questo testo qualche caratteristica particolare?
- Nelle parole di questo testo si può trovare un messaggio valido per un ebreo che vive nella sua patria indipendente? O non si tratta, piuttosto, di un testo anacronistico?
Quando ho scoperto per caso questo libro mi si sono presentate alla mente queste domande. Mi sono innamorato del suo contenuto, e mi sono convinto che fosse necessario pubblicarlo di nuovo e portarlo alla conoscenza di un largo pubblico. In questa postfazione mi propongo di spiegare perché proprio oggi, dopo quasi sessant’anni di indipendenza, dopo due generazioni nate in Israele indipendente, c’è bisogno di leggere questo libro e offrirlo come bagaglio alla generazione futura.
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Per tutta la vita mi sono posto la questione dell’etica ebraica: esiste una cosa chiamata ‘etica ebraica’? O piuttosto, come pensa Yeshayahu Leibowitz, c’è un’etica universale, di cui noi ebrei ci appropriamo?
E se esiste un’etica ebraica, essa deriva dalla Torà o dall’esperienza storica della diaspora di generazioni e generazioni di ebrei?
Uno dei ricordi più vividi che ho di mio padre z.l., riguarda un fatto accaduto quando avevo sedici anni. Ero andato a casa a raccontare che avevamo cacciato le nutrie nelle vasche dei pesci usando dei fucili, orgoglioso dei nostri successi. Mio padre mi aveva chiamato e mi aveva detto: “Se la caccia si fa per motivi di lavoro, per evitare i danni provocati dalle nutrie nelle vasche dei pesci, va bene. Ma se lo fai per divertimento, ricordati: stai facendo una cosa non ebraica! Gli ebrei non cacciano per divertimento, perché La sua misericordia si estende a tutte le sue creature. Allora ancora non conoscevo il responso del “Noda’ beyehudà” alla domanda “se è permesso andarsene a cacciare con un’arma da fuoco o se a un ebreo è proibita questa attività, sia per pietà verso gli animali, sia per il precetto di non distruggere”, ma ho conservato nel mio cuore la morale contenuta nelle parole di mio padre, ed esse sono state il mio motto per l’età matura.
I miei frequenti incontri con l’ebraismo italiano mi hanno fatto capire che questa non era un’eccezione: questa è la strada dell’ebraismo italiano, un ebraismo di bellezza interiore ed esteriore, di aiuto al prossimo sofferente e derelitto, di beneficenza e compassione.
In passato mi sono occupato in modo approfondito dell’etica ebraica, ma il susseguirsi degli anni rende sempre più ficcante la difficile domanda, se proprio il risiedere nella propria terra, padroni del proprio destino, non possa oscurare quel sentimento di compassione che ci ha così tanto caratterizzati: “Compassionevoli, modesti e generosi”.
Si può rappresentare questa problematica citando due scritti che sono stati pubblicati nel corso della stessa settimana, nei giorni ‘bein hamezarim’ 2006 , quando si evidenziava la difficoltà di comprendere i processi in atto nella nostra società: in uno dei fogli settimanali del sabato (pubblicazioni distribuite nelle sinagoghe in Israele) è comparso un articolo dal titolo “La vendetta è grande”, scritto da Hanan Porat. Qui si legge, tra l’altro:
Il Rambam in Hilchot melachim, 5/1, evidenzia tre tipi di guerra che possono essere definite ‘guerre di mitzwà’: “Qual è la guerra di mitzwà? La guerra contro i sette popoli, la guerra contro Amalek e quella per aiutare il popolo di Israele contro un nemico che è sopraggiunto”.
Non c’è dubbio che tutte le guerre che abbiamo passato nell’ambito del ritorno a Sion, dalla guerra d’indipendenza fino a oggi, si possono definire ‘guerre di mitzwà’, sia come conquista e difesa del Paese, sia come “aiuto al popolo d’Israele contro un nemico” che intende sterminarci… invece la guerra contro Amalek, sembra sia anacronistica dal momento che Amalek non è più una nazione nel senso etnico del termine, però, anche dopo la fine di Amalek, non è meno attuale la mitzwà “ricordati quello che ti ha fatto Amalek”. Questa regola, il ricordo delle azioni di Amalek, non riguarda solo l’atto formale di leggere la parashà di “Zachor” il sabato prima di Purim, ma ha anche una profonda ricaduta pedagogica, non arrendersi alle forze del male in ogni momento e in ogni luogo, e fare tutto ciò che possiamo per cancellarle dalla faccia della terra…perché non si dica: sconfiggere il male non è compito degli uomini, ma del Santo Benedetto, il nostro unico compito è rivolgerci al Cielo con la preghiera di cancellare il male dalla Terra. Bisogna invece imparare dalla parashà di Amalek, che non lascia la cancellazione del male nelle mani del Signore, ma ci comanda di cancellarlo con le nostre stesse mani.
L’autore quindi, dopo aver analizzato il brano tratto dalla Parashà della settimana (“Mattot”) “Vendica i figli di Israele sui Midianiti”, passa all’analisi di un brano dei Salmi:
Una decisa legittimazione della vendetta, ancorata alla normativa, non solo nei riguardi del singolo, ma anche della collettività, la troviamo nel Salmo 149:
“Giubilino i fedeli per l’onore che fa loro il Signore, gioiscano anche sul loro giaciglio. L’esaltazione di Dio esce dalla loro gola e nella loro mano c’è una spada a due tagli, per far vendetta dei popoli, per castigare le nazioni. Per legare i loro re in ceppi e i loro notabili in catene di ferro, per eseguire contro di loro la sentenza scritta da Dio: ciò è di onore a tutti i Suoi fedeli, lodate il Signore.”
Da questi versi impariamo alcune cose importanti:
1- Questa vendetta non viene compiuta con dispiacere, ma con forza e gioia: “L’esaltazione di Dio esce dalla loro gola e nella loro mano c’è una spada a due tagli”.
2- Questa vendetta non è frutto di un improvviso capriccio, ma conseguenza di una sentenza: “Per eseguire contro di loro la sentenza scritta da Dio”, quindi una sentenza ancorata alle norme che si trovano nelle Scritture.
3- Questa vendetta non distingue fra i soldati semplici e i grandi condottieri e leader: “Per legare i loro re in ceppi e i loro notabili in catene di ferro”.
Quanto ci ricordano questi versi la figura del profeta Samuele, che, al contrario del re Saul, non compatisce Agag re di Amalek e lo uccide senza esitazione davanti al Signore.
È duro leggere queste parole. Ma in generale dobbiamo notare che di anno in anno, alla lettura delle Parashot di “Pinchas” e “Mattot-Mas’è”, nei fogli settimanali del sabato la vendetta è sempre più ben accetta…
D’altro canto, nella stessa settimana è stato pubblicato un altro scritto, di Dudi Silbershlag, un giornalista ortodosso che redige il settimanale Bakehillà, dove il messaggio è completamente opposto:
Pietas
Ogni mattina la mia routine quotidiana inizia al muro del pianto a Gerusalemme con la preghiera mattutina dei primi fedeli, che culmina al momento del sorgere del sole.
L’anno scorso una mattina di queste l’ala di una colomba bianca è rimasta intrappolata in un sottile filo che i bambini arabi avevano teso proprio come trappola per uccelli. Molti di quelli che pregavano nella spianata del muro del pianto, affollata nel momento del sorgere del sole, sentendo i lamenti della colomba, hanno lasciato la loro preghiera per tentare di salvarla. Alcuni hanno trascinato sul posto un mucchio di sedie di plastica, che hanno impilato una sull’altra in una colonna sempre più alta per arrampicarsi, tirare il filo e reciderlo, salvando la colomba dalla sua prigionia.
Altri hanno provato ad aiutarsi con delle scope o qualsiasi altro oggetto, la colomba che si lamentava aveva semplicemente spezzato loro il cuore. Il culmine della preghiera, nel luogo più sacro per il popolo ebraico, veniva reso meno intenso a causa del dolore di una singola colomba. Tutti gli occhi erano levati verso il piccolo dramma che aveva luogo in quel momento vicino ai resti del nostro Santuario. Un uomo pieno di inventiva ha unito due cinte prese dalle vesti di due fedeli, di quelle che si legano ai vestiti nel momento della preghiera. A un capo delle cinte è stata legata la colomba, che è stata così liberata e è subito volata verso la libertà. Le centinaia di fedeli hanno tirato un respiro di sollievo.
Personalmente sono stato commosso da questo fatto, non solo per la componente emotiva sollevata dal fatto che nelle fonti il popolo ebraico viene paragonato a una colomba, ma soprattutto per le espressioni di compassione di così tante persone nei riguardi di una colomba. Sapevo che i nostri maestri definiscono i segni distintivi degli ebrei come “Compassionevoli, modesti e generosi”, ma ora si rafforzava la mia convinzione che ‘compassionevoli’ sia il loro principale segno distintivo.
Sapevo bene che l’approccio dei nostri saggi al problema della sofferenza degli animali è di vederlo come fondante la vita dell’uomo e i suoi rapporti sociali, come si esprime il Nachmanide nel suo commento alla Torà: Per insegnarci la compassione, per non incrudelirci, perché la crudeltà si diffonderebbe nell’animo umano, per insegnarci la retta via. Le sue parole hanno anche costituito un punto di riferimento per la sentenza del giudice Mishael Hashin nella discussione su una colluttazione tra un uomo e un coccodrillo: “Un uomo che non è sensibile ai sentimenti di un animale, si comporterà nello stesso modo con gli altri uomini. Il maltrattamento di un animale è contro un essere inerme, è un’azione interamente scorretta, e la scorrettezza per sua natura verrà assorbita dall’anima dell’uomo.”
La compassione esiste per spronare l’uomo all’azione, non è un semplice stimolo, ti divora dall’interno e non c’è modo di metterla a tacere, se non con azioni volte a favorire chi l’ha suscitata, per aiutarlo ed essergli di aiuto e appoggio. La compassione contribuisce alla costruzione interiore dell’uomo, lo costringe a compiere buone azioni e a tenere conto dell’altro.
Splendide parole, che si commentano da sole. Chi le legge si pone un importante quesito: si possono estendere le stesse norme etiche all’uccello, all’animale, allo straniero, all’orfano e alla vedova? Noi facciamo nostre le parole del Nachmanide circa le norme sull’allontanamento dell’uccello dal nido, citate da Dudi Zilbergshlag? Facciamo nostre le parole di Mishael Hashin, (scritte quasi a completamento del Nachmanide)? Si possono limare le norme sui poveri delle nostre città, che vengono prima di quelli delle altre città? L’etica umana sa distinguere tra loro? E l’etica ebraica? Esiste una cosa chiamata ‘etica ebraica’? E si ritorna all’inizio.
Nechama Leibowitz, nella prefazione all’Esodo, si chiede, sulle orme dei nostri Maestri, se la diaspora sia la punizione per un peccato, il peccato dell’assimilazione agli altri popoli e all’aver seguito i loro costumi, o se non sia per nulla una punizione, ma anzi abbia un significato pedagogico. Nechama cita Shemot Rabà, 1,1: “Tre buoni doni ha dato il Santo Benedetto sia al popolo di Israele, e tutti attraverso sofferenze: la Torà, la Terra d’Israele e il Mondo a venire…. Il dono della Terra d’Israele si evince da Deuteronomio 8, 5: “Tu devi essere intimamente persuaso che, come un uomo punisce suo figlio, così il Signore tuo Dio punisce te”. E cosa si trova nel seguito? “Poiché Dio ti porterà in una terra buona….” Così commenta Nechama:
Qui il significato della diaspora e delle sofferenze, è la depurazione e la purificazione. Così si deve interpretare la descrizione di Deuteronomio 4,20: “Vi fece uscire dal crogiuolo del ferro, dall’Egitto, per farvi diventare un popolo suo possesso speciale”. … Non c’è dubbio che qui il fuoco della sofferenza serve a purificare.
… Nella Torà i precetti che difendono lo schiavo sono approfonditi ricordando la reale esperienza di schiavitù e oppressione vissuta sulla propria pelle dalla nazione.
… Si può forse pensare che sia questo il motivo della schiavitù in Egitto all’inizio della formazione della nazione, il motivo della permanenza in schiavitù e dell’essere stranieri e oppressi prima di ricevere la Torà e di arrivare nella Terra Promessa, cioè che provassero sulla propria pelle la schiavitù e l’oppressione, e cosa significhi essere preda della violenza e dell’ingiustizia, sottoposti a un potere straniero e crudele.
Le parole di Nechama Leibowitz conferiscono un nuovo significato, un senso nuovo, educativo, alla diaspora e alla salvezza: “In ogni generazione ognuno deve vedere se stesso come se lui stesso fosse uscito dall’Egitto”, non indica solo il precetto di ricordare l’esodo, ma anche di preservare il ricordo della schiavitù. Il ricordo della diaspora. Perché guai a chi non ricorda!
Ai margini del suo discorso, Nechama cita un altro racconto, che mette in evidenza la sua posizione sull’importanza pedagogica di ricordare la diaspora:
Nel libro di Howard Fast I miei eroici fratelli, (scritto nell’anno 1948, non senza una relazione con la nostra guerra d’indipendenza), che delinea la vicenda storica della rivolta degli Asmonei, ci si imbatte nella missiva di un senatore romano inviata a quel senato che l’aveva spedito in Giudea per controllare se questa piccola nazione meritasse che Roma siglasse con essa un patto. Questa dettagliata relazione trasuda dell’indignazione di un nobile romano, figlio della nazione che domina il mondo, verso un piccolo popolo in cui tutti “sono immersi nella lettura, nella predicazione e nella discussione, non si riuscirà mai a trovare in questa nazione un gruppo di persone di cultura che si elevino dal livello del popolo”. Secondo il senatore, essi “odiano l’autorità, e le loro leggi sono oscure e senza senso, come quella che ordina di riposare nel settimo giorno e di lasciare libero lo schiavo dopo che li ha serviti per sei anni”. Ciò nonostante egli deve segnalare le loro grandi conquiste in campo agricolo, nello scavo di pozzi e nell’incanalamento dell’acqua piovana.
Nella relazione, infatti, si legge:
“Ti meraviglierai venendo a sapere che nessun’altra terra assomiglia a questa quanto all’esiguità del numero degli schiavi. Mentre presso di noi nell’ultimo censimento si è visto che ci sono 23 schiavi per ogni cittadino libero, in Giudea è il contrario, e c’è uno schiavo ogni venti-trenta cittadini. Questa cosa è pericolosa, guai a Roma se la trascurerà. Questi usano lasciare ogni schiavo libero a una certa scadenza, e chi picchia uno schiavo viene considerato trasgressore di fronte alla legge. Se si tiene conto del fatto che tutta la civiltà occidentale si regge sulla schiavitù, potremo capire che il problema degli ebrei non ha una dimensione solo locale.”
Alla domanda, rivolta a ebrei di diversi strati sociali, perché non si comportino ‘come gente civile’, perché non abbiano schiavi, perché li liberino, perché non si comportino con loro severamente, tutti davano la stessa risposta, il sacerdote come il popolano, il sapiente di Gerusalemme come il contadino delle campagne, e cioè lo strano e sorprendente versetto “Fummo schiavi del faraone in Egitto”.
Il senatore romano vede Simone l’Asmoneo che presiede un processo tra un ebreo e il suo giovane schiavo che era scappato ed è stato catturato dal suo padrone. Simone non decide, con grande meraviglia e scandalo dell’ospite romano, di “scorticare il giovane fuggitivo e appendere la sua pelle nella piazza della città”, ma chiede al ragazzo quale sia il motivo della sua fuga, e quando quello gli risponde “per essere libero”, Simone decide che il giovane debba finire il suo periodo di servizio e il suo padrone non osi tenerlo in schiavitù fino al giubileo.
Quando il senatore chiede a Simone di spiegare il suo strano comportamento, quello gli risponde: “Mi hai chiesto della libertà, romano, e in effetti la libertà ci è cara, perché siamo stati schiavi del faraone in Egitto”.
“Questo me l’hai già detto”, dice il romano, “È forse una formula magica?” “A noi non piacciono gli incantesimi”, risponde il vecchio con disprezzo. “Ho detto quello che pensavo. Siamo stati schiavi… la schiavitù è viva dentro di noi. Siamo stati schiavi… abbiamo subito una dura oppressione e abbiamo dovuto lavorare duramente”. E gli racconta la storia della nostra sottomissione e del nostro orgoglio come spiegazione della sua posizione circa la schiavitù.
Quindi l’inviato romano Lentulus Silvanus conclude le sue raccomandazioni al senato di Roma con le seguenti parole:
“Non sarà mai possibile avere fiducia negli ebrei, non si getteranno ponti di comprensione fra loro e l’occidente, tutti i nostri principi sulla libertà dell’uomo e sulla sua dignità sono estranei per loro… l’esistenza stessa degli ebrei è un pericolo per Roma, perché mettono in dubbio il principio fondamentale della civiltà occidentale, una famiglia libera basata sulla schiavitù.
Anche se si accontentano del loro piccolo paese, guai a noi se ci distraessimo dal pericolo che rappresentano. Il mondo è troppo piccolo per ospitare insieme Roma e la Giudea…”
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Molto diverso da lei nella sua concezione etica è suo fratello, Yeshayahu Leibowitz. Anche lui però, nonostante attacchi l’etica di Shadal e di altri, esprime un timore simile: che l’allontanamento dall’esperienza diasporica indebolisca il senso morale che è sempre stata parte del popolo ebraico. Nell’analisi di Leibowitz, che riportiamo di seguito, fa impressione il fatto che sia stata scritta nel 1953, cioè nel quinto anno dall’insediamento dello Stato d’Israele. Già allora Leibowitz prevedeva i processi che avrebbero potuto verificarsi nella società israeliana.
Scrive Leibowitz:
Dal punto di vista dell’etica e della coscienza, per generazioni siamo vissuti in un ambiente artificiale, dove abbiamo potuto dar vita e sviluppare valori e principi che non hanno dovuto superare l’esame della realtà. Eravamo orgogliosi di noi stessi, e in una certa misura anche agli occhi degli altri, possessori di uno dei più terribili istinti che si celano nell’animo umano: l’istinto dello spargimento di sangue tra genti diverse. Attribuendo a noi stessi questo merito, non abbiamo visto, o non abbiamo voluto vedere, che nella nostra situazione storica lo spargimento di sangue non era un mezzo alla nostra portata, per difendere la nostra esistenza.
Dal punto di vista etico o religioso, la realtà diasporica rappresentava una sorta di fuga dall’esame definitivo, e non c’è dubbio che l’attaccamento alla diaspora e la contrarietà nei confronti della rinascita storico-nazionale tra molti dei migliori rappresentanti dell’ebraismo scaturisse da un inconscio timore di questo esame.
Il timore di perdere questa superiorità religiosa e morale, che è facile mantenere quando non è insidiata da alcun pericolo, mentre può essere perduta in altre condizioni.
Nel seguito dell’articolo, Leibowitz critica il punto di vista di Shadal sull’etica ebraica. Infatti continua:
Non ha senso credere in una particolare caratterizzazione morale del popolo d’Israele, o in una particolare ‘morale ebraica’. ‘Morale ebraica’ è un’espressione particolarmente debole, non solo perché la morale non ammette un aggettivo che la relativizzi, e non può quindi essere ‘ebraica’ né ‘non ebraica’: l’espressione stessa ‘morale ebraica’ è un’assoluta contraddizione per chiunque non voglia a bella posta negare il contenuto e il significato religioso dell’ebraismo, cioè per chi non distorce l’ebraismo.
È un fatto storico-empirico, perdonino Shadal, Achad Haam e Hermann Cohen, che l’ebraismo non ha prodotto nessuna specifica dottrina morale, non si è mai ammantato di una morale e non l’ha perseguita. La morale ebraica non è altro che il puntiglioso rispetto della Torà e dei precetti, il cui significato morale può avere interpretazioni diverse.
Effettivamente c’è spazio per diverse interpretazioni della morale nella Torà. Gli esempi riportati sopra lo dimostrano. Non sono sicuro però che questo rifugiarsi di Leibowitz in una “etica ebraica, che non è altro che l’osservanza puntigliosa della Torà e dei precetti” sia così scontato.
Per quanto ci riguarda, basta dire che proprio perché la Torà si presta a differenti interpretazioni, e proprio perché c’è un fondato timore che la Torà della vendetta prenda il posto del sentimento di compassione, proprio per questo è così importante la pubblicazione del libro di Shadal.
Il rabbino Shlomo Goren, primo rabbino capo dell’esercito israeliano, i cui tre testi Meshiv milhamà costituiscono la base normativa per le discussioni su questioni che riguardano esercito e guerra ai nostri giorni, ha scelto di mettere all’inizio dei suoi libri un capitolo su “Etica del combattimento alla luce della Halachà”. Le sue significative parole meriterebbero un capitolo a parte. Magari venissero studiate oggi per come sono state dette e scritte. Ne citerò solo alcune frasi:
Non c’è dubbio che la vita umana è il valore supremo nella Torà, nella Halachà e nella morale dei profeti, e non si intende solo la vita degli ebrei, ma la vita di ogni essere umano creato a immagine di Dio. Infatti si legge (Trattato di Sanhedrin, 37, 1): “Per questo l’uomo è stato creato solo, per insegnarci che chiunque distrugge una vita è come se distruggesse il mondo intero, e chi invece mantiene una vita è come se mantenesse un mondo intero.”
Si capisce che in questo non c’è differenza tra una persona appartenente al popolo ebraico e gli altri. Il rabbino Goren si dilunga nell’analisi delle varie interpretazioni del fatto che nella versione originale non si specifichi che si tratti di vita di ebrei. In seguito il rabbino Goren riporta un elenco di fonti che giungono a un’unica conclusione: non dobbiamo trarre insegnamento dalla morale in vigore nelle guerre antiche e non dobbiamo parlare oggi di ‘vendetta’ o di uccisione di innocenti, dobbiamo essere compassionevoli verso tutte le creature, come si legge in Salmi, 145: Buono è il Signore verso tutti, la Sua misericordia si estende a tutte le sue creature.
Nonostante i precetti sul combattimento esplicitati nella Torà, ci è stato ordinato di avere pietà anche del nemico, che non bisogna uccidere nemmeno durante una guerra, a meno che non si sia obbligati a farlo per difendere la propria vita, per concludere la conquista vittoriosamente, e ovviamente non bisogna colpire donne e bambini che non prendono parte alla battaglia, a parte quelle ‘guerre di mitzwà’ dell’antichità per le quali ci è stato comandato espressamente nella Torà “Non lascerai nessuno in vita”. Questo quando anche i nemici si comportavano con crudeltà e per questo la Torà è severa nei loro confronti. Non dobbiamo assolutamente fare proiezioni da queste guerre ad altre a noi contemporanee, dopo che abbiamo visto quanto sia grande la compassione del Signore perfino verso gli idolatri, non gioisce della loro caduta e Gli è difficile perderli. La legge ci impone di seguire la Sua via, di avere compassione delle Sue creature, come è scritto: “La Sua misericordia si estende a tutte le sue creature”.
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Ho ancora due riflessioni sul perché abbia voluto far pubblicare il libro. La prima riguarda l’appello di Rav Kook, all’inizio del ventesimo secolo, ad aumentare il proprio impegno in materia di precetti. Nel suo saggio: Gemme di luce, un punto di vista sulle mitzwot, Rav Kook sottolinea la grande importanza, proprio ai giorni nostri, di occuparci di questo argomento:
Quando ci addentriamo nel vasto campo dell’esegesi delle mitzwot, non finiamo di meravigliarci di quanto sia poco sviluppato questo importante settore, che per il suo contenuto potrebbe essere molto più vasto e fertile degli altri temi dell’esegesi biblica… a questo scopo il lavoro più urgente è l’approfondimento dell’indagine sulle mitzwot, in profondità.
Sostenere che sia tempo di occuparsi delle ragioni delle mitzwot, è in realtà come dire che dobbiamo attribuire alle mitzwot il nostro punto di vista. Infatti non c’è quasi nemmeno bisogno di sottolineare che le ragioni delle mitzwot per i nostri antenati non erano simili a quelle di chi li aveva preceduti, né alle nostre. Ogni generazione sente il bisogno, e ha l’obbligo, di interpretare. Questo è il compito dell’esegesi ed è obbligatorio per chiunque desideri che i valori dell’ebraismo e delle mitzwot mantengano la loro rilevanza. Secondo la mia modesta opinione questo era anche il pensiero di Rav Kook, ma sarebbe troppo lungo dimostrarlo qui. Questa impostazione si contrappone a quella di chi è convinto che le mitzwot ci sono state date e noi non possiamo che riceverle come sono, sia che siano in sintonia con i nostri principi religiosi, sia che non lo siano.
Inoltre non c’è il dubbio che Shadal ci presenti una particolare concezione delle ragioni delle mitzwot, diversa da quella di chi lo ha preceduto, e si deve e si può analizzarla in comparazione con quelle di Maimonide, Rav Joseph Albo e l’autore del Sefer ha chinnuch.
L’ultima riflessione riguarda il mio particolare legame con Shadal, che era l’autentico rappresentante dell’ebraismo italiano.
Mio padre era nato a Venezia e mia madre, possa avere una lunga vita, è nata a Ferrara.
Entrambe le città si trovano nelle vicinanze di Padova, dove Shadal è vissuto e ha fondato la sua scuola, e da dove la sua personalità ha illuminato le altre comunità italiane.
Mia cugina Laura è sposata con Amos Luzzatto, discendente di Shadal.
C’è poi un ulteriore legame: il nonno di mia nonna, il rabbino Izhak Pardo, era l’allievo prediletto di Shadal!
Ecco in breve la storia della famiglia Pardo: il rabbino Izhak Pardo nacque a Livorno nel 1824, e lì morì nel 1892. Era figlio del rabbino David Shemuel Pardo, che fu rabbino di Verona per 33 anni, dal 1825 fino alla sua morte, nel 1858. Izhak Pardo aveva solo un fratello, Yaakov Hai Pardo (YaHeF), che era nato sei anni prima di lui (1818), ed era morto nel fiore degli anni (1839). Entrambi erano allievi di Shadal. Noi possediamo il manoscritto del commento di Shadal alla Torà, che aveva cominciato a scrivere YaHeF, e ha poi terminato suo fratello Izhak. Nell’introduzione a questo commento si legge:
Genesi ed Esodo, tradotti e commentati dal maestro Shadal, scritto dal maestro YaHeF, z.l., che ha frequentato la scuola rabbinica di Padova negli anni 1836-1837.
Io, suo fratello Izhak, ho annotato le correzioni e le aggiunte che ha fatto Shadal al suo lavoro dal momento del mio arrivo come allievo in questa scuola nell’anno 1843.
Che il Signore aiuti lui, me e tutti i suoi allievi a rendere grande la Torà per molti giorni e anni a venire, e mi aiuti ad assolvere il compito che era di mio fratello z.l. nella Torà, nella saggezza e nelle buone azioni, per assicurare il riposo alla sua anima pura che si edifica nell’ombra del Signore, e per la gioia di mio padre e mia madre, Dio li protegga, e per quella di tutto il popolo d’Israele, Amen.
Abbiamo il testo di un’orazione che ha tenuto, in italiano, il Rabbino Izhak Pardo nella sinagoga di Verona, testimonianza dell’educazione assorbita nella scuola di Shadal, che ci fa anche percepire la particolarità che caratterizza le comunità italiane in tutte le generazioni: amore di Dio e dell’Uomo, sentimenti di compassione e osservanza che costituiscono l’asse attorno al quale gira la vita di un ebreo:
Possano questi santi proponimenti guidarvi in ogni tempo in ogni circostanza:
– L’amore di Dio vi sia d’impulso ad amare la virtù.
– Chi ama Dio, si astiene da tutto ciò che è disonesto, abbietto e disdicevole all’umana dignità.
– Chi ama Dio, ama e rispetta i propri genitori che sono l’espressione più toccante della benigna Sua provvidenza.
– Chi ama Dio, riconosce tutti gli uomini come figli dello stesso Padre, e li aiuta e conforta nelle loro angustie con affetto paterno.
– Chi ama Dio, ama l’ordine, la temperanza, la vita attiva e laboriosa (…) per tutta la vita è confortato dalla Divina benedizione, che non fa mai difetto a chi ne è meritevole.
Ti benedica il Signore e ti custodisca; faccia rifulgere il Signore il Suo volto verso di te e ti conceda grazia; rivolga il Signore il Suo volto verso di te e ti benedica
Si capisce da Izhak Pardo, allievo di Shadal, che le parole del suo maestro hanno lasciato in lui un segno:
il significato dell’ebraismo deve essere composto di due fondamenti: uno concettuale, che riguarda la conoscenza religiosa, e uno pratico che riguarda il comportamento morale. Questi due fondamenti sono: l’osservanza e la compassione.
Perciò ci è sembrato che il titolo giusto per il libro di Shadal fosse Sulla compassione e l’osservanza, un titolo che esprime nel modo più preciso e sintetico la sua visione del mondo religiosa ed etica.
C’è contraddizione tra “Un popolo eterno non teme una lunga strada”, proverbio che si rivolge al futuro, e la necessità invece di rivolgerci verso il passato, verso la memoria collettiva di noi come popolo di schiavi? Shadal conclude la sua visione con parole che una volta ci sembravano ovvie, mentre oggi dobbiamo faticare per mantenere la loro attualità:
“La compassione nell’ebraismo è generale, come quella di Dio. È rivolta a tutte le creature. Non c’è gruppo al di fuori di questa legge, perché tutti gli uomini sono fratelli, secondo la Legge dell’ebraismo, sono figli di un unico Padre, e sono stati creati a immagine di Dio.”
Come discendente delle comunità italiane, come discendente della famiglia Pardo, prego che possiamo essere testimoni di un ebraismo illuminato, aperto, solidale, giusto e generoso. Un ebraismo che si ponga come obiettivo di vedere nell’osservanza e nella compassione i fondamenti sui quali basarsi. Un ebraismo che anche dopo 2000 anni di indipendenza non dimentichi 2000 anni di diaspora. Un ebraismo che veda nella diaspora un evento che ci educa a essere quello che siamo sempre stati: compassionevoli, modesti e generosi.
Nei giorni “bein hametzarim” 2006
(traduzione a cura di Alisa Luzzatto)
Per gentile concessione di Keshet.