Pubblichiamo con piacere l’intervento di rav Bahbout che conferma come in Italia gli ebrei spesso commemorano solo per riscrivere la Storia
La commemorazione avvenuta il 27 novembre al Tempio dei Giovani e la diffusione dell’evento data da Moked mi dà l’opportunità per illustrare non solo come nacque l’iniziativa, ma quale ne fu lo spirito. Qualche anno prima della rifondazione del Tempio della Casa di Riposo – rimasto chiuso dopo il trasferimento della Casa di Riposo della Comunità di Roma a Via Fulda – proposi a Bice Miglia, direttrice all’epoca del Centro di Cultura ebraica, l’iniziativa di offrire agli ebrei romani un modo diverso di vivere Yom Kippur, farne cioè un’occasione di preghiera, di studio e di confronto tra i partecipanti.
Nacque quello che poi divenne “Il Nostro Kippur” che ho avuto il piacere di animare, anche con i’ottimo contributo dato dai giovani del Benè Akivà. Le prime edizioni si svolsero nei locali del Centro di Cultura in Via del Tempio, per poi approdare con il tempo nei locali degli Asili (dove si tiene tuttora).
Il limite di questa iniziativa era ovviamente il fatto che si trattava di un appuntamento una tantum ed era quindi augurabile dare continuità a questa esperienza. Quando rav Toaff zl e Santoro Coen, presidente dell’Ospedale, offrirono l’opportunità di dare a questo appuntamento una continuità settimanale, consegnando ai giovani del Benè Akivà il Tempio della Casa di Riposo, l’occasione fu colta al volo. Non mancarono le critiche come quella di volere costituire un “isolotto”, ma il progetto ebbe successo e portò via via all’apertura di altre sinagoghe in altre parti della città.
Quale era lo spirito che animava i fondatori?
Innanzi tutto si voleva permettere a chiunque di partecipare e seguire le tefillot, di spingere altri giovani a imparare le preghiere e le melodie. In secondo luogo, vi era il desiderio di ascoltare una breve derashà (commento) che non fosse avulsa dal contesto in cui si muove ogni persona e ogni ebreo che è quello della quotidianità, del collegamento con ciò che accade giorno dopo giorno, dei problemi che la società pone: in sostanza la derashà era innanzi tutto un’occasione per “leggere”, quasi in contemporanea il giornale e la parashà o la haftarà settimanale, per cercare di capire quale era il messaggio per noi in quel momento e in quel contesto. L’ebreo infatti vive in un contesto e deve confrontarsi con esso, non vive in una “bolla”, non è una “monade” senza rapporti con i propri vicini e la società.
La lezione che seguiva la fine delle preghiere non era mai un monologo, ma un’occasione di confronto sul testo della Parashà cui tutti avevano il diritto di intervenire e di dire la propria opinione.
Per molti anni (fin dalla sua fondazione) questo è stato lo spirito con cui è nata l’esperienza del Tempio dei Giovani. Personalmente mi misi a disposizione anche leggendo molto spesso la Parashà settimanale, dato che specie all’inizio non erano in molti a potersi cimentare con la lettura del Sefer Torà. Con il tempo, anche questo si transformò, in quanto una delle attività fu lezioni di hazanut, dando ai più (grandi e più giovani) la possibilità di imparare e poi collaborare alla preghiera pubblica.
In effetti la parashà di questa settimana ci dà proprio lo spunto per chiarire l’idea portante su cui si è sviluppato il Tempio dei Giovani: Giacobbe lotta con Esaù per affermare la propria identità e l’unico modo per non perderla è quella di continuare a rimanere se stesso fino in fondo, associando al proprio nome quello di Israel.
Leggere la parashà settimanale come se fosse stata scritta proprio oggi, di capire che abbiamo ancora molto da imparare: solo così si può continuare a rimanere giovani e chiamarsi appunto “Tempio dei Giovani”.
Scialom Bahbout, rabbino capo di Venezia