Alla ricerca delle radici ebraiche dell’idea della concezione verginale di Maria
Riccardo Di Segni – Rabbino capo della Comunità Ebraica di Roma
Quaderni storici – Nuova serie, Vol. 25, No. 75 (3), Verginità (dicembre 1990), Il Mulino
1. Introduzione
«Dovreste vergognarvi di andar raccontando le stesse cose dei Greci!». Con queste parole l’ebreo Trifone, secondo S. Giustino, rinfacciava ai cristiani la somiglianza dell’idea della concezione verginale di Maria con i miti greci.
Giustino scrisse il Dialogo con Trifone intorno al 160, ambientandolo nel 135. In quel momento l’idea cristiana della verginità di Maria aveva già una precisa connotazione teologica. La successiva e complessa elaborazione dottrinale non modificò di molto i termini iniziali della discussione che opponeva i diversi mondi religiosi. Il cristianesimo doveva trovare argomenti per replicare agli oppositori che mettevano in rilievo le somiglianze con i miti del mondo pagano e le differenze rispetto alle matrici ebraiche.
L’ampiezza della discussione, che si protrae fino ai nostri giorni, sembrerebbe non lasciare spazio a novità. Eppure la lettura di alcuni passi rabbinici che finora sembrano essere stati ignorati o sottovalutati consente di aggiungere degli elementi decisamente nuovi ed originali[1].
Prima di discutere queste fonti rabbiniche sono necessarie alcune premesse sul problema della verginità nella Bibbia e nella letteratura rabbinica.
2. La verginità nella bibbia. Note essenziali
Il termine specifico che indica la vergine nell’ebraico biblico è bethulàh; ricorre 50 volte nella Bibbia, nelle varie forme (singolare, plurale, costrutto, ecc.); altre dieci volte si trova bethulim, al plurale maschile, che indica la verginità o i segni della verginità[2].
In Genesi 24:16 di Rebecca è detto che «era vergine e nessun uomo l’aveva conosciuta», con una ridondanza stilistica che sembra conferire al primo termine un valore più tecnico e formale, riferito alla deflorazione, mentre il secondo sembra indicare la più generica e completa mancanza di rapporti[3]. In effetti è solo con quest’ultimo termine, e con le stesse parole dei Septuaginta, che Maria in Luca 13:4 dichiara la sua verginità[4].
Nella Bibbia – fuori da un contesto strettamente giuridico – con il termine vergine si indicano anche genericamente le giovani e le nubili[5], e per estensione i popoli (vergine figlia di Sion – 2Re 19:21 –, v. figlia di Sidone – Isaia 23:12 –, v. figlia dell’Egitto – Ger. 46:1 1).
Solo il Gran Sacerdote è tenuto a sposare una vergine (Lev. 21:13); Ezechiele (44:22) estende la norma ai normali sacerdoti, ma questo rigore non sarà applicato nella successiva legislazione.
La verginità ha effetti giuridici, appena accennati, a proposito della dote (Esodo 22:16); e molto più importanti come oggetto di protesta da parte di un marito defraudato, che non riscontra la verginità nella sua «fidanzata» o promessa sposa, in Deuteronomio 22:13-21. Dalla lettera del testo potrebbe sembrare che il rigore della punizione si applichi anche per una ragazza che si è prostituita prima del fidanzamento; nell’interpretazione legale dei rabbini la regola vale solo per un adulterio consumato il fidanzamento[6].
Il famoso brano di Isaia 7:14, che parla di concepimento e gravidanza di una «vergine», ripreso in senso cristologico in Matteo 1:23, ha nel testo ebraico ‘almàh, genericamente giovane nubile, mentre la traduzione greca dei Septuaginta lo rende con «vergine». Senza entrare nel merito di una «vexata quaestio» interconfessionale e critica che ha secoli di storia, sono necessarie due osservazioni: la prima è che, a parte questo discusso riferimento, non si parla mai nell’Antico Testamento di gravidanza verginale; la seconda è che in una prospettiva ebraica tradizionale, e fuori dall’ambito critico-scientifico, il riferimento di Matteo a Isaia appare come un comune esercizio di midrash, cioè come una interpretazione esegetica non strettamente letterale, nella quale uno spirito religioso cerca di operare dei raccordi con una situazione attuale, giocando su allusioni e sfumature testuali.
Dall’insieme di questi dati si deduce che nella Bibbia ebraica la verginità rappresenta una virtù e un valore economico, ma solo nella prospettiva nuziale, non come valore assoluto.
3. La verginità nel diritto talmudico: premesse
Il diritto rabbinico-talmudico discute il problema della verginità in numerose prospettive[7]:
– nei reati di seduzione e violenza (previsti in Esodo 22:15) sono previste differenti sanzioni, tra cui una multa speciale che riguarda esclusivamente le vergini;
– il reato, previsto in Deut. 22:17, di «diffamazione della giovane», e che consiste nell’accusarla ingiustamente di non essere vergine;
– la differente condanna a morte per il reato di adulterio: (in base a Deut. 22); se si tratta di una vergine legata con il primo vincolo matrimoniale (cfr. la n. 6), la punizione è la lapidazione, altrimenti l’adultera normalmente sposata è uccisa, insieme all’adultero, con lo strangolamento. Questa distinzione è ben precisa nel diritto rabbinico; impone una rilettura del famoso (e criticamente controverso) episodio evangelico della «lapidazione dell’adultera» in Giovanni 7:53-8:11;
– il Gran Sacerdote deve sposare una vergine (in base a Lev. 21:14);
– ai normali sacerdoti è consentito contrarre l’impurità derivante dal cadavere di un parente stretto; per la sorella solo nel caso sia ancora vergine (Lev. 21:14).
Tutte queste sono norme di origine biblica. Altri problemi si riferiscono a usi e decisioni di istituzione più recente; ne ricordiamo alcune:
– la vergine deve avere garantito un periodo di tempo per un’idonea preparazione tra la richiesta di matrimonio e la sua celebrazione;
– nella consuetudine antica la vergine si sposava il mercoledì (perché i tribunali si riunivano il giovedì, e quindi un’eventuale protesta per mancata verginità poteva essere immediatamente inoltrata e discussa);
– dopo le nozze la vergine con il suo sposo fanno festa per sette giorni;
– il matrimonio di una vergine viene segnalato con segni particolari;
– il primo rapporto, secondo alcuni, è proibito nel giorno di Sabato;
– sempre secondo alcuni, dopo la deflorazione si recita una preghiera particolare di ringraziamento (ma è una norma molto criticata da autorevoli maestri);
– la ketubbàh, cioè la somma base da versare alla donna in caso di divorzio, è per una vergine pari a 200 zuzìm, il doppio degli altri casi.
Tutti questi problemi in rapporto alla verginità determinano nella letteratura rabbinica delle discussioni giuridiche che oggi definiremmo medico-legali, per stabilire un’esatta definizione della condizione verginale, con particolare riferimento al tipo di rapporto che la fa cessare, all’età da considerare, alle modalità di accertamento, alla responsabilità di eventi traumatici. Riprenderemo in seguito molti di questi punti. Sul piano morale la posizione rabbinica non si discosta da quella veterotestamentaria; la verginità è una virtù, ma solo nella prospettiva nuziale, non come valore assoluto. Anzi sono da segnalare le diffidenze rabbiniche nei confronti delle vergini che ostentano ascetismo o eccessiva religiosità; si tratterebbe, per i rabbini, solo di una copertura ipocrita di un atteggiamento nei fatti immorale[8].
4. Verginità verginale e verginità mestruale
Dopo queste premesse, passiamo a discutere alcune fonti specifiche. La più importante si trova all’inizio del trattato mishnico della Niddàh, quello che si occupa dell’impurità mestruale.
Secondo la Bibbia vi sono diverse fonti di impurità; e, tra queste, particolari condizioni fisiche, come la mestruazione. L’impurità mestruale ha diverse implicazioni: la proibizione di rapporti sessuali per un determinato periodo, e la trasmissione dell’impurità a oggetti, persone, alimenti[9]. Fino a che durò il culto nel Santuario di Gerusalemme (distrutto da Tito nel 70 dell’e.v.), l’ebraismo custodiva con estrema attenzione un sistema di offerte cultuali e di alimentazione in stato di purità, che doveva tener conto di tutte le possibili fonti di contaminazione, tra le quali appunto l’impurità mestruale. Gli ultimi due ordini della Mishnàh, benché redatti alla fine del secondo secolo, conservano la memoria di tutti questi sistemi, sui quali continuò anche la discussione giuridica, malgrado la forzata inattualità dovuta alla distruzione del Tempio. L’impurità mestruale – persistendo il divieto dei rapporti sessuali – conservava comunque anche aspetti di attualità. La Mishnàh di Niddàh si apre con la discussione di un problema molto particolare: da quale momento inizia l’impurità mestruale; in altri termini se sia sufficiente considerare come momento iniziale dell’impurità quello in cui la donna avverte la sua condizione, o se sia necessario tener conto di una «fascia di sicurezza» precedente, nella presunzione che il flusso sia già iniziato; con la conseguenza che anche tutto ciò che è stato manipolato in questo periodo diventa impuro. La discussione si apre con l’opinione di Shammai, un’autorità della generazione precedente Gesù, che malgrado il suo atteggiamento generalmente rigoristico, in questo caso sostiene l’opinione più moderata, per cui per tutte le donne si deve considerare il momento in cui vi è stata la constatazione personale. La discussione prosegue con diverse opinioni, fino alla terza mishnàh, nella quale si considerano alcune categorie particolari per le quali è certamente possibile un atteggiamento moderato come quello che Shammai propone invece per tutte le donne:
Rabbi Eliezer dice: «Per quattro tipi di donne basta l’ora della loro constatazione: la vergine, la gravida, la donna che allatta e la donna anziana». Rabbi Jehoshua disse: «Io ho sentito solo il caso della vergine». La regola tuttavia segue l’opinione di Rabbi Eliezer.
I quattro tipi considerati avrebbero in comune la rarità o la sospensione del ciclo mestruale, il che giustifica un atteggiamento di minore rigore nei loro confronti. Il lettore avverte subito una stranezza: perché la vergine dovrebbe avere cicli ridotti o assenti, e rappresentare persino, nell’opinione di Rabbi Jehoshua, l’unico caso veramente sicuro? A questa domanda implicita risponde immediatamente la successiva mishnàh, proponendo una definizione assolutamente insolita:
Che cosa s’intende per vergine? È colei che non ha mai visto sangue in vita sua, anche se è sposata [nesuà , nello stato di completo vincolo matrimoniale].
E il Talmùd, nel suo commento a questo strano passo, a spiegare con ulteriori particolari i termini della questione. Il Talmùd Babilonese (Niddàh 8b) spiega che nel linguaggio rabbinico il termine vergine può essere usato per indicare cose diverse, come nella Tosefta di Shevi’ith, 3, dove si dice:
Vi sono tre tipi di vergini: la vergine dell’uomo, la vergine della terra, la vergine del sicomoro. La prima è la donna che non è stata mai posseduta […], la seconda è la terra che non è mai stata lavorata […], la terza è l’albero che non è mai stato potato.
Ma sempre il termine vergine può essere usato in un’accezione differente; il Talmùd cita a ulteriore conferma una baraità, (cioè un insegnamento pretalmudico che non è stato incluso nella redazione della Mishnàh), e che si esprime in questi termini:
I nostri Maestri hanno insegnato: «La donna che si è sposata e a causa del matrimonio (il sangue della deflorazione), o che ha visto sangue a causa del parto, posso ancora chiamarla vergine, perché la vergine di cui si parla è la vergine del sangue (bethulàth damìn) e non la vergine in senso convenzionale (betullàth bethulìm)».
Da tutti questi passi emerge che nel linguaggio rabbinico il termine vergine può essere anche riferito a una condizione di amenorrea primaria, di assenza totale del ciclo mestruale.
I dati forniti dalla mishnàh consentono anche una datazione di questo uso linguistico. La discussione, si è visto, inizia con Shammai, nella generazione che precede l’era volgare. Rabbi Eliezer e Rabbi Jehoshua furono due maestri di punta nella seconda generazione dei tannaìm (= maestri della Mishnàh), che operò nel Sinedrio di Javneh negli ultimi decenni del primo secolo; i due maestri erano già attivi e in posizione di leadership prima della distruzione del Tempio. Si noti, dallo stile del brano, che Jehoshua riferisce una tradizione che ha appreso dai suoi Maestri; quanto a Rabbi Eliezer, da altre fonti, sappiamo «che non disse mai una cosa che non aveva ascoltato dai suoi Maestri» (TB Sukkàh 28a). Dunque questi insegnamenti risalgono almeno alla generazione precedente, nella sostanza e nella forma[10]. Possiamo allora concludere che nella prima metà del primo secolo, proprio ai tempi di Gesù, per «vergine» si intendeva anche la donna che non aveva mai conosciuto le mestruazioni.
5. Vergine «mestruale», pura e infeconda
Quali sono le implicazioni legate alla condizione di «vergine mestruale»? Essenzialmente due, di notevole importanza per la nostra discussione:
1. Il mantenimento di una condizione di purità;
2. La ridotta fecondità, o più semplicemente la sterilità.
II primo dato è ovvio, ed è implicito nella costruzione giuridica del problema. Il rapporto con una donna amenorroica è sempre consentito – nella prospettiva dell’assenza dell’impurità – e tutto ciò che essa tocca – in assenza di altre cause di impurità – rimane puro.
Il secondo dato non è così scontato, perché presuppone delle conoscenze scientifiche che colleghino la mestruazione alla fecondità. Abbiamo comunque delle fonti rabbiniche che documentano la coscienza di questo rapporto. Ascoltiamo questo brano del Talmùd Babilonese, Ketubbòth 10b. Il brano inizia con un episodio che ha per protagonista Rabban Gamliel senior, che è proprio il fariseo Gamaliele citato con riverenza da Paolo, come suo maestro, e che difese gli apostoli nel processo che il Sinedrio celebrò contro di loro (cfr. Atti 5:34 e 22:3).
Un tale si presentò a Rabban Gamliel senior, e gli disse: «Rabbi, ho posseduto la mia sposa ma non ho trovato sangue». E la donna disse: «Rabbi, io sono della famiglia dwrqtj, in cui le donne non hanno né sangue mestruale né sangue verginale». Rabban Gamliel controllò le sue parenti e riscontrò che le dichiarazioni della donna erano vere. Disse quindi al marito: «Prenditi come un merito ciò che hai acquistato; beato te che hai avuto il merito di unirti alla famiglia dwrqtj».
Il Talmùd interviene con una spiegazione linguistica, che suggerisce un’etimologia ebraica per il cognome dwrqtj:
Che significa dwrqtj? Vuol dire dor qatua’ (generazione interrotta).
In realtà l’etimologia ebraica che il Talmùd propone è falsa, e corrisponde alla consuetudine rabbinica di trovare un senso ebraico anche a parole straniere. Il termine è di probabile origine greca, anche se non è molto chiaro quale sia il vocabolo originario. I rabbini lo usano riferito all’uva, con il significato di uva che non fa vino, secca (Jalqut Nasò 1:710); e dall’uva propongono una similitudine con la fecondità femminile, espressa nella Mishnàh di Niddàh (9:11) in questi termini:
Le donne, quando sono vergini, sono come l’uva; c’è l’uva che fa il vino rosso e quella che fa il vino nero; c’è quella che fa tanto vino e quella che ne fa poco. Rabbi Jehudà dice: «Ogni uva produce vino, e quella che non lo produce è dwrqtj».
Il vino in questo caso rappresenta il sangue mestruale, che come vedremo subito avanti, è considerato un indice di fecondità. L’uva che non fa vino è invece dwrqtj. Sembrerebbe a questo punto accettabile la proposta etimologica che collega il termine a trõktè , che riferito a un frutto significa «appetibile»; la donna che non mestrua sarebbe in questa chiave di lettura come una certa uva da dessert, buona da mangiare ma dalla quale non si ricava vino; ma non è comunque una spiegazione definitiva[11]. Non sfugga, in ogni caso, questo particolare impiego rabbinico del collegamento simbolico tra vino e sangue, cha ha radici nella Bibbia ebraica e che la tradizione cristiana sostiene ripetutamente[12]; mentre d’altra parte anche il rapporto tra vite e fecondità femminile (senza allusioni al sangue) ha precisi riferimenti biblici (Salmo 128:3).
Ma torniamo alla prima discussione talmudica in Ketubbòth, che ora riprende le parole di Rabban Gamliel e ne sottolinea l’ambiguità, che oscilla tra l’appetibilità sessuale della dwrqtj e la sua indesiderabilità come donna sterile:
Rabbi Chaninà (amorà , cioè maestro del Talmùd della prima generazione, vissuto in terra d’Israele nella prima metà del terzo secolo) disse: «Rabban Gamliel in realtà all’uomo che gli si era rivolto fece le condoglianze, come sappiamo da questo insegnamento di Rabbi Chijà (fine del secondo secolo):
‘come il lievito abbellisce l’impasto, così il sangue (mestruale) abbellisce la donna’ e ancora apprendiamo da un insegnamento di Rabbì Meir (maestro della Mishnà della quarta generazione, metà del secondo secolo):
‘quanto il sangue mestruale è abbondante così la prole della donna è abbondante’.
Il Talmùd prosegue citando le opinioni di due maestri più tardi, il primo della seconda generazione di amoraìm, vissuto in terra d’Israele, e il secondo della quinta generazione, vissuto in Babilonia; i due dissentono sul senso della espressione usata da Gamliel nel congedare l’uomo:
Rabbi Jermijà bar Abba disse: «Gli disse di prendersi con soddisfazione il suo acquisto».
Rabbi Jossi bar Avin disse: «Gli disse che ormai si era assunto un obbligo». Chi sostiene l’interpretazione negativa, quella dell’obbligo, è d’accordo con l’impostazione di Rabbi Chaninà (citato qualche riga sopra); ma per chi dà un’interpretazione positiva, in che cosa consiste il vantaggio dell’acquisto? Il vantaggio sta nel fatto che con una donna simile non si corre alcun rischio di trasgredire le regole di impurità mestruale.
I termini del problema, alla luce di questo brano (i cui segmenti sono ripetuti in ordine sparso in altre parti del Talmùd), sono pertanto chiari e dimostrati: la «vergine mestruale» è pura e poco o nulla feconda[13].
6. L’anello mancante
Che importanza possono avere tutte queste informazioni in una discussione sulla verginità di Maria? Un’importanza notevole, se si tiene presente che questo punto è generalmente considerato un elemento decisivo di rottura tra la cultura ebraica di origine e il nascente cristianesimo.
Come si è detto in precedenza (§ 2), il concetto di concezione e parto verginale è estraneo alla Bibbia ebraica (a parte il controverso e criticamente dubbio riferimento a Isaia 7:14); non è invece estraneo a varie differenti culture dell’area mediterranea e anche di aree lontane. Sarebbe quindi, in termini di analisi storico-critica, un elemento non ebraico inserito nell’ebraismo, e come tale causa di frattura insanabile. I dati che abbiamo finora raccolto propongono una lettura radicalmente differente. Per comprenderne i termini è bene riferirsi a un dato ben noto: se è vero – nei termini sopra detti – che la Bibbia ebraica non conosce la concezione verginale, è anche vero che questo testo considera numerosi casi di gravidanze «miracolose», nelle quali una donna da molti anni considerata sterile, ottiene il dono di un figlio. Dalle storie dei Patriarchi, nella Genesi, fino ai Giudici e ai Profeti questa situazione è un topos che si ripete in molte generazioni; iniziando con Sara, ormai vecchia e in menopausa (Gen. 11:30); continuando con Rebecca (ibid. 25:21), Rachele (ibid. 29:31); poi con la madre dell’eroe Sansone (Giud. 13:22); quindi con Anna, madre di Samuele (1 Sam. 1-2); con la donna di Shunem graziata da Eliseo (2 Re 4:15); e infine nella celebrazione dei Profeti (Isaia 54:1) e dei Salmi (113:9). La letteratura neotestamentaria non solo non ignora questi dati biblici, ma li ingloba organicamente nel tessuto narrativo. Luca inizia con la storia di una coppia di anziani senza figli, Zaccaria ed Elisabetta, che ricevono l’annuncio dell’arrivo di un figlio, che sarà Giovanni Battista. È un racconto che riprende sistematicamente ed intenzionalmente i motivi delle simili situazioni veterotestamentarie. Così come molti raccordi espliciti o sfumati si riscontrano nel racconto dell’annunciazione e della gravidanza di Maria; il «Magnificat», che essa recita, è chiaramente influenzato dal cantico di Anna in Samuele. Nel Protoevangelo di Giacomo la madre di Maria, non nominata nei Vangeli, è chiamata Anna, come la madre di Samuele[14].
In sostanza Luca vuole inserirsi organicamente nelle radici bibliche che insistono sul tema della gravidanza miracolosa. Ma è lo stesso Luca che compie il salto e su queste premesse inserisce, più o meno apertamente, il motivo della verginità; motivo che solo Matteo esporrà finalmente in termini espliciti.
Provando a questo punto a inserire il dato emerso dalle fonti rabbiniche, si stabilisce una situazione di coerenza impressionante. Si provi cioè a sostituire alla definizione convenzionale di vergine quella alternativa di «vergine mestruale»; a pensare Maria non come la vergine «che non ha conosciuto uomo», ma come la vergine «che non ha conosciuto sangue». In questi termini la sua gravidanza è quella di una giovane ancora sessualmente immatura, che normalmente non potrebbe avere figli, e che invece viene graziata con il dono di una gravidanza. Non c’è più distacco e rottura con l’Antico Testamento, ma il compimento di ciclo: Sara è la prima sterile della Bibbia ad essere graziata, quando ormai vecchia in menopausa è aldilà delle mestruazioni; Miriam compie il ciclo, come giovane prima del menarca, al di qua delle mestruazioni. La coerenza biblica ed ebraica ora è perfetta.
Sarebbe improprio pretendere di trovare a questo punto nella letteratura evangelica canonica o apocrifa delle «conferme» a questa tesi, dato che il tema che sviluppano è ormai sostanzialmente diverso; pure vi sono dei punti che meritano di essere messi in evidenza. Ad esempio va segnalata l’unica espressione che nel Vangelo di Giovanni sembra riferirsi alla concezione verginale: quando nel primo capitolo (v. 13) Giovanni annuncia la nascita attraverso la fede di ogni figlio di Dio, seguendo il modello di Cristo: «non di sangue (uk ex aimàtõn) né di volontà di carne ecc.». Il termine, per quanto sia possibile capirlo in un ambito di estrema difficoltà di lettura, stabilisce una identità tra sangue e nascita normale, ed è notevole il fatto che proprio il sangue sia il simbolo della condizione ordinaria. Il rifiuto del sangue, che è l’elemento centrale e immediato della interpretazione che proponiamo, non si pone in contraddizione con la formulazione giovannea.
A parte questo accenno misterioso, del sangue di Maria non si parla in nessun’altra parte dei Vangeli canonici. Una allusione invece è reperibile nei Vangeli Apocrifi. Nel Protoevangelo di Giacomo (VIII 2) si racconta che Maria venne accolta al servizio sacro nel Tempio di Gerusalemme; ma giunta all’età dodici anni i sacerdoti decisero di escluderla dal servizio, nel timore che potesse contaminare il santuario. Nell’Evangelo della Natività, che è un’opera più tarda, l’età è spostata a quattordici anni, e la decisione è presa dai Farisei (VIII 1). Non c’è dubbio che la contaminazione che si teme è quella derivante dall’impurità mestruale. Il seguito del racconto insiste sulla verginità di Maria, nel senso convenzionale del termine, e non ci dice nulla sull’arrivo della temuta impurità. È comunque notevole la presenza di questa preoccupazione rituale ebraica in un contesto che progressivamente si estranea dalle matrici ebraiche; nell’economia della narrazione il dato ha ancora un ruolo determinante perché promuove il cambio di destinazione di Maria, che dovrà essere data in affidamento, e fissa anche una età in cui ciò avviene. Anche il dato dell’età in cui Maria resta incinta può essere un elemento importante. Nessuna informazione nei Vangeli canonici; mentre qualche dato compare negli apocrifi. È il Protoevangelo di Giacomo a parlarne (XII 3); ma qui si registra una rilevante difformità nelle varianti testuali: dai dieci anni della versione armena, ai dodici della versione siriaca, ai 14 e i 16 delle altre. L’ultima cifra contrasta con quella dei dodici anni dell’uscita dal Tempio, e sarebbe quindi più logica una correzione[15]. Esiste comunque il dato notevole, anche nella versione che parla di un’età di sedici anni, di una età molto giovane; e questa circostanza non va certamente contro la nostra ipotesi[16].
7. Purità e castità, due ambiti da non confondere
La «verginità mestruale», come si è detto, ha oltre alla sterilità un’altra fondamentale implicazione: l’assenza di impurità rituale. Il rilievo di questo dato, nel nostro contesto, mette in luce una distinzione essenziale e chiarisce i termini di una controversia radicale sul problema della sessualità femminile nell’interpretazione religiosa.
Il tema della verginità di Maria, come si è sviluppato nella religione cristiana è in stretto rapporto con una visione tendenzialmente negativa del sesso; il modello della vergine fonda e sostiene, e a sua volta viene arricchito, dall’ideale della castità assoluta e dalla liberazione dai vincoli del sesso.
Nell’ebraismo la vita sessuale è regolata con rigore, e la riservatezza e la modestia sono lodate; ma la verginità e la castità assoluta, sia maschile che femminile, non sono mai state considerate una virtù; anzi l’indirizzo prevalente è di considerare questi atteggiamenti come contrari alla natura umana, sostanzialmente aberranti[17]. La visione «sessuofobica» che il modello di Maria propone è dunque sostanzialmente estranea all’ebraismo, e rappresenta anch’essa un ulteriore salto di qualità, una differenza insanabile.
La questione dell’impurità mestruale è invece un tema essenzialmente ebraico, che l’ebraismo ha conservato attraverso i secoli, e che il cristianesimo invece ha vissuto in forma attenuata e contraddittoria[18]. L’interpretazione della verginità sotto l’aspetto dell’impurità mestruale riconduce il discorso a uno stretto ambito ebraico, mentre il trasferimento alla cultura cristiana lo priva dell’impatto e della potente realtà ebraica dei concetti di impurità-purità che il cristianesimo ha o totalmente eliminato, o attenuato, o cambiato nell’equivalenza e nell’equivoco linguistico impurità-peccato. L’impurità mestruale è una condizione dipendente da cause fisiologiche e non da un comportamento morale; impone restrizioni severe sull’attività sessuale, che sono tuttavia ben diverse dal concetto di «castità». Tuttora, nella pratica rituale ebraica, è prescritto il bagno di purificazione alla fine del periodo dell’impurità. Il cristianesimo ha recepito di tutte queste pratiche ebraiche solo il residuo simbolico del battesimo una tantum, che è un derivato del rito di immersione in acque purificatrici.
Il contrasto di concezioni si può riassumere nei termini di una «sessuofobia» cristiana contrapposta a una «menstruofobia» ebraica. Ma se l’idea di una nascita speciale di Gesù è nata in mezzo a ebrei legati alla propria cultura, è nella seconda prospettiva che va indirizzata la ricerca. E l’ipotesi che discutiamo ci fornisce la chiave di accesso: Maria dunque sarebbe stata libera, a prescindere da qualsiasi considerazione morale, da quel pesante condizionamento rituale che la tradizione biblico-rabbinica riferisce al ciclo mestruale. Alcune precisazioni chiariranno meglio i termini del problema. Dal punto di vista tecnico-rituale la tradizione rabbinica distingue tra i vari tipi di sangue che possono uscire dai genitali femminili: il sangue mestruale, il sangue della deflorazione, il sangue del parto, il sangue di una ferita o di una piaga. Il sangue della deflorazione, si precisa, è puro, non conferisce impurità, non determina – almeno in linea teorica – proibizioni del tipo di quello mestruale. È un’ulteriore sottolineatura della differenza tra attività sessuale e fisiologia mestruale; esiste ben vero un’impurità derivante dal rapporto sessuale[19] ma ha un rigore molto minore di quella mestruale. Quindi parlare di «verginità mestruale» significa non escludere in alcun modo l’attività sessuale, ma soltanto emarginare un aspetto molto rigoroso del sistema di impurità. In analogia al sangue della deflorazione, anche quello di una ferita, sia interna che esterna, è puro[20]. Il sangue del parto richiede un’analisi differente, in quanto il parto, per un preciso dettame biblico, conferisce alla donna una condizione di impurità che impone dei riti speciali (Lev. 12:1-8). Secondo il racconto evangelico (Luca 2:22-24) Maria si sottopone a questi riti, offrendo sacrifici al Tempio di Gerusalemme. La Chiesa continua a celebrare la festa della Purificazione, a ricordo di questo episodio della vita di Maria. In apparenza questa circostanza pone delle difficoltà, se si sostiene la tesi del parto verginale; se tale era stato, che bisogno c’era della «Purificazione»? Generalmente si risponde a questa obiezione sostenendo che l’episodio vuole solo dimostrare la devozione di Maria alle pratiche religiose della sua tradizione. Ma un esame più approfondito delle fonti rabbiniche chiarisce i termini del problema e risolve la contraddizione. L’impurità del parto, per quanto in qualche modo ricordi quella mestruale (Lev. 12:2), è una situazione a sé stante, e non ha niente a che vedere con l’impurità mestruale. I rabbini del Talmùd sostengono che la procedura di purificazione si impone «anche se non c’è stato sangue», anche se il parto non è stato accompagnato da alcuna emorragia. Questa conclusione si riferisce a una discussione sulla possibilità che un parto o un aborto (che segue le stesse regole) possa avvenire senza emorragia; nel linguaggio rabbinico (quando si parla di aborto) si usa l’espressione «è possibile che la tomba (cioè l’utero) si apra senza sangue». Un aborto o un parto di questo tipo è chiamato leda jevishta, «parto secco»[21]. Dunque la purificazione di Maria dopo il parto non ha niente a che vedere con il sangue e l’impurità mestruale, e non interferisce con la nostra ipotesi di «verginità mestruale». Nell’ambito cristiano restano ovviamente aperte tutte le difficoltà legate alla concezione della verginità, che il dogma vuole sia precedente, contestuale e successiva al parto. È una posizione che andando contro l’evidenza naturale, molto più dell’idea stessa del concepimento verginale, richiede un forte impegno di fede. Imprevedibilmente, l’ipotesi che proponiamo fornisce una soluzione razionale anche a questa difficoltà. Riprendiamo una citazione discussa in precedenza (§ 4 a p. 748), e che parla della «vergine mestruale»:
La donna che si è sposata e ha visto sangue a causa del matrimonio o che ha visto sangue a causa del parto, posso ancora chiamarla vergine…
La donna è ancora vergine nel senso che non ha il suo ciclo mestruale; e tale rimane anche dopo il parto. Non c’è nulla di straordinario in questa definizione, che debba richiedere un impegno di fede; è solo un cavillo, una stranezza giuridica, conseguenza di una definizione inconsueta. Se dunque Maria era una «vergine mestruale», tale rimase anche durante il parto, senza particolari sforzi teologici, e solo in conseguenza di un banale artifizio giuridico-lessicale; e tutto questo non nell’ambito della castità e dell’astinenza, ma in quello della purità rituale.
8. Il segno della caduta
Il discorso della purità rituale non si ferma a questo punto, ma offre ulteriori possibilità di approfondimento. Il problema della nascita verginale è strettamente collegato, nella teologia cristiana, alla concezione del peccato originale e della maledizione e della caduta dell’uomo. Maria assume il ruolo di «novella Eva», che ripara alla colpa primordiale. Nell’evoluzione della riflessione teologica si sviluppa, fino a diventare recentemente dogma, l’idea dell’immacolata concezione, secondo la quale la stessa Maria nasce immune dal peccato originale.
È interessante ora verificare quanto di tutte queste concezioni possa essere implicito nell’idea alternativa di «verginità mestruale». Considerando le fonti ebraiche, è necessario premettere che non esiste alcuna formulazione precisa ed organica comparabile con l’idea cristiana del peccato originale. Vi è un’ampia discussione su questo tema, spesso diretta polemicamente proprio contro la concezione dell’Apostolo Paolo. Solo alcuni Maestri ammettono la trasmissione di una colpa, e contemporaneamente ne sostengono la limitazione temporale. In testi più recenti si arriva a sostenere che la nascita dell’uomo dalla donna è necessaria per liberarlo dalla punizione che riceverebbe inevitabilmente da Dio se fosse creato da Lui stesso direttamente, allo stesso modo di Adamo[22] . Con tutte queste riserve si può tuttavia mettere in evidenza una linea interpretativa che riferisce alla colpa di Adamo ed Eva delle conseguenze negative nella vita attuale dell’uomo. È possibile dimostrare che il tema dell’impurità mestruale si ricollega strettamente a questa concezione più generale.
Una prima linea interpretativa emerge nei vari commenti alla maledizione di Eva in Genesi 3:16. Il verso letteralmente dice:
alla donna disse: moltiplicherò il tuo dolore e la tua gravidanza (o il dolore della tua gravidanza); partorirai figli con dolore, desidererai il tuo uomo ed egli ti dominerà.
Numerose interpretazioni rabbiniche interpretano la ridondanza della prima espressione (dove anche il «moltiplicherò» è ripetuto due volte in ebraico) come riferita ai vari aspetti della sessualità femminile. Nel Targùm Jerushalmì, in Bereshith Rabbà (20:15), e nello Jalqùt Shimonì (1:31), con lievi varianti testuali, il «dolore» o la «gravidanza» sono riferiti alle mestruazioni[23] . In un’altra linea di esegesi tradizionale si elencano nove o dieci maledizioni della donna, che iniziano appunto con il sangue mestruale e il sangue verginale. In una delle numerose fonti in proposito l’interpretazione è attribuita a Rav Izchaq bar Avdim, amorà babilonese della terza generazione (circa fine del terzo secolo). I commenti medievali e rinascimentali continuano a sostenerla[24]. In queste interpretazioni tuttavia non sembra che la mestruazione assuma una specificità, né che si sottolinei il suo aspetto particolare di impurità; sembra piuttosto evocata come un fastidio e un dolore. Diverso è il caso della discussione che accompagna una mishnàh di Shabbath (2:6), nella quale si dice che:
A causa di tre trasgressioni le donne muoiono quando partoriscono; perché non sono attente all’osservanza delle regole di impurità mestruale, al prelievo dell’offerta sacerdotale sui farinacei, e all’accensione del lume sabbatico.
Si tratta di tre pratiche rituali la cui osservanza è delegata specificamente alle donne, e per questo motivo ne hanno una responsabilità particolare. Questo ragionamento suscitava non poche perplessità, e quindi dei tentativi di spiegazione. Riferendosi a questa situazione,
Chiesero a Rabbi Jehoshua: «Perché alla donna è stato dato il precetto dell’osservanza dell’impurità mestruale?» Rispose: «Le fu dato perché fu lei a spargere il sangue di Adamo». (Bereshith Rabbà 17:13).
Il Maestro che viene interrogato è lo stesso che usava il termine «vergine» nell’accezione mestruale, nella seconda metà del primo secolo (cfr. al § 4). Secondo Rabbi Jehoshua l’impurità mestruale era una sorta di punizione per contrappasso della morte procurata ad Adamo dal peccato di Eva. La strana formulazione, che parla di spargimento di sangue, si chiarisce nelle altre versioni di questo testo, che omettono il nome del Maestro:
Il Signore, che sia benedetto, disse: «Lei ha versato il sangue di Adamo, e quindi è condannata allo spargimento del suo sangue, come è detto – chi versa il sangue dell’uomo (Adam in ebraico) nell’uomo sia versato il suo sangue (Gen. 9:6) faccia quindi attenzione alla sua impurità mestruale, che le sia di espiazione per il sangue che ha versato» (Jalqùt Shimonì 1:571, con varianti anche 1:31).
In questa visione la specificità femminile dell’impurità mestruale[25] ha una funzione punitiva ed espiatrice della morte procurata ad Adamo e all’umanità con la colpa di Eva. È una concezione già presente nella seconda metà del primo secolo. In questa luce si può pensare che una donna amenorroica non porta in sé i segni della punizione; è un’ammissione che comporta un certo margine di ambiguità, perché se manca la punizione, manca anche la possibilità di espiazione. Questo secondo aspetto però viene naturalmente compensato dal fondamentale concetto cristiano per cui ogni espiazione viene caricata su Gesù. In sostanza quindi, anche la «verginità mestruale» ha un preciso rapporto con l’idea del peccato di Adamo, e può significare che Maria non ne porta le conseguenze.
Le implicazioni di questa tesi si chiariscono ulteriormente con altre fonti. L’impurità mestruale, per il suo carattere ciclico e la possibilità di correzione (a differenza dell’impurità derivante dal cadavere), diventa un modello del rapporto contrastato ma sempre sanabile tra Dio e il popolo ebraico:
Pertanto il Signore, che sia benedetto, paragona l’impurità d’Israele a quella mestruale (il riferimento è a Ez. 36:17), perché chi ne è impura si può purificare; allo stesso modo in futuro il Signore benedetto purificherà Israele, come è detto: «verserò su di voi acque pure e sarete puri» (Ez. 36:25) (Jalqùt ibid.).
In questa lettura l’assenza di impurità mestruale è un segno escatologico del rinnovato rapporto tra Dio e Israele.
Un altro midràsh, sempre nella stessa pagina, parla di sospensione del ciclo mestruale:
Quando gli ebrei stavano in Egitto, le loro donne non vedevano sangue per la paura degli Egiziani. Ma anche dopo l’uscita dall’Egitto, nel deserto, continuarono a non vedere sangue, perché in mezzo a loro si posava l’immanenza divina. E furono le donne le prime a ricevere la Torà, come è detto: «Così dirai alla casa di Giacobbe» – e sono le donne – e poi il verso prosegue: «e dirai alla casa d’Israele» – e questi sono gli uomini (Es. 19:3[26]).
L’amenorrea riceve in questo brano una doppia motivazione: il terrore dell’oppressore (ed è un concetto in qualche modo corretto anche fisiologicamente), e la presenza del sacro, particolarmente intensa. Nel momento in cui Israele entra in rapporto diretto con la Shekhinàh, l’immanenza divina, le sue donne sospendono il loro ciclo. C’è quindi un’evoluzione parallela con l’ideologia cristiana; la purezza verginale di Maria è il presupposto per la sua unione con lo spirito santo, come l’amenorrea delle donne ebree nel deserto è la premessa per una ierogamia collettiva, che a sua volta è un modello anche in prospettiva escatologica.
Anche la tradizione mistica si è occupata di questo argomento, anche se verosimilmente si tratta di elaborazioni molto più tarde. Nello Zohar, il testo principale della mistica ebraica, che la tradizione attribuisce al tanna Shimòn bar Jochai, del secondo secolo, e la critica attribuisce invece a Mosè de Leon, ebreo spagnolo della seconda metà del XIII secolo, le origini dell’impurità mestruale sono discusse, tra l’altro, in questi termini:
Nel momento in cui il forte serpente si scuote in alto per i peccati del mondo, si posa e si unisce alla Donna, e vi pone una sporcizia, e il Maschio se ne allontana perché è impura, ed è chiamata impura e non si addice al Maschio avvicinarsi a Lei, perché guai se si rendesse impuro quando Lei è impura […].
Ventiquattro tipi di impurità il Serpente instillò nella donna quando si unì a lei, come il valore numerico della parola weevàh (‘e odio’ – Gen. 3:15), e 24 tipi si svegliano in alto e altrettanti in basso. (III 79a).
Tentando di decodificare il complesso simbolismo di questo passo, alla luce dei commenti, i concetti che emergono sono questi: l’impurità mestruale è concepita come una conseguenza del rapporto della donna con il serpente; la sua realtà naturale, è il simbolo di una situazione che si verifica nel mondo sefirotico. La Donna di cui si parla ora è l’ultima Sefirà, la Malkhùt, (il Regno), che comprende due aspetti differenti e contrastanti: l’aspetto severo, della giustizia, e l’aspetto misericordioso, mediato dalla Sefirà della Binàh. Solo quando questo aspetto si mostra e prevale è possibile il flusso di energia dalle Sefiròt superiori (il Maschio) verso il basso, e quindi il flusso di bene nel mondo. L’impurità mestruale è il simbolo della prevalenza dell’altra condizione, in cui si stabilisce una interruzione ed è pericolosissimo il contatto tra Sefiròt superiori e inferiori. Nell’ambito di questo simbolismo, la condizione di purità mestruale viene a rappresentare il Regno pronto a ricevere la pienezza delle energie superiori che attraverso esso arriveranno al mondo. È ben chiara la coerenza e l’importanza di questa ulteriore elaborazione nella nostra analisi.
Un dato importante da sottolineare in questa evoluzione è come gli stessi simboli siano ora riferiti all’insieme delle donne d’Israele, ora alla comunità d’Israele nel suo complesso, vista come una figura femminile in rapporto a Dio, e ora – nel pensiero mistico – all’ultima Sefirà (che è il Regno, ma è anche chiamata Immanenza o Comunità d’Israele) e che ha spiccate caratteristiche femminili in rapporto alle Sefiròt superiori. Questa evoluzione corre parallelamente e con molte analogie simboliche nelle elaborazioni teologiche cristiane della figura di Maria[27]. Il dato ebraico della purità/impurità sembra inserirsi in questo confronto come una discriminante molto significativa.
Ma a questo punto è opportuna una riflessione più attenta sull’atteggiamento cristiano nei confronti dell’impurità mestruale in generale e i suoi rapporti con il peccato originale, in particolare. Non è una situazione che possa essere definita con semplicità, perché i termini del problema sono nel mondo cristiano piuttosto contraddittori. Infatti da un lato si segnalano posizioni riduttive e tendenti all’eliminazione del problema, che viene confinato nei suoi aspetti meramente fisiologici; ed è una tendenza che va da Gregorio Magno a Tommaso d’Aquino. Dall’altro lato è presente una linea teologica e canonica che dà risalto all’impurità mestruale, la considera una situazione negativa e di rischio, proibisce di conseguenza i rapporti sessuali in quel periodo, ed arriva ad emarginare le donne in stato mestruale dalla somministrazione dei sacramenti. È stato anche supposto che l’esclusione dal sacerdozio femminile nella Chiesa sia appunto legata all’impurità mestruale. Più specificamente la fisiologia femminile della riproduzione, dalla mestruazione all’allattamento, è stata considerata da alcuni Padri della Chiesa (tra cui S. Girolamo e S. Agostino) una conseguenza e una punizione per il peccato di Eva. La verginità è stata inserita in questa concezione ed esaltata come un mezzo per evitare le conseguenze della caduta, in quanto la verginità risparmia i dolori della gravidanza e la soggezione del marito. D’altra parte, nel pensiero più radicale, l’esaltazione della pratica ascetica si giustifica anche nel risultato dell’amenorrea, e quindi nell’eliminazione di un segno materiale della colpa di Eva[28].
La valutazione di queste concezioni in rapporto a quelle ebraiche di cui abbiamo parlato sopra è certamente problematica. È difficile negare l’esistenza di un rapporto tra i due mondi, sotto forma di derivazioni, influssi e scambi reciproci. Vanno tuttavia segnalate delle differenze e delle particolarità; una prima, essenziale, è nella concezione stessa dell’impurità, che nel mondo ebraico ha connotazioni rituali molto specifiche; d’altra parte non si può certo escludere, negli autori cristiani che affermano l’impurità mestruale, anche la pesante influenza del pensiero non ebraico sull’argomento, che aveva trovato in Plinio una delle espressioni più chiare[29]. Si pone inoltre il problema di distinguere nelle fonti cristiane (come anche in quelle ebraiche che avevamo sopra discusso) – se vi sia e quale sia realmente un ruolo specifico nell’impurità mestruale come segno della caduta, o se invece questo sia considerato solo un elemento del processo riproduttivo, maledetto nella sua globalità.
Ammessa pure la presenza di una concezione cristiana che riconosce specificità al problema mestruale, si può cautamente avanzare l’ipotesi che si tratti, nel mondo cristiano, di un residuo di una concezione legata a quella della verginità mestruale; in altri termini che l’idea della mestruazione come maledizione sia stata strettamente legata a quella della verginità mestruale di Maria, immune per nascita dalle conseguenze della colpa. È un’ipotesi stimolante che tuttavia richiede ulteriori conferme.
A parte queste considerazioni, la tesi della «verginità mestruale» appare in ogni caso idonea a risolvere semplicemente delle questioni teologiche estremamente intricate e complesse. Esiste ad esempio un problema essenziale, che sorge
se si considera, come hanno fatto alcuni padri, l’intero processo riproduttivo, dalle mestruazioni all’allattamento, una punizione per la Caduta. Se Maria con l’Immacolata Concezione fu preservata dalle conseguenze della caduta, allora […] si potrebbe mettere in dubbio la piena umanità di Gesù […]. Una soluzione impossibile a questo problema […] sarebbe quella di respingere il tradizionale pregiudizio cristiano rifiutando l’idea delle mestruazioni come «maledizione» e considerandole una condizione esistente già nel Paradiso terrestre […]. Una via di scampo più frequente consiste nell’affermare che è l’effetto e non la causa la punizione e il segno del peccato originale: sicché […] le contrazioni ed il fastidio e non le mestruazioni in sé, sono i risultati della colpa di Adamo[30].
Nella concezione di «verginità mestruale», dove l’amenorrea è segno di assenza della conseguenza della colpa, e dove la gravidanza è solo il miracolo di guarigione della sterilità, in un rapporto altrimenti normale ed umano, il problema non si pone neppure e non richiede alcuna particolare distinzione teologica, mentre restano salvi i concetti di umanità di Gesù e assenza di macchia in Maria.
9. La vergine è un golem
A questo punto l’analisi principale è terminata; ma prima delle conclusioni è opportuno inserire qualche elemento aggiuntivo. Nell’evoluzione del pensiero cristiano la verginità è stata idealizzata ed esaltata come condizione originaria, integra e perfetta; secondo S. Ambrogio, per una ragazza perdere la purezza equivaleva a «cancellare l’opera del Creatore»[31]. Gli esegeti cristiani dei primi secoli percorsero la Scrittura alla ricerca di allusioni alla virtù verginale, e ritennero di averle trovate nelle immagini dell’orto serrato e della fonte sigillata del Cantico (4:12) o della porta serrata in Ezechiele (44:2), o del vaso d’oro della manna (Esodo 16:33). L’integrità fisica veniva associata o assimilata alla purezza spirituale. Anche l’esegesi ebraica non ignorava questi passi, in particolare quello del Cantico, ma insisteva più sul sul tema del rispetto della morale sessuale, che su quello della assoluta castità[32]. Se si vuole avere però il segno reale dell’opposizione tra i due mondi, ma anche aprire una serie di interrogativi nuovi nuovi sulla posizione rabbinica sulla verginità, non si può fare a meno di prendere in considerazione questo brano paradigmatico e, per molti versi, ancora misterioso:
Rav Shemuel bar Unia disse a nome di Rav: «La donna è un golem, e si allea soltanto con colui che l’ha trasformata in un oggetto compiuto (kelì), come è detto – Poiché chi ti possiede, è Colui che ti crea ecc. (Isaia 55:5) –» (TB, Sanhedrìn 22b).
Per comprendere questo insegnamento sono necessarie alcune spiegazioni preliminari. Il Maestro che lo riferisce è un personaggio di difficile identificazione, forse un amorà babilonese della seconda generazione[33]; è in ogni modo ben nota la personalità a nome di cui parla, Rav, che fu il Maestro della prima generazione degli amoraìm babilonesi (prima metà del terzo secolo). La massima viene inserita in un brano in cui si discute e si esalta l’esclusività e l’eccezionalità del rapporto che si stabilisce tra due coniugi; il nostro passo esalta il particolare rapporto che lega la donna al suo uomo. Golem è un termine che nel linguaggio rabbinico indica il corpo senza anima, la materia senza forma; oggi è un termine noto anche all’esterno dell’ebraismo perché nell’evoluzione dei simboli è arrivato a rappresentare il «robot» ebraico, l’incarnazione del mito della possibilità dell’uomo di creare dalla materia degli esseri viventi[34]. «La donna è un golem» secondo Rav, prima di essere posseduta; la perdita della verginità la trasforma in un oggetto completo, formato, ed in virtù di questa trasformazione la donna stabilisce un legame affettivo esclusivo con l’uomo che ha promosso il suo perfezionamento. L’insegnamento è accompagnato da un riferimento scritturale; è un brano del profeta Isaia che paragona Israele a una donna ste- rile che viene beneficata da Dio. Rav spiega che colui che possiede la donna è anche colui che la finisce di creare, e non solo colui che l’ha creata all’inizio, secondo il senso letterale del verso.
Il riferimento a Isaia chiarisce il duplice piano su cui si sviluppa l’insegnamento:
– il primo piano è quello del semplice rapporto tra uomo o donna, nel quale si stabilisce il principio della imperfezione e incompletezza della condizione verginale, in termini che sembrano assolutamente antitetici alla idealizzazione che contemporaneamente l’ideologia cristiana sta elaborando di questa condizione.
– il secondo piano, sottolineato dai commentatori (come ad es. Eidels), riprende il riferimento a Isaia, ed è quello del rapporto tra Dio e Israele: il senso è che solo nel momento in cui Dio sceglie Israele, lo libera dalla schiavitù e gli impone la sua Torà, e quindi metaforicamente ne diventa lo sposo e il padrone, cioè «possiede» Israele (tutti questi significati sono compresi nella radice verbale di ba’al), solo allora Israele arriva alla compiutezza e perfezione, mentre prima era solo una massa informe. La perdita della verginità diventa il simbolo di questo passaggio storico-religioso, è il simbolo dell’elezione. A questo punto dell’analisi sembrerebbe incolmabile la frattura tra la concezione ebraica e quella cristiana della verginità convenzionale, quando alla primitiva opposizione nelle valutazioni della funzione sessuale si aggiunge il peso di una complessa simbologia. Questo tipo di insegnamenti spiegano ancora di più perché e come la tesi convenzionale della verginità di Maria sia stata inaccettabile per ebrei legati alla loro tradizione, e sempre più estranea. Tuttavia è possibile che il detto di Rav non esaurisca il suo significato nelle due interpretazioni (personale e collettiva) che abbiamo proposto. C’è qualche serio sospetto che dietro ad una forma così apertamente di opposizione e di rottura si celi un mondo simbolico assai più complesso; non è affatto inconsueto che formulazioni rabbiniche in apparenza del tutto chiare nascondano una tradizione esoterica. Il dubbio si pone approfondendo le implicazioni del termine golem, di cui Rav si serve. Perché golem non è solo ciò che si è detto; è anche la metafora della condizione di Adamo nel primo suo giorno di vita. In questa condizione, secondo alcuni insegnamenti talmudici e midrashici, Adamo avrebbe avuto la visione delle generazioni future, e avrebbe avuto un potere occulto, che traeva la sua forza dalla terra da cui aveva avuto origine, e che gli avrebbe permesso di afferrare e comprendere; è come se in Adamo golem si fosse raccolta la forza dell’intero universo. Questa concezione risentirebbe di idee circolanti in ambienti gnostici, che parlano di un’anima tellurica di Adamo, e di un mistico connubio tra Dio e la terra[35].
È molto difficile stabilire con precisione se e quanto di queste concezioni siano nascoste nell’insegnamento di Rav. Allo stato attuale delle conoscenze e delle possibilità di ricerca, siamo solo al livello delle ipotesi. Ciò che si può supporre è che l’immagine della condizione verginale come golem sia l’espressione in forma femminile dello stesso concetto del connubio divino con l’Adamo tellurico, che era appunto un golem. E ciò può avere diverse implicazioni, in varie direzioni e prospettive: ad esempio in un ambito gnostico-giudeo-cristiano vi sarebbe una rilettura mitica della concezione verginale di Maria, come ierogamia divina con un nuovo golem, che rinnova la creazione. Altrimenti l’accostamento golem-vergine potrebbe essere collegato con il mito della caduta, dato che il golem rappresenta la condizione che precede la caduta; e in questa chiave la perdita della verginità diventa il segno dell’uscita dall’Eden, e dell’ingresso dell’uomo e della donna nella storia; e quindi i termini simbolici ebraici dell’opposizione verginale non sarebbero solo semplicemente quelli di imperfetto/perfetto, ma anche quelli di naturale-originario-tellurico/culturale-integrato-pienamente umanizzato. Ne deriva in pratica una sollecitazione a pensare l’opposizione tra le concezioni ebraica e cristiana sulla verginità, ormai apparentemente opposte, in termini meno polarizzati e con la disponibilità a considerare il peso non del tutto indifferente di sfumature, differenze minori e perfino di convergenze.
10. Il tentativo di razionalizzazione
Si è solitamente portati ad immaginare l’opposizione ebraica alla concezione verginale nei termini dell’incredulità o, peggio ancora, nella forma di calunnie nei confronti di Maria, che l’opposizione pagana, quella ebraica dei tempi talmudici e quella più lunga dei secoli successivi avrebbero espresso in varie forme leggendarie; secondo queste calunnie non solo Maria non sarebbe stata vergine, ma Gesù sarebbe nato da un adulterio consumato coscientemente o incoscientemente da Maria[36]. Eppure dovrebbe essere possibile pensare almeno per il primo-secondo secolo a delle dinamiche differenti, a discussioni, verifiche e contestazioni non tanto dure e brutali. Un esempio di questo tipo credo lo si possa identificare in questo strano brano talmudico:
Chiesero a Ben Zomà: «Una vergine rimasta incinta, può essere sposata da un Gran Sacerdote? Si può forse ammettere l’ipotesi di Shemuèl, che diceva che poteva avere numerosi rapporti con vergini, senza farle sanguinare, o forse questa un’eventualità del tutto non comune?».
Gli rispose: «L’ipotesi di Shemuèl non è comune, ma si ammette che la vergine sia rimasta incinta nella vasca da bagno» (TB Chaghigà 14b).
Anche per questo passo sono necessarie numerose spiegazioni. La prima è formale, e si impone quando si considera l’epoca dei due personaggi menzionati. Ben Zomà insegnò agli inizi del secondo secolo, mentre Shemuèl operò circa un secolo dopo. Questo tipo di anacronismi è comune nello stile talmudico, che ricostruisce ad arte delle discussioni, appiattendo la prospettiva storica, perché, ogni volta che gli è possibile, preferisce all’apparente anacronismo il privilegio di attribuire un determinato insegnamento, ad un personaggio noto, anche se l’insegnamento è a lui antecedente e il personaggio l’ha solo trasmesso. Quindi il brano va letto in questo modo: «Chiesero a Ben Zomà ecc.: “Si può ammettere l’ipotesi (che sarebbe stata espressa successivamente a nome di Shemuèl), che è possibile avere rapporti ecc.”? Gli rispose: “Tale ipotesi non è comune ecc.”».
Il problema si pose quindi agli inizi del secondo secolo, ed era già un problema del tutto teorico; si discuteva della possibilità del Gran Sacerdote di sposare una vergine (cfr. §§ 2 e 3) quando è incinta; ma il Gran Sacerdozio era una carica in vigore solo ai tempi del Santuario, che fu distrutto nel 70 dell’e.v. Oltre ad essere teorica, la discussione è veramente strana; in realtà il vero problema è quello della definizione legale della verginità alla luce della possibilità di una gravidanza in stato di verginità «tecnica». La discussione ammette due soluzioni: un rapporto «morbido» che rispetta l’imene, ma ciò viene considerato come un’eventualità non comune; la soluzione che viene invece ammessa è quella che la donna abbia fatto il bagno in una vasca dove prima un uomo aveva avuto una perdita di liquido seminale.
Da altri punti di vista viene notato che questo brano sarebbe la fonte storica più antica sulla possibilità di inseminazione e gravidanza senza rapporti sessuali; e oggi questa fonte talmudica è il punto di partenza nelle discussioni giuridiche sulla inseminazione artificiale[37]. Ciò non fa che confermare la stranezza dell’antica discussione giuridica. Sul piano leggendario la tesi si trasformò poi in un «caso» nella leggenda della nascita del Ben Sirà (il Siracide) dal profeta Geremia e dalla figlia di lui, rimasta innocentemente incinta con il seme del padre dopo il bagno fatto nella stessa vasca[38].
Sul piano giuridico la discussione del brano è stata molto articolata, perché non sono chiare le premesse e le conclusioni. La tesi interpretativa prevalente è che essendo possibile una gravidanza senza rapporti, la vergine che in tal modo resta incinta è consentita al Gran Sacerdote. Altre implicazioni del problema sono sottolineate dal commento di Rabbenu Chananel (di origine romana, fine del X secolo); secondo questi la discussione talmudica si proporrebbe di verificare se esistono i presupposti per applicare la norma biblica di Lev. 12:2, che parla dell’impurità del parto, derivante da una «semina» (ishà ki tazria’); solo con un rapporto, secondo questa interpretazione si realizzano i presupposti della «semina», mentre l’eventualità dell’inseminazione nella vasca è considerata un evento assolutamente fuori dal comune, un nes, un miracolo.
In tutte queste discussioni il problema della verginità di Maria non è neppure accennato. Ma sorge il sospetto che la nota talmudica rifletta in qualche modo le discussioni religiose sulla possibilità della concezione verginale. Il sospetto diventa più forte davanti a un preciso dato comparativo, un mito zoroastriano che non doveva essere ignoto ai maestri del Talmùd: i tre Salvatori, che compariranno per compiere l’opera di Ohr mazd, sono figli di Zaratustra, il cui seme è stato depositato nel fondo del lago Kasaoya, dove una vergine, per tre volte a distanza di un millennio, bagnandosi nelle sue acque, ne resterà incinta e diverrà madre vergine di un Salvatore (EdR 6:406). Alla luce di questi dati la discussione talmudica potrebbe essere considerata come un tentativo ebraico di razionalizzazione del mito (è veramente possibile una gravidanza verginale?) in cui il «modello zoroastriano» fornisce una versione di nascita speciale, ma ancora legata ai meccanismi naturali della procreazione.
11. Il «figlio della mestruata»
Come è noto, l’atteggiamento ebraico nei confronti della verginità di Maria non fu sempre così razionale e rispettoso; Gesù fu per molti secoli presentato come mamzer, cioè bastardo, figlio di un rapporto adulterino. In realtà molte fonti ebraiche si preoccuparono di tutelare l’innocenza di Maria, e ciò che sembra a prima vista un’accusa scurrile, è in realtà la ripetizione di un antico mito sulla eccezionalità delle origini di personaggi speciali[39].
Accanto all’accusa di mamzer , nei testi più recenti (a partire dal VI secolo) delle Toledòth Jeshu, le leggende ebraiche su Gesù, ne compare un’altra, che qualifica Gesù come «figlio di mestruata» (ben haniddàh). Allo stato attuale delle nostre conoscenze la notizia più antica sulla circolazione ebraica di questo motivo risale al 1476, ed è contenuta nei verbali del processo di Trento per l’accusa di omicidio rituale del piccolo Simonino:
Christus ex adultera natus et quod fuerat exginta tempore quo menstrua patiebatur[40].
Da tempo i critici hanno segnalato come la doppia qualifica di «bastardo e figlio di mestruata» sia comparsa per la prima volta in un brano della Massekheth Kallàh (2:1), una compilazione ebraica dell’ottavo secolo. È un brano in cui alcuni Maestri – stranamente gli stessi Eliezer e Jehoshua citati sopra al § 3 – (attivi nella prima metà del secondo secolo) attribuiscono l’insolenza di un ragazzo alle sue origini impure. Si tratta molto verosimilmente di una attribuzione postuma e falsa, e quindi la datazione del brano va di molto posticipata. In ogni caso in questo brano non si parla di Gesù, ed è perlomeno incerto che a lui si riferisca in modo allusivo. Nella letteratura polemica di molti secoli dopo questo brano comunque è stato ripreso e integrato nelle storie di Gesù. Abbiamo in pratica a partire dall’ottavo secolo la qualifica di «figlio di mestruata» applicata polemicamente agli insolenti, e che forse allude anche a Gesù, e dal XV secolo (ma c’è motivo di ritenere che sia molto più antico) un sicuro riferimento di questa accusa alle origini di Gesù. Bisogna ora chiedersi che senso abbia questa accusa, e vi sono diverse risposte possibili. Una prima è dovuta al rapporto che la tradizione ebraica stabilisce tra un carattere traviato e la condizione materna impura. È la versione ebraica di un’idea molto più ampia e diffusa, sulla natura corrotta dei figli di mestruate; la tesi circolante nell’antichità attribuiva a questi figli malattie come la lebbra; solo nel XVI secolo alla lista delle malefiche conseguenze si aggiunse quella della mostruosità[41]. La tesi sostenuta nei testi ebraici appare precedere nel tempo questi sviluppi rinascimentali, ed è molto più contenuta nell’esposizione delle conseguenze, che sono solo un difetto morale e non un’alterazione fisica. Il discorso si potrebbe esaurire a questo punto: le storie su Gesù avrebbero attribuito a questi l’origine «mestruale» solo perché una tradizione rabbinica riconosce ai nati in queste condizioni un carattere insolente e irrispettoso; l’insolenza congenita di Gesù sarebbe stata il presupposto per il suo atteggiamento ribelle e irrispettoso nei confronti dell’autorità della tradizione e dei Rabbini. Tuttavia tutto ciò che è stato finora messo in evidenza sul concetto di gravidanza e di verginità «mestruale» suggerisce un’interpretazione alternativa di questo motivo. Oggi molti critici sostengono che le accuse delle storie ebraiche su Gesù non nascano dal nulla, ma che siano delle precise rielaborazioni, in chiave polemica, di motivi presenti in tradizioni cristiane note o ancora ignote, ortodosse o eretiche. Proprio questa sarebbe oggi la particolare importanza delle Toledòth Jeshu come fonte per riscoprire, al di sotto dell’incrostazione polemica, un mondo religioso cristiano ancora inesplorato[42]. In questi termini si può supporre che l’accusa rivolta a Gesù di essere «figlio di mestruata», per quanto compaia tardivamente nei documenti, sia la risposta polemica a una concezione alternativa della verginità di Maria, che si è sviluppata nelle linee che finora abbiamo tracciato; a qualcuno che pensava che Maria avesse concepito Gesù in stato di assoluta purità mestruale, le Toledòth replicavano brutalmente con una tesi opposta; non solo Maria non era vergine amenorroica, ma Gesù era stato concepito proprio nel periodo dell’impurità mestruale. Dunque questo motivo potrebbe costituire una indiretta conferma della tesi alternativa sulla verginità, che si è tentato di ricostruire.
12. Conclusioni
L’esame di alcune fonti ebraiche dei primi due secoli dell’era volgare ha consentito di mettere in evidenza i termini reali della discussione e della divergenza ebraica sul tema della verginità di Maria, e soprattutto ha mostrato la possibilità di una concezione ebraica della verginità molto diversa da quella convenzionale. Vergine è colei che non ha mai visto il sangue mestruale; e come tale è libera dalla impurità rituale e contemporaneamente infeconda. Una donna in queste condizioni non porta in sé le conseguenze della caduta di Eva; una sua gravidanza è un evento miracoloso, ma il figlio che nasce conserva una natura umana. Persistendo la condizione di amenorrea, anche dopo il parto la donna rimane vergine. In questi termini l’idea di un concepimento e di un parto verginale è perfettamente coerente con le concezioni ebraiche dell’Antico Testamento e della cultura rabbinica. Non comporta alcun salto qualitativo rispetto a questo mondo ebraico, né pone particolari difficoltà teologiche da risolvere con complicate analisi e distinzioni. Non interferisce in particolare con la visione biblica e rabbinica della funzione sessuale, e quindi non porta con sé alcuna conseguenza idealizzante della castità assoluta. È una soluzione perfetta per degli ebrei che mantengono un rapporto di profondo rispetto con la propria tradizione e i propri riti, ma che contemporaneamente credono alle origini speciali e miracolose di Gesù. È invece una soluzione incomprensibile per un gentile – che sa poco o nulla dei riti ebraici sull’impurità rituale – e soprattutto di scarso impatto psicologico, sia sul piano razionale che su quello emotivo. Un gentile del primo o del secondo secolo, quando sente parlare di concepimenti miracolosi o di parti verginali possiede su questi punti una ben ampia e diversa preparazione mitologica.
La concezione alternativa della verginità è ricostruibile solo indirettamente attraverso le fonti ebraiche, mentre nella letteratura cristiana se ne possono trovare solo tracce non significative. Non abbiamo quindi al momento attuale alcuna certezza della sua eventuale esistenza. D’altra parte c’è il dato dell’impressionante coerenza di questa teoria, come concezione ebraicamente non eterodossa per ebrei che credono in Gesù. Se questa teoria è stata veramente elaborata, essa appare come la soluzione di fede ideale per la primitiva «Chiesa della Circoncisione», cioè di quel primo gruppo di ebrei, fedeli alla loro tradizione, che iniziarono a credere in Gesù. La diffusione del cristianesimo tra i gentili portò in tempi molto brevi all’isolamento e quindi all’emarginazione anche violenta di questo tipo di esperienza sociale e religiosa di giudeo-cristianesimo; la fedeltà alle forme religiose e alle credenze dell’ebraismo rabbinico divenne assai presto incompatibile con la fede cristiana, per una pressione esercitata contemporaneamente sui giudeo-cristiani dai due poli opposti dell’ebraismo tradizionale e del cristianesimo delle genti[43].
L’assenza di notizie sull’interpretazione alternativa della verginità di Maria può essere spiegata come un risultato della fine dell’esperienza dei primi giudeo-cristiani, per i quali questa concezione della verginità poteva costituire un punto non marginale della loro fede; ma era ormai troppo per gli altri ebrei che si ponevano criticamente rispetto a Gesù, ed era troppo poco per gli altri cristiani con il loro modello «forte» e trionfante di verginità. In questa chiave interpretativa tuttavia la primitiva concezione della verginità conserva una enorme importanza storica, perché rappresenta l’anello di congiunzione finora considerato mancante tra la cultura veterotestamentaria e rabbinica da un lato, e quella del cristianesimo dall’altra.
Riccardo di Segni
Collegio Rabbinico Italiano, Roma
[1] La citazione è da S. Giustino, Dialogo con Trifone, a cura di G. Visonà, Milno 1988, cap. 67, pp. 231-32. Il tema della concezione verginale è discusso nel Dialogo ai capp. 43, 66, 67, 69, 71 e 84. La bibliografia sulla verginità di Maria è vas ma; un elenco importante di titoli è in Enciclopedia delle Religioni (= EdR), Firenze 1970, vol. 6, col. 178-79. Tra le opere consultate per questo lavoro segnalo in pa colare: G. Delling, Theologisches Woerterbuch zum Neuen Testament (nella traduz. italiana Grande lessico del Nuovo Testamento, Brescia 1974, vol. 4), alla voce parthenos ; S. De Fiores – S. Meo (a cura di), Nuovo Dizionario di Mariologia, Milano 1986 alla voce “Vergine”; D. Edwards, The Virgin Birth in History and Faith, London 1941; R.M. Grant, Miracle and Natural Law in Graeco Roman and Early Chris Thought, Amsterdam 1952; J. Gresham Machen, The Virgin Birth of Christ, York-London 1930; C.G. Jung – C. Kerenyi, Essays on a Science of Mithology. Mithology of the Divine Child and the Divine Maiden, New York-Evanston 1863; Knox, Some Hellenistic Elements in Primitive Christianity, London 1944, pp. 2 (sulle possibili origini ebraiche del tema della nascita speciale); M. Warner, Sola fra le donne. Mito e culto di Maria Vergine, Palermo 1980, pp. 54-55. I testi rabbinici che vengono discussi in questo articolo non compaiono nel fondamentale H.L. Strack – P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, 7 voll., Muenchen 1922 (seconda ediz. 1961). L’unica citazione – peraltro parziale – che sono stato in grado di trovare è in J. Massingberd Ford, The Meaning of ‘Virgin’, in “New Testament Studies”, 12, 1965-66, pp. 293-99, dove però l’interpretazione proposta è limitata all’identità verginità = età giovanile.
[2] Cfr. S. Mandelkern, Veteris Testamenti Concordantiae, Jerusalem-Tel Aviv, 1971, pp. 242-243.
[3] Cfr. Bereshith Rabbà 60:5. La stessa ridondanza è presente in Giud. 21:12. Il «non aver conosciuto uomo», con particolare riferimento a Num. 31:17, viene inter- pretato in TB Jevamoth 60b nel senso di «non essere in grado di conoscere uomo», di non poter subire rapporti sessuali, perché il corpo non è sufficientemente cresciuto; l’età limite è fissata a tre anni, il che rende inapplicabile questa interpretazione al nostro contesto.
[4] parthenos en, aner ouk egno auten (Genesi 28:16); andra ou gignosko (Luca 1:34).
[5] La stessa ambivalenza di significati, che oscilla tra l’integrità sessuale e la giovane età, si riscontra nei testi accadici e ugaritici; la dea Anath, che non era vergine in senso stretto, è sovente indicata come btlť; in testi aramaici di Nippur si usa betulata parlando di una gravida che non può partorire. Cfr. Encyclopedia Judaica, vol. 16, s.v. «Virgin, Virginity».
[6] Per una sintesi sui complessi problemi interpretativi di questo passo cfr. A.M. Rabello, Effetti personali della «patria potestas», Milano 1979, pp. 346-349. Il concetto di «fidanzamento» richiede un chiarimento. Il diritto biblico e, successivamente, quello rabbinico, contemplano due momenti distinti di consacrazione del vincolo matrimoniale; il primo detto erusin o qiddushin, che stabilisce un legame valido che può essere sciolto con il divorzio, e che è già sottoposto ai rigori del divieto di adulterio, ma che ancora non consente la coabitazione; il secondo, detto nissuin, che sancisce una unione completa. Il primo termine viene impropriamente tradotto con «fidanzamento», e questo espone a diversi equivoci interpretativi. Tra i due momenti, in passato, potevano trascorrere periodi di tempo molto lunghi, di mesi o di anni; oggi le due consacrazioni vengono celebrate in successione immediata. La situazione descritta da Matteo 1:18 (mnesteutheises tes metros autu Marias) corrisponde con ogni verosimiglianza al periodo di attesa tra le due celebrazioni; la circostanza è confermata in Luca 1:27 quando parla di «vergine fidanzata» (parthe non [m]emneustemenen); sono gli stessi verbi usati dai Settanta in Deut. 22:23, 25, 27 (parthenos memneustemene).
[7] Per una sintesi esauriente dei riferimenti bibliografici essenziali, cfr. Talmudic Encyclopedia, Jerusalem 1973, vol. V, col. 4-7, alla voce «bethula».
[8] La Mishnàh di Sotàh 3:4 enumera diversi tipi di ipocriti che ostendando falsa religiosità distruggono il mondo, e tra questi cita la «donna farisea» (o che ostenta astensioni); il Talmud di Gerusalemme (ibid.) aggiunge «la vergine che digiuna, e che a causa del digiuno deperisce al punto tale di perdere la verginità»; non è ben chiaro che cosa significhi qui perdere la verginità; probabilmente si riferisce alla mancata emorragia che dovrebbe accompagnare la deflorazione; il digiuno sarebbe un pretesto per coprire un passato ben diverso. Nel Talmud Babilonese si parla invece della «vergine che sta sempre a pregare» (Sotàh 22a); cfr. anche Tosafot, ibid., capov. kol sheeno. Sul celibato maschile si veda avanti alla n. 17.
[9] Cfr. Levitico 15:19-33, 18:19, 20:18, Ezechiele 18:6.
[10] La tradizione rabbinica è detta Torà orale perché almeno fino alla redazione finale della Mishnàh alla fine del II secolo non fu messa per iscritto ma trasmessa solo oralmente con precisi sistemi mnemotecnici e nel rispetto assoluto della forma del testo. Cfr. per un’introduzione generale E.Z. Melamed, An Introduction to Talmudic Literature, Jerusalem 5733-1973, pp. 1-60; M. Elon, Jewish Law, Jerusalem 1978, in part, il cap. XXVIII. Nel caso particolare che discutiamo bisogna tuttavia rispondere a una importante obiezione. I due Maestri che usano il termine «vergine» in questa particolare accezione sono noti anche per i loro rapporti non pacifici con alcuni cristiani. R. Eliezer in età avanzata dovette subire un processo da parte delle autorità romane, con l’accusa di eresia – probabilmente cristiana – e ne uscì scagionato; e il Maestro, che si rammaricava per un’accusa che considerava ingiusta, attribuì la sua disavventura alla disponibilità che in tempi remoti aveva dimostrato nel recepire uno strano insegnamento di Gesù (TB ‘Avodàh Zaràh 16b-17a; Tosefta Chullin 2:24; Midrash Qoheleth 1:18). Di R. Jehoshua (ben Chanania) il Talmud racconta l’attività polemica contro le varie sette, e in particolare uno scontro davanti all’autorità romana con un cristiano che rinfacciava agli ebrei l’abbandono da parte di Dio (TB Chagigàh 5b). Vi è della diffidenza da parte di alcuni critici ad accettare come genuine questo tipo di notizie (cfr. J. Maier, Jesus von Nazareth in der talmudischen Ueberlieferung, Darmstadt 1976); ma se queste hanno comunque un fondamento storico, come è più probabile, sorge il sospetto che i due Maestri abbiano usato il termine «vergine» in forma atipica per polemizzare contro i cristiani. Ma è un sospetto che va respinto per due motivi: il primo è che sarebbe comunque molto strano che entrambi abbiano osato modificare le forme espressive ricevute per tradizione solo per fare della polemica, e in un modo tanto indiretto; il secondo motivo è che questa accezione della verginità, per quanto contrasti quella dogmatica, può comunque offrire una solida base per una interpretazione sacrale del concepimento di Maria (come si dimostrerà nei paragrafi successivi); e pertanto è strano che i due Maestri, animati da un intento polemico abbiano voluto sacralizzare in qualche modo le tesi dei loro oppositori. In definitiva quando i due hanno parlato di verginità hanno solo riferito asetticamente degli insegnamenti ricevuti, senza intenti polemici.
[11] L’etimologia di trokte sembra facilitata da varianti testuali che propongono twrtj; è proposta nel dizionario talmudico di M. Jastrow; l’altro dizionario talmudico classico, di J. Lewi, suggerisce invece trygete, nel senso di «secco». Nella traduzione dei Settanta trigetes sta per batzir, vendemmia; e trygetos per qatzir, vendemmia e raccolta. La radice verbale di trigao indica la vendemmia, il che rende possibili molte soluzioni, che però difficilmente concordano con l’accezione rabbinica particolare, che certamente, almeno in partenza, indica l’uva secca e poco spremibile. Il verbo ricorre nei Vangeli in Luca 6:44 e Apoc. 14:18-19. Un’altra possibile soluzione è con l’aggiunta di un’alfa iniziale per cui avremmo atrugetos-e che significa infecondo, sterile (e ben si accorderebbe con il senso traslato) e atrygetos-e che nella traduzione dei Settanta sta per zakh, termine riferito in Es. 27:28 all’olio, con il significato di «senza feccia», quindi «puro», «limpido». Tra tante ipotesi differenti non sembra lecita alcuna conclusione definitiva.
[12] Nella Bibbia ebraica si segnala tra le altre l’immagine del «sangue dell’uva» in Gen. 49:11 e Deut. 32:14, e quella del torchio di Edom in Isaia 63. Nella tradizione cristiana si propone la fondamentale identificazione dell’eucarestia; ma cfr. anche il simbolismo di Giov. 15:1 e di Apoc. 14:14. Sull’interpretazione patristica cfr. Giustino, op. cit. capp. 54, 63, 76. Su questo tema cfr. N. Frye, Il grande codice, Torino 1986, pp. 202-203.
[13] In effetti l’unico passo che ammette per questa donna una possibilità di gravidanza è la baraita di Niddah citata al paragrafo 4, e che sarà ulteriormente discussa al paragrafo 7. Non c’è una contraddizione assoluta, perché si ammette una possibilità, sia pure remota, di concepimento. L’idea ha anche una sua coerenza biologica perché è possibile che il menarca sia preceduto da una ovulazione, e quindi che avvenga un concepimento in quest’occasione, senza precedente mestruazione. La regola stabilita nella suddetta baraita fu codificata da Maimonide in Jad – Issure Biàh 9:5 e Mishkav umoshav 4:11. Sui rapporti tra ciclo e fecondità potrebbe avere qualche rilevanza l’attenzione che vi ponevano gli esseni non celibatari, secondo Giuseppe Flavio, La Guerra Giudaica, 8:13, dove il brano in questione sembra richiedere una correzione testuale; cfr. L. Moraldi, I manoscritti di Qumran, Torino 1971, p. 62 (cfr. anche più avanti nota 17).
[14] Cfr. Enciclopedia delle Religioni, vol. 2 alla voce «Evangeli dell’Infanzia», 1393 ss. con ampia bibliografia p. 1398; cfr. anche Warner pp. 29-32. L’uso patristico del tema della concezione della sterile è documentato in Giustino, op. cit. c. 84. Anche nel mondo greco viene citato un caso di concepimento di una sterile, guarita da Asclepio, ma la stessa interpretazione della fonte è controversa, cfr. Delling, op. cit., col. 769-770.
[15] Cfr. E. De Strycker, La forme la plus ancienne du Proto Evangile de Jacques, Bruxelles 1961, p. 121; A.M. Di Nola, Vangeli Apocrifi, Roma 1979, p. 181 n. 3. Non è improbabile che le varianti testuali sull’età del temuto menarca di Maria riflettano il dato della variabilità dell’età menarcale in differenti epoche e contesti sociali; cfr. in proposito C. T. Wood, The Doctors Dilemma: Sin, Salvation and the Menstrual Cycle in Medieval Thought, in «Speculum», 56 (1981), pp. 710-727 n. 33. Un indiretto riferimento cristiano alla possibile impurità (anche mestruale) di Maria è il reperto archeologico riferito al miqveh, il bagno rituale di cui si sarebbe servita Maria, nella chiesa della Annunciazione a Nazareth, e come tale mostrato ai visitatori dai custodi francescani; sulle curiose implicazioni teologiche di questo dato, cfr. Wood, op. cit. p. 723.
[16] Sempre a proposito dell’età che dalla logica del testo apocrifo sembra più coerente collocare intorno ai dodici anni, va segnalata l’importante distinzione rabbinica tra la condizione di na’aràh, letteralmente ragazza, e quella di boghereth, lett. adulta. Il periodo dell’età della na’aràh è il primo semestre dopo il compimento dei dodici anni e la comparsa dei segni della pubertà, e solo in questo periodo si applicano le norme bibliche che parlano di na’aràh. Tra l’altro si sostiene che la verginità vera (nel senso convenzionale del termine) è solo quella della na’aràh perché dopo «la sua verginità finisce» (TB Jevamoth 59a) cioè «si riduce un poco» (Tosafoth, ibid.); non è più la stessa di prima. Per spiegare questo concetto i commenti medievali suppongono che si tratti o di una minore emorragia al momento della deflorazione o di un allargamento dell’imene dovuto alla crescita. Cfr. TE voi. 2 alla voce boghereth. Tutto ciò però non significa, come tenderebbe a dimostrare Massingberd Ford, op. cit., la semplice identità tra vergine e na’aràh. Sempre a proposito dell’età si segnala l’affermazione talmudica (TB Jevamoth 12b) per cui la gravi- danza non è mai possibile prima degli undici anni di età; tra gli undici e i dodici è possibile ma la madre muore con il feto; dopo i dodici anni è possibile normalmente. Secondo altre voci una gravidanza sarebbe possibile anche prima dei dodici anni (cfr. TB ibid. 80b e TE vol. 5 alla voce ghedolàh col. 173-174 e n. 81).
[17] Nel pensiero rabbinico di epoca tannaitica «un uomo che non ha una donna non è un uomo» (TB Jevamoth 63a), e chi non si riproduce «è come se spargesse sangue» o «è come se diminuisse la somiglianza divina dell’uomo» (ibid. 63b). Per la codificazione medievale di questi concetti, cfr. Maimonide, Jad – Deoth, cap. 3. In contrasto con questa linea abbiamo nell’epoca tannaitica un caso isolato di rabbino asceta – Ben Azzai – che per amore della Torà si separa dalla moglie e non procrea; ma soprattutto si segnala un’esperienza comunitaria di celibato maschile, nell’ambito del movimento essenico. Ne parlano Giuseppe Flavio nella Guerra Giudaica (II 8:2 e 13) e nelle Antichità (II 18), Filone (nel De vita contemplativa, ove si riferisce ai Terapeuti, con notizie di difficile interpretazione critica – cfr. Enciclopedia delle Religioni vol. 5 col. 1753-1756) e Plinio (Naturalis historia V. XV, 73); queste notizie hanno avuto riscontro della Regola qumranica trovata nella documentazione del Mar Morto. Il celibato essenico era riservato ad alcune sezioni, e non all’intero movimento. È molto dubbio che abbia potuto influenzare almeno inizialmente la nascente comunità cristiana, che apparentemente non era celibataria (cfr. A. Soggin, I manoscritti del Mar Morto, Roma 1978, pp. 190). Questi dati da soli non consentono in alcun modo di sostenere che il modello verginale femminile proposto come ideale dal cristianesimo sia derivato dall’esperienza essenica. Tanto più se si considera – secondo le parole di Flavio – che la condanna del matrimonio propria di alcuni gruppi essenici non era assoluta, ma era vissuta come una difesa dalla licenziosità delle donne. Nel gruppo che praticava il matrimonio si proibivano i rapporti durante la gravidanza, per sottolineare lo scopo puramente riproduttivo del sesso (Guerra 8:13; cfr. la strana analogia con Matteo 1:25). Su questi temi cfr. anche A. Marx, Les racines du celibat esseniens, in «Revue du Qumran», 7 (1970), pp. 327-342; L. Rosso Ubigli, Alcuni aspetti della concezione della «porneia» nel tardogiudaismo, «Henoch», 1, 1970, pp. 201-245.
[18] Cfr. avanti alla nota 27.
[19] Cfr. Levitico 15:18, e anche Esodo 19:15 e 1 Samuele 21:5-6.
[20] Mishnàh Niddàh 1:16; cfr. TE alla voce dam bethulim vol. 7 col. 456-466; TB Niddàh 66a. TE vol. 7 col. 521-522. È importante segnalare a questo punto come i concetti di amenorrea primaria e verginità possano essere associati nella convinzione per cui il vero flusso mestruale abbia inizio solo dopo la deflorazione. Probabilmente all’origine di questa convinzione, che sembra diffusa a livello etnologico, sta il dato della precoce età nuziale in alcune società e culture. Ancora nel XII secolo Ildegarda di Bingen sosteneva che il flusso della vergine era quasi irrilevante (quasi guttae de venis) a differenza della donna non più vergine; cfr. R. Piazza, Adamo Eva e il Serpente, Palermo 1988, p. 110. Nelle fonti rabbiniche è chiara l’idea della comparsa della mestruazione indipendentemente dal rapporto sessuale; cfr. ad es. Mishnah, Niddàh 10:1.
[21] TB Niddàh 21a-b, Kerethoth 10a; Rashi a Lev. 12:1.
[22] Cfr. E.E. Urbach, The Sages, their Concepts and Beliefs, Jerusalem 1971 (in ebraico), pp. 371-384. L’ultima interpretazione è riportata nel commento biblico di ChJ.D. Azulai, Nachal Qedumin, Livorno 1926, a Lev. 12:2.
[23] Indicate con il termine ‘jddui come in Isaia 64:5. Secondo Jastrow sarebbe invece la gravidanza stessa.
[24] Cfr. TB ‘Eruvin 100b, Jalqut 1:31, Avoth de Rabbì Nathan 1:7, Pirqé Rabbi’ Elizer fine cap. 14; Ba’al haTurim e Sforno a Genesi 3:16.
[25] È da segnalare che secondo alcune fonti midrashiche non solo le donne, ma anche gli uomini avevano perdite mestruali, che per gli uomini erano solo un fastidio inutile, mentre almeno quelle femminili erano in rapporto con la funzione riproduttiva. Fu con Rachele, che disse «ho il corso delle donne» (Gen. 21:35), che la mestruazione divenne una prerogativa esclusivamente femminile (Jalqut Shim’onì 1:571). È ben difficile una corretta interpretazione del significato di questo strano midrash in assenza di altri dati; potrebbe esprimere una posizione polemica nei confronti della tesi sostenuta da R. Jehoshua.
[26] Jalqut ibid.; l’idea della precedenza femminile nella ricezione del decalogo si trova ancora anche altrove, come in Shemoth Rabbà 28:2. Il motivo dell’amenorrea sembra invece presente solo in questa omelia. L’ignoto autore cerca una conferma in alcune espressioni del Cantico, di cui dà un’interpretazione assolutamente originale, in questa sequenza logica:
– ajumàh (in Cant. 6:4 e 10), generalmente reso come «terribile», viene spiegato (più correttamente dal punto di vista grammaticale) come un passivo, nel senso di «terrorizzata», e si riferisce al terrore che gli egiziani incutevano sulle donne ebree;
– gan na’ul («orto chiuso», ibid. 4:12) viene riferito all’utero chiuso al flusso di sangue, durante la permanenza nel deserto;
– gal na’ul («onda, fonte chiusa», ibid.) è proiettato in chiave escatologica, per indicare l’onda purificatrice che in futuro monderà Israele, come nel già citato verso di Ez. 36:25. Si noti il particolare sviluppo dell’interpretazione dell’orto chiuso, motivo caro alla simbologia mariana. Su questo punto v. avanti al paragrafo 9. Secondo altri midrashim, invece, le donne in Egitto mestruavano; la piaga del sangue fu inflitta agli egiziani perché appunto impedivano alle donne ebree i riti di purificazione: Shemoth Rabbà 9:9 e Jalqut 1:182.
[27] Cfr. G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Torino 1980, pp. 133-138; per la parte cristiana, EdR, vol. 4, alla voce «Maria e mariologia», in partic. alle col. 164-166 e bibliografia alla col. 174, n. 7.
[28] Cfr. J. M. Aubert, La femme. Antifemminisme et christianisme, Paris 1978, in part. pp. 120 e 203; I. Raming, Der Auschluss der Frau von priestirlichen Amt. Gottewolte Tradition oder Diskriminierung, Wien 1973, p. 80 e ss. Cfr. anche Warner, op. cit., pp. 84, 100-104, con particolare riferimento a Gregorio Magno. Per Tommaso d’Aquino cfr. Summa, III q. 31 art. 3. Cfr. anche EdR alla voce «Monachesimo femminile» e in partic. la bibliografia in vol. 4 col. 641-642 con l’elenco dei canoni conciliari. Importanti contributi sul tema della sessualità femminile nei primi secoli dell’era volgare sono A. Rousselle, PORNEJA De la Maîtrise du corps a la privation sensorielle, Paris 1983; G. Sfameni Gasparro, Enkrateia e antropologia, Roma 1984.
[29] Naturalis historia VII 5:
[30] La citazione è da Warner, p. 291.
[31] Exhortatio Virginitatis, cit. in Warner, op. cit., p. 101.
[32] Cfr. i commenti al Cantico in Shir haShirim Rabbàh 4:12 e paralleli, che riferiscono queste espressioni alle virtù delle nubili e delle donne sposate durante la schiavitù egiziana; in italiano è disponibile la traduzione del Targum del Cantico, che ripete lo stesso tema: cfr. A.A. Piattelli, Targum Shir Ha-Shirim, Roma 1975, pp. 52-53 e U. Neri, Il Cantico dei Cantici, Roma 1987, pp. 131-132. La possibile lettura ierogamica o verginale della «porta chiusa» di Ez. 44:2 viene invece evitata nei rari commenti classici che ne parlano: cfr. Avoth deRabbi Nathan 34:5 e Jalqut 2:162; David Qimchi (Radaq) (1160-1235) nel suo commento biblico combatte decisamente l’interpretazione verginale.
[33] Cfr. M. Margalioth, Encyclopedia of Talmudic and Geonic Literature, vol. 2, s.v.
[34] G. Scholem, op. cit., pp. 200-257.
[35] Ibid. pp. 205-210.
[36] L’opera critica classica sull’argomento è S. Krauss, Das Leben Jesu nach judischen Quellen, Calvary, Berlin 1902, ristampa anast. Georg Olms, Hildesheim-New York, 1977; aggiornamento in G. Schlichtung, Ein juedische Leben Jesu. Die schollene Toledot-Jeshu – Fassung tam u-mu’ad, Tübingen, 1982, e nel mio Il Vangelo del Ghetto, Roma 1985.
[37] Cfr. A. Steinberg (a cura di), Assia, Jerusalem 1979, p. 129; M. Stern (a di), Medicine in the Light of Halachah, vol. I, Jerusalem 1980, pp. 1 ss. della seconda parte, con la raccolta di tutte le fonti rabbiniche.
[38] Cfr. le fonti cit. in Stern, op. cit. a p. 7; L. Ginzberg, The Legends of the Jews, VI, p. 401, 1946. Si noti che il nome esteso del Siracide è Shim’on ben Jeshua comunemente semplificato in Jeshu (come l’equivalente ebraico di Gesù) ben Sirà.
[39] Cfr. ne Il Vangelo del Ghetto cit., a pp. 113-132, con aggiornamenti nella relazione Le origini di Gesù nelle Toledoth Yeshu, al convegno «Le Récit des Ori dans l’Espace Mediterraneen», Carcassonne 2-3-4 dicembre 1988, in corso di pubblicazione.
[40] La testimonianza è conservata nell’Archivio Storico di Trento, Archivio Principesco Arcivescovile, sez. lat. cassa 69 n. 163. È in corso l’edizione integrale degli atti del processo tridentino, a cura di Anna Esposito e Diego Quaglioni; sta per uscire il primo volume, relativo agli imputati maggiori. Sono grato a Anna Esposito e Diego Quaglioni che mi hanno segnalato anticipatamente questa testimonianza e mi hanno consentito di pubblicarla. Sul processo di Trento cfr. tra l’altro G. Volli, Contributo alla storia dei Processi Tridentini del 1475, in «La Rassegna Mensile di Israel», 31 (1965), pp. 570-578; W.P. Eckert, Il Beato Simonino negli «atti» del Processo di Trento contro gli ebrei, in «Studi Trentini di Scienze Storiche», 44 (1965), pp. 193-221; Battista de’ Giudici, Apologia ludaeorum. Invectiva contra Platinam. Propaganda antiebraica e polemiche di Curia durante il pontificato di Sisto IV (1471-1484), a cura di D. Quaglioni, Roma 1987.
[41] Cfr. O. Niccoli, «Menstrum quasi monstrum»: parti mostruosi e tabù mestruali nel ‘500, in «Quaderni storici», 44 (1980), pp. 402-28.
[42] Cfr. i testi citati in n. 36, e inoltre, in particolare, E. Bammel, Christian Origins in Jewish Tradition, «New Test. Stud. 13», pp. 317-35.
[43] Cfr. EdR voi. 3 alla voce «Giudeocristianesimo», col. 427-436; per aggiornamenti ulteriori F. Rossi de Gasperis, Israele o la radice santa della nostra fede, in «Rassegna di Teologia», 1980, pp. 1-15 e 116-24; J. Danielou, La Teologia del giudeo-cristianesimo, Bologna 1987.