Nonostante se ne parli molto, il pensiero messianico è secondario nella fede ebraica.
Yeshayahu Leibowitz 1903-1994
Un grande storico inglese ha definito la Storia come “La cronaca dei crimini, delle follie e delle tragedie del genere umano”. Ciò che ha detto Edward Gibbon è vero ma non è completo: certo la Storia è tutto questo ma è anche la cronaca della lotta del genere umano contro i crimini, contro le follie, e contro le tragedie. Queste infatti hanno origine dalla natura del creato e dello stesso genere umano perciò combatterle richiede all’uomo, sia come singolo e come collettività, uno sforzo enorme in quanto deve opporsi a tale natura; si tratta cioè della lotta dell’uomo contro se stesso; una lotta antica quanto la Storia umana, che deve necessariamente continuare costante in tutti i tempi. Impariamo inoltre, sia dalla Storia e sia conoscendo l’uomo e la natura, come in questa lotta non esista certezza di vittoria ma sono gli sforzi impiegati nella lotta che costituiscono certamente la vera sostanza del significato e del valore della Storia stessa.
In ogni generazione assistiamo al fallimento degli sforzi dei singoli o della società nella correzione delle proprie storture, ma questo non ci deve condurre affatto allo sconforto od al nichilismo nei confronti della Storia. Non è il risultato che conta bensì lo sforzo impiegato nel raggiungerlo. In altre parole non possiamo giudicare la Storia secondo gli avvenimenti che vi si svolgono, dal momento che questi sono del tutto indifferenti ad un giudizio di valore (‘Olàm keminhagò nohèg – il mondo segue una propria logica) bensì dobbiamo giudicare la Storia secondo le intenzioni, i fini e gli sforzi degli esseri umani che agiscono nel contesto di tali avvenimenti.
Nel campo della fede religiosa esiste poi la profonda distinzione tra (il compiere un precetto) lishmà – senza alcun interesse, e shelò lishmà – con un interesse secondario, tra la concezione della posizione dell’uomo al cospetto di Dio dal punto di vista delle aspettative che l’uomo ha dall’ ‘Avodat Hashèm – servizio divino al fine di soddisfare i propri bisogni ed i propri desideri (ovvero di correggere il mondo o anche l’umanità), contro la concezione della stessa posizione intesa stavolta come riconoscimento dell’obbligo umano al servizio divino, nel mondo così com’è, dal momento che il servizio stesso ne costituisce di per sé il fine ultimo.
Così nello studio della Storia: dalle parole di molti sembra quasi che il loro rapporto con essa sia determinato dalla fede nell’esistenza nella Storia di una causa immanente che la trascini verso uno scopo determinato, cioè verso il “bene”. Al contrario si può esprimere una concezione che non riconosca affatto un fine ultimo insito nel processo storico, ma che lo giudichi tramite lo sforzo degli uomini verso il “bene”, anche se tale sforzo risulta poi eterno dal momento che il “bene” non è raggiungibile.
Contrariamente all’opinione corrente, lo studio della Storia biblica non ci riserva un esempio concreto di Dio che stabilisce un fine al corso della Storia.
A prima vista, molti avvenimenti sono presentati come ma’asé ha-Shèm – atti divini, ma con questo non ne viene indicato il significato, dal momento che l’esistenza del mondo, la natura e la sua intima logica interna sono essi stessi degli “atti divini” e non rivelano nessuna attribuzione di un fine a tale logica.
Fondamentalmente il racconto biblico non è che la cronaca dei fallimenti, delle delusioni e delle frustrazioni nella Creazione e nella Storia.
Il mondo stesso che sembra essere destinato ad essere metukkàn – immune da difetti (“E tutto ciò era molto buono”) è presentato come il fallimento, se così si può dire, del suo Creatore, e si arriva a dire ciò che non avremmo avuto il coraggio di dire, se non fosse stato detto: “E Dio si pentì di aver creato l’uomo” …
… Lo stesso con l’uscita dall’Egitto il cui scopo NON viene raggiunto durante la generazione di coloro che vi parteciparono, dal momento che anche il ma’amàd – evento del monte Sinai e il mattàn – concessione, della Torà NON portarono alla realizzazione dello scopo al quale erano destinati cioè (alla formazione del) “Regno di sacerdoti e popolo distinto”.
Nemmeno la conquista della Terra d’Israele da parte della seconda generazione e la sua colonizzazione NON portarono a tale realizzazione, così come il Santuario, destinato ad essere “Luogo della Tua residenza in eterno” divenne invece “Grotta di selvaggi” e fu distrutto. Così pure la dinastia della casa di David della quale era stato detto “Il tuo trono sarà stabile in eterno” NON perdurò. Ed anche la profezia NON riuscì a correggere né Israele né il mondo.
La conclusione della Storia biblica, degli “atti divini” nei confronti di Israele e degli altri popoli non è che un mondo in cui 127 nazioni e i loro rispettivi popoli vengono a trovarsi sotto il dominio di una banda di ubriachi e lussuriosi!
Dov’è allora l’elevatezza e la grandezza della Storia biblica? Questi sono costituiti dall’insegnamento che l’uomo, come singolo o come società, è ripetutamente costretto al servizio divino; che questo ultimo costituisce la correzione propria e del mondo e che se anche questo fallisse in ogni generazione, non si è liberi di affrancarsene.
La Bibbia ci rivela la Storia come un imperativo posto all’uomo in ogni generazione e non come l’adempimento di tale imperativo e nemmeno come il progresso nell’adempimento.
Ma ancor di più; nella concezione di “Dio nella Storia” caro a tanti credenti, che riconoscono negli avvenimenti storici l’intervento divino (ètzbà’ Elokìm – il dito di Dio) si può ravvisare una terribile riduzione della fede in Dio. Tali credenti infatti non servono Dio secondo la Sua natura divina, che risulta essere ben oltre la realtà contingente del mondo e del genere umano, bensì credono a Lui secondo la funzione che essi stessi gli attribuiscono nei confronti dell’umanità. Il loro Dio non è Dio di per sé stesso ma lo è solo in quanto “manager” delle attività umane, una specie di dio al servizio dell’uomo. Tale è l’essenza della fede shelò lishmà, simile al cristianesimo, il cui Dio si rivela in sembianze umane e si sacrifica per la redenzione del genere umano.
C’è chi pensa che i miracoli, o la fede nei miracoli che si sono realizzati, siano la base della fede religiosa. Essi si basano sullo studio della Storia biblica che è essenzialmente costituita da avvenimenti storici prodigiosi che mutarono la realtà considerata “normale” o “naturale”, e nei quali l’intervento diretto di Dio nelle faccende terrene apparve concretamente a singoli o al popolo. Questo intervento è il “dito di Dio”, e proprio per suo tramite Dio si rivela all’uomo.
Tuttavia l’attenzione agli avvenimenti miracolosi descritti nella Torà e nei libri dei profeti distoglie da un principio generale in grado di attribuire un significato a tutti questi particolari. La chiave di volta della Storia biblica non è la fede basata sulle rivelazioni divine nella Storia, ma anzi la dimostrazione dell’inutilità dei segni, dei prodigi e delle rivelazioni miracolose, come mezzo per la formazione della fede e come via per la conoscenza di Dio.
La yad chazakà – mano forte e il morà gadòl – i grandi atti terribili manifestati da Dio di fronte a tutto il popolo ebraico non lo portarono alla fede. E a questo non servirono neppure la concreta liberazione divina dell’uscita dall’Egitto, né la miracolosa marcia nel deserto, né la conquista della Terra d’Israele.
Non servì nemmeno la rivelazione sul monte Sinai della Shekhinà – Presenza divina: le stesse persone che “Videro il Dio di Israele… ebbero la visione del loro Dio” pretesero una divinità e si fecero il Vitello d’oro.
Tutti i profeti che sorsero in Israele, tramite le cui bocche parlava la Shekhinà, e ai quali venne concessa la capacità di predire il futuro e di operare prodigi, NON riuscirono redimere una sola persona. Anche quando si avverarono le profezie cariche di violenza profferite da Geremia, il popolo non lo riconobbe come profeta mandato da Dio. E se coloro i quali beneficiarono dei miracoli, testimoni oculari della rivelazione divina, testimoni della voce di Dio, NON credettero, come è possibile che la fede delle generazioni seguenti sia basata su tali miracoli?
Già il Maimonide ci mise in guardia: “Tutti i prodigi non sono reali se non per chi li osserva, e se successivamente il loro ricordo sarà raccontato, chi ascolta probabilmente negherà.” Figuriamoci quindi se chi li ha visti non vi crede!
Ma nonostante tutto ciò conosciamo dalla Storia il fatto incredibile di decine di generazioni di ebrei, tra i quali migliaia e non solo rare eccezioni, che conservarono la fede in Dio e nella Torà fino al sacrificio estremo, la propria vita. E si parla di generazioni durante le quali NON si era rivelata la Presenza divina, NON furono testimoni di miracoli, per le quali NON sorsero profeti e NON sperimentarono la liberazione divina, ma ciò nonostante ebbero fede. Quindi i segni e i prodigi verificatisi nel corso della Storia, cioè nella realtà oggettiva dell’uomo, non hanno certo lo scopo di far avvicinare la conoscenza di Dio alla coscienza dell’uomo, la realtà soggettiva.
Il re che si presentò nel periodo biblico al popolo ebraico come salvatore e grande conquistatore, che “Riportò il confine di Israele da Chamàt fino al mare dell’Aravà” e che “Restituì Damasco e Chamàt al Regno di Giuda di Israele” (oltrepassando così i confini della “grande Israele”!) fu Geroboamo figlio di Yoàsh, che “Non si risparmiò tutte le colpe di Geroboamo figlio di Nabàt” e che “Fece peccare il popolo ebraico”; questi regnò nello sfarzo e nella grandezza ben 41 anni. Mentre invece il pio re Giosia, che ebbe il merito di far conservare il ricordo della Torà al popolo ebraico, fu ucciso barbaramente anzitempo durante una sconfitta militare, e con lui scomparve l’indipendenza del Regno di Giuda.
Così appare la provvidenza divina nella Storia e da questa certo non si può arrivare alla fede religiosa.
Al contrario: solo una profonda fede religiosa può aiutarci a sopportare la Storia così come si svolge nel mondo creato da Dio, comprendendo che “il mondo segue una logica propria”, e che in un siffatto mondo, così com’è, l’uomo ha l’obbligo di servire il Signore.
Ma allora la storia di quali azioni compiute da ebrei, ha valore religioso? Secondo la fede non esiste che una sola risposta a tale domanda: L’atto che abbia valore religioso è quello compiuto subito leshèm Shamàyim – nel nome del Cielo (disinteressatamente), comprese le conseguenze di tale intenzione. Mentre invece tutto quello che è stato fatto al di fuori di questa intenzione rientra nel concetto “il mondo segue una logica propria” ed è totalmente indifferente agli occhi della religione: appartiene alla natura ed alla Storia del mondo così come è stato creato da Dio affinché seguisse la sua propria “logica”.
La guerra degli Asmonei aveva sì un significato religioso e infatti stabilendo (la ricorrenza di) Chanukkà ne abbiamo affermato la Kedushà – Santità, poiché in effetti fu una guerra che scoppiò poiché gli ebrei si sollevarono e combatterono per la salvezza della Torà. Lo stesso avvenne durante le persecuzioni del 1096, moltissimi ebrei persero la vita a causa della loro decisione di rimanere fedeli a Dio e alla Sua Torà, e li riconosciamo come kedoshìm, perché decidendo il contrario avrebbero avuto salva la vita…
… Così come non assume un significato religioso la nostra Guerra di Indipendenza, le sue vittorie da parte nostra, la fondazione stessa dello Stato d’Israele e la sua difesa da parte nostra; tutto questo costituisce il frutto della volontà degli ebrei al risorgimento politico-nazionale ma non ha nulla a che vedere col servizio divino.
Da quanto detto possiamo allora trarre delle conseguenze in merito al concetto di Gheulà – Redenzione finale e della visione messianica, sui quali alcuni si basano per interpretare la Storia come un processo carico di un significato religioso (come il concetto cristiano di heilsgeschichte – storia sacra). Non mi dilungherò qui sulla questione di come il concetto di redenzione messianica sia solo secondario nella fede ebraica, il cui fondamento è invece il servizio divino nel mondo così com’è (Si confronti la fine della Igghéret Ha-Shemàd del Maimonide ed il Chatàm Sofèr nei suoi responsa, Yorè De’à, 336).
Tuttavia anche se si volesse vedere la visione messianica come un elemento costitutivo della fede ebraica, ancora non si può dire che la Storia abbia un significato religioso. Nei libri dei profeti, ed anche in quello di Daniele, la Storia del genere umano non è presentata come una via alla redenzione futura; o, in altre parole la redenzione non è una conseguenza della Storia. Al contrario la redenzione è presentata come l’avvenimento capace di stravolgere la Storia, i cui cambiamenti e mutamenti sono privi di un qualsiasi significato.
Dobbiamo però seriamente interrogarci se il concetto di “Dio della Storia” abbia un significato religioso, cioè qualora l’uomo riconosca la reale consistenza della rivelazione divina nella Storia, può questo (secondo la logica oppure secondo la psicologia) portare al riconoscimento del dovere al servizio divino? Quel Dio che l’uomo non conosce se non come colui che tira le fila della Storia, che senso ha amarlo e temerlo (come Onnipotente)? L’intera gravità di tale problema viene riconosciuta dai nostri Saggi quando ammisero l’esistenza di chi “Riconosce il suo Creatore e vi si rivolta contro”.
Concludendo, la fede non è una conoscenza che l’uomo acquisisce dalla Storia come azione di Dio nella realtà umana, ma l’intima convinzione dell’uomo ad impegnarsi al servizio divino nel mondo così com’è.
Tratto da “Emunà Història Va’arakhìm”, Akademòn – Yerushalàym 1982. Traduzione di David Piazza
Dalla rivista Oròt (Marzo 1993)