Maria Luisa Benigni Moscati
Cercheremo in questo primo incontro di rispondere a questa prima domanda, e alle tante altre che su questo argomento si pongono, poiché, fra tutti i popoli civili viventi sulla terra, il popolo ebreo è il più noto e al tempo stesso il più sconosciuto. Ancor oggi nelle pagine di storia dei testi scolastici troviamo scritto “Gli Ebrei erano…”, ma l’uso del verbo al passato, esatto per altri popoli coevi quali i Fenici, gli Assiri, i Babilonesi.., non lo è per gli ebrei in quanto ancora “sono”: e questo, è il mistero del popolo ebreo.
Più facile è rispondere alla domanda “chi è Ebreo ?”: per l’Halakhà (la legislazione rabbinica) è ebreo chi nasce da madre ebrea o chi si converte all’ebraismo. Va detto a tale proposito che il tribunale rabbinico tende ad ostacolare le conversioni soprattutto perché il convertito sarebbe poi tenuto, come chi è nato ebreo, all’osservanza di numerosissimi precetti, sacrificio questo del tutto inutile dal momento che per l’ebraismo la salvezza non si raggiunge necessariamente essendo ebrei, ma piuttosto amando il prossimo che ama Dio (Salmo 15, 4) e seguendo i Suoi Comandamenti.
Ma chi sono dunque gli ebrei? Una religione? Una cultura? Un popolo? Una razza?.
Certo la vita quotidiana è scandita da pratiche religiose, ma anche chi, nel corso degli anni, si fosse allontanato da queste, resta ugualmente ebreo.
Certamente hanno dato origine ad una forte spinta culturale, il loro testo sacro la Bibbia è il libro più letto nel mondo, ma altre antiche civiltà scomparse non furono da meno.
In quanto ad essere un popolo è certamente restato idealmente unito dalla comune fede e dalle stesse pratiche ritualistiche, ma sparso, spesso in gruppi esigui, in ogni parte del mondo, ha sempre contribuito allo sviluppo sociale, artistico, culturale, economico e soprattutto scientifico della nazione in cui vive al pari di qualsiasi altro cittadino, ciascuno secondo le proprie possibilità e capacità.
Nello stesso stato di Israele poi, ricostituito solo nel 1948 dopo essere stato annientato dai romani nel 70 d.C., la popolazione israeliana è composta da cittadini di tutte le religioni, compresi musulmani e cristiani.
In quanto alla razza, premesso che all’interno della specie umana il concetto di razza è di difficile e controversa applicazione poiché non esistono criteri fisiologici, morfologici né psicologici in grado di dare solida base ad una suddivisione, gli ebrei presentano caratteristiche somatiche così diverse tra loro che è impossibile inquadrarli in qualche modo.
Esistono infatti ebrei Yemeniti dalla pelle scura, capelli appena ondulati e lineamenti sottili, avevano conservato tradizione e lingua ebraica nonché la certezza che un giorno sarebbero tornati dall’esilio “su ali di aquila”. Ritennero pertanto avverata la profezia quando aerei israeliani giunsero a salvarli con l’operazione detta “Tappeto Magico”.
Assolutamente neri di pelle anche se del tutto privi dei caratteri negroidi, sono i “falascià”, ebrei etiopi, individuati nella seconda metà dell’ottocento, discendenti dal figlio nato dalla regina di Saba e re Salomone, vagavano scalzi e seminudi, ma avevano nella capanna-sinagoga il sefer-Torà (libro della Legge).
Con uno spettacolare intervento aereo denominato “operazione Salomone” fu completato il loro trasferimento in Israele iniziato con “l’operazione Moses”.
Esistono gruppi ebraici dalla pelle gialla ed occhi a mandorla nella lontana Kaifeng in Cina ed anche in Giappone.
Nella stessa Europa, pur essendo di pelle bianca, hanno caratteristiche somatiche diverse: quelli cosiddetti sefarditi (originari della Spagna, in ebraico Sefarad), con la pelle bruno-dorata, occhi neri e capelli castani, fautori con gli arabi della famosa scuola dei traduttori (sec. XIII), inclini indifferentemente tanto agli studi di mistica ebraica quanto a quelli delle letteratura romantica.
Ben diversi gli ebrei aschenaziti (dall’ebraico Aschenazi, Germania), presenti in tutto l’Est d’Europa, dediti all’approfondimento degli studi biblici cui nessuno, modesto ciabattino o ricco mercante che fosse, si sarebbe mai sottratto per lunghe ore al termine di una giornata di lavoro. Hanno per lo più capelli rossi e occhi verdi, altri sono biondi con pelle chiarissima. Forse è abbastanza curioso il fatto che questi sono gli unici veri ariani in quanto discendenti in gran parte dai Khazari. (Il loro impero, potentissimo nel VI secolo dell’era volgare, si estendeva dalle steppe del Caucaso al basso Volga, ed era considerato la culla della più pura stirpe di Ario. Proprio questo popolo, verso la fine dell’ VIII secolo lascia il paganesimo per convertirsi, re Bulan in testa con tutta la sua corte, all’ebraismo ritenendosi discendente di una delle tribù disperse d’Israele). Paradossalmente i nazisti, ritenendosi una razza superiore, quella ariana appunto, sterminarono in massima parte proprio quegli ebrei che erano ormai gli ultimi veri discendenti di Ario.
In quanto agli ebrei presenti in Italia (oggi circa 35.000) essi sono per lo più di “rito italiano“, cioé i più vicini al rito originario essendo qui giunti direttamente da Gerusalemme, la maggior parte ancor prima dell’era volgare e poi al seguito dei Romani. Infatti quando nel 70 Tito distrusse il sacro Tempio, portò a Roma 5.000 ebrei come schiavi, questi furono riscattati dalla comunità ebraica già presente nell’Urbe. Costoro non presentano alcuna caratteristica fisica comune.
Pertanto se proprio si vuole dare una risposta alla domanda Chi sono gli ebrei? potremmo dire che sono i discendenti di quelle famiglie patriarcali, incontrate nella Bibbia, che continuano a vivere secondo regole che lo stesso popolo ebreo si è dato derivandole direttamente dalla Torà (termine tradotto erroneamente con Legge, ma con il vero significato di insegnamento. Essa è composta dal Pentateuco cioè i primi cinque libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio)
Storia antica
Il termine ebreo (ha ivrì) compare per la prima volta accanto a quello di Abramo (Gen. cap. 14, 13) cioè “l’uomo che attraversò” il fiume Eufrate, ma potrebbe anche significare” l’uomo che stava dall’altra parte” in quanto fu il primo e il solo monoteista rispetto agli altri idolatri. Altri fanno riferimento all’antenato di Abramo Eber (Gen 11, 14-17).
Con Abramo (circa 1600 anni avanti l’era volgare) ha inizio la storia dell’ebraismo. (Si badi bene, non sarebbe ancora storicamente corretto usare indifferentemente il termine ebreo, giudeo o israelita).
Le sue vicende di Abramo sono note: ha per primo l’intuizione dell’esistenza di un Dio creatore di tutte le cose, e per Suo ordine lascia Ur,la sua città in Mesopotamia e si mette in cammino per una terra ignota. Poi l’Eterno gli appare di nuovo e gli dice: “Io sono Iddio onnipotente, procedi innanzi a me e sii integro. Io farò un patto con te, ti farò moltiplicare grandissimamente e ti renderò padre di numerose genti, ti darò la terra di Canaan in possesso perpetuo. E tu osserverai il mio patto, tu e la tua discendenza. Di generazione in generazione come segno del patto ogni maschio tra voi sarà circonciso. Anche questo sarà in perpetuo (Gen. 17, 1-12)”. È il primo precetto dato ad Abramo.
Abramo e Sara, sterile e ormai vecchia, dopo l’annunciazione degli angeli, generarono Isacco. (Il sacrificio di Isacco rappresenta l’obbedienza a Dio, e la mancata esecuzionedimostra il rifiuto da parte degli ebrei dei sacrifici umani così diffusi tra gli altri popoli. Da notare come Abramo accetta il terribile ordine e risponde “eccomi” in segno di accettazione della volontà divina poiché “il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia fatta la Sua volontà” tuttavia per la salvezza del prossimo, rappresentato dagli abitanti di Sodoma e Gomorra si batterà cercando addirittura di mercanteggiare con Dio).
Isacco e Rebecca generarono Esaù e Giacobbe che fu chiamato anche Israele, “l’uomo che lottò con Dio” (Gen. 32, 29).
Giacobbe sposò Lea e Rachele ed ebbero dodici figli, i capostipiti delle 12 tribù d’Israele (in realtà solo dieci tribù discendono dai figli mentre le altre due dai nipoti Efraim e Manasse figli del figlio Giuseppe ).
Al tempo della carestia che aveva colpito Canaan, Giuseppe, che era diventato viceré d’Egitto, chiama presso di sé la sua famiglia. Dopo la morte di Giuseppe i faraoni che seguirono ridussero in schiavitù gli ebrei che resteranno in terra straniera per 400 anni fino a ché non giungerà Mosè a liberarli.
La storia di Mosè (in egiziano = figlio) narrata nel secondo libro della Torà, l’Esodo, è a tutti nota nello svolgimento dei fatti, ma è densa di significati nascosti.
Mosè riceve da Dio i Dieci Comandamenti: la rivelazione, che avviene con voce di tuono, è un evento uditivo, cui Mosè risponde “faremo e ascolteremo” (Esodo 19, 3-6). L’azione quindi precede lo studio, così, come in quel momento può scorgere solo le spalle di Dio e non il volto, anche l’uomo può cogliere solo le conseguenze di un disegno divino che tuttavia resta al momento misterioso, nascosto. Per questo è necessaria la fede (emunà) intesa dall’ebraismo non con il significato di “credere” (sarebbe inconcepibile anche solo dubitare), ma nel senso di fidarsi o confidare.
I Comandamenti infine furono dati nel deserto, in terra di nessuno e di tutti, perché fosse chiaro che non erano destinati ai soli ebrei, ma che da questi fossero insegnati a tutte le genti (“Tu mi sarai un popolo di sacerdoti”).
È necessario inoltre tener presente che i Comandamenti furono dati oltre 3.300 anni fa e tuttavia costituiscono ancor oggi la base del vivere civile.
Questi, così come furono dettati a Mosè (Esodo 20, 1-17; Deut. 5, 6-21), differiscono in alcune parti da quelli adottati successivamente dal Cristianesimo.
1. Io sono l’Eterno, Iddio tuo, che ti ha tratto dal paese d’Egitto, dalla casa di servitù. Non avere altri dei al mio cospetto.
2. Non ti fare scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù nei cieli o quaggiù nella terra o nelle acque; non ti prostrare dinanzi a loro perché io, l’Eterno, sono l’Iddio tuo.
3. Non usare il nome dell’Eterno, che è Iddio tuo, in vano; perché l’Eterno non terrà per innocente chi avrà usato il suo nome in vano.
4. Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni, ma il settimo è giorno di riposo, sacro all’Eterno, che è l’Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né tua moglie, né i tuoi figli, né il tuo servo, né la tua serva, né il forestiero che è nella tua casa, né il tuo bestiame, poiché in sei giorni l’Eterno fece i cieli, la terra e il mare e tutto ciò che è in essi e si riposò il settimo giorno: perciò l’Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l’ha santificato.
5. Onora tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano prolungati sulla terra che l’Eterno, l’Iddio tuo, ti dà.
6. Non uccidere.
7. Non commettere adulterio.
8. Non rubare.
9. Non attestare il falso contro il tuo prossimo.
10. Non desiderare la casa del tuo prossimo, non concupire la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo asino, né cosa alcuna che sia del tuo prossimo.
Oltre che a questi Comandamenti l’ebreo è tenuto all’osservanza di 613 precetti (mitzvòth) di cui 248 azioni da compiere e 365 divieti, da questi numeri è facile dedurre che ogni parte del corpo umano e ogni giorno dell’anno devono essere dedicati a Dio.
Questi precetti regolano la vita quotidiana,le feste e tutto l’arco della vita e i rapporti con il prossimo. La raccolta scritta degli antichi insegnamenti orali è la Mishnà, un ampio trattato che va dalle norme agricole a quelle sulla purità, dalle feste al risarcimento dei danni. (il famoso detto “occhio per occhio”, da molti interpretato come vendetta, rappresenta in realtà un profondo senso di giustizia, raro oltre tremila anni fa: ad un danno cioé deve corrispondere un risarcimento (in denaro) pari all’entità del danno procurato)
Altro testo fondamentale è Il Talmùd (uno di Gerusalemme e uno babilonese), oltre che commento alla Bibbia esso contiene discussioni e insegnamenti dei Maestri sui singoli trattati della Mishnà, narrazione di midrashim, parabole che hanno un profondo significato morale, oltre ad insegnamenti di varie materie quali medicina,scienze storia e matematica.
Purtroppo decine di carri carichi di questi preziosi volumi,molti manoscritti e a centinaia le preziose stampe dei Soncino, stampatori anche in Pesaro e per sette anni a Fano, andarono distrutti nei vari roghi un po’ in tutta Europa. In Italia l’uso dei roghi dei Talmud venne ripreso da papa Giulio III nel 1553: a Firenze ne furono bruciati 14 carri in pochi giorni mentre a Roma i roghi arsero a lungo. Non ci fu città, grande o piccola, che non vide, nella piazza principale, bruciare testi religiosi ebraici.
Breve bibliografia per saperne di più:
Scialom Bahbout; Ebraismo, Giunti, Firenze, 1996
Paolo De Benedetti; Introduzione al giudaismo, Ed. Morcelliana, Brescia, 1999
Usi e riti ebraici nell’arco della vita
La Torà quindi ha dato le Leggi, (gli insegnamenti) anticamente tramandate oralmente, raccolte poi nel trattato della Mishnà (ripetizione) e nel Talmùd con l’aggiunta dei commenti di mistici illuminati e antichi Maestri (Rabbini).
Pur essendo l’ebraismo così rigido nei principi fondamentali codificati nei Dieci Comandamenti, è tuttavia in continuo fermento poiché segue l’evoluzione dei tempi.
I Maestri di oggi quindi discutono i grandi temi attuali (droga, aborto,trapianti, fecondazione artificiale, omosessualità…) alla luce della Torà. I loro pareri possono rappresentare una guida per i fedeli, fermo restando il principio, irrinunciabile per un ebreo, della libertà individuale.
Anche oggi, come in passato, vale il parere espresso dalla maggioranza: non c’è infatti un capo religioso cui venga riconosciuto un potere decisionale superiore.
L’osservanza dei precetti è sì un atto di sottomissione al comando divino, ma ha lo scopo di portare sacralità in tutti gli aspetti della vita, valorizzandola, senza annullarla, elevando anche la banalità del quotidiano per metterlo a contatto col sacro.
“Siate santi poiché sono santo Io, il Signore Dio vostro” e attraverso le mitzvòt il popolo ebraico tende a ciò distinguendosi dagli altri popoli, ma ognuno deve perseguire lo stesso scopo sia pure attraverso la propria cultura specifica.
Per raggiungere questo obiettivo, gli ebrei dovranno pertanto attenersi all’osservanza delle mitzvòt (precetti) ogni giorno della settimana, e il Sabato in particolare, e nei tempi stabiliti dal calendario, e nei momenti che segnano la vita di ciascuno dalla nascita alla morte.
La “circoncisione” (milà) rinnova ad ogni nascita di un bimbo ebreo maschio, il patto di Abramo che lega a Dio il popolo di Israele.
Questa deve essere effettuata l’ottavo giorno dopo la nascita: non è legata solo al patto con Dio ma ricorda anche che Dio creò il mondo in sei giorni, il settimo si riposò e l’ottavo ogni uomo riprende e “fa per Lui” per perfezionare con le sue opere (buone) l’opera di Dio.
Inoltre si impone al bambino il nome, precetto questo importante come emerge spesso dalla lettura del testo biblico.
Se la figlia è femmina si celebra “il dono della figlia” (Zèved ha-bat) dopo ottanta giorni con la sola imposizione del nome.
Il “riscatto del primogenito” (Pidjon ha-ben) avviene trenta giorni dopo la nascita: è il gesto simbolico del padre che consegna a un discendente dei Cohen (Sacerdoti) cinque monete, poi date in beneficenza. Infatti la nascita del primo figlio,maschio, può far nascere nel padre un senso di orgoglio, di potenza e potrebbe dimenticarsi che tutto gli viene da Dio. Tutte le primizie debbono essere offerte al Creatore.
I ragazzo giunto al compimento del tredicesimo anno di età diventa “figlio del precetto” (Bar mitzvà) cioè entra a far parte della comunità degli adulti ed è tenuto al rispetto delle mitzvot (precetti). Per le ragazze ciò avviene al dodicesimo anno e la cerimonia è detta Bat mitzvà cioè della figlia del precetto. È una specie di confermazione: corrisponde a quella che per i ragazzi cristiani è la Cresima.
La famiglia è al centro della vita comunitaria pertanto ilmatrimonio è un momento importante della vita, obbedisce al precetto”crescete e moltiplicatevi e popolate la terra”, tuttavia la legge ebraica riconosce la possibilità di incorrere in un errore nella scelta del coniuge pertanto prevede il divorzio. (Di questo si parlerà più diffusamente nell’incontro sulla famiglia come pure dell’educazione dei figli).
La vecchiaia è, in seno alla comunità ebraica, una condizione di privilegio poiché i figli debbono assolvere il precetto di mantenere i genitori in uno stato di dignità e trattarli col massimo rispetto (Vedi il V° Comandamento). Numerosi passi del libro dei Proverbi sottolineano ciò. E se hanno discendenti è scritto “La corona dei vecchi sono i figli dei figli e la gloria dei figli, i padri” (Proverbi 17, 6).
Il lutto per la morte di uno dei genitori è il più grave e le regole da seguire sono particolarmente rigide. Il cadavere dopo il lavaggio viene avvolto in un lenzuolo di lino e deve essere sepolto nella terra in modo che il corpo torni rapidamente alla terra da cui proviene, sono pertanto vietate le riesumazioni. fedeli al detto “Ricorda, polvere sei e polvere ritornerai”.
Le preghiere prescritte vanno recitate direttamente durante la sepoltura, (mai in sinagoga) e nella prima settimana di lutto, durante la quale ci si astiene da qualsiasi lavoro, non si esce di casa, ma si ricevono parenti e amici che insieme ricordano chi è appena mancato.
Nei trenta giorni che seguono si riprende il normale lavoro, ma astenendosi da feste e divertimenti. Tuttavia, per quanto il dolore per la perdita di una persona cara resti indelebile, è un precetto tornare ad una vita normale pur ricordando con le preghiere gli anniversari di anno in anno. Le visite al cimitero sono vietate nel giorno di Sabato o in qualunque altra festività essendo il luogo considerato impuro, quindi inadatto alla santità, dal momento che ormai l’anima ha abbandonato il corpo.
Tuttavia presso alcune comunità si usa mantenere inalterata la stanza e le cose del defunto per undici mesi ancora dopo la morte, recitando il qaddìsh (antica preghiera in aramaico con cui si santifica il nome di Dio), accendendo un cero ad ogni compimese, nella speranza di rendere meno doloroso il distacco dalle proprie cose. Ma forse questo è più un conforto per chi resta.
In Urbino l’attuale cimitero ebraico risale al 1874: è situato alle pendici del Monte degli Ebrei, in località Gadana, volto verso Gerusalemme.Vi sono numerose lapidi e cippi provenienti da quello antico ed alcune steli monumentali ottocentesche.
Il numero delle sepolture è senz’altro maggiore di quante ne indichino le iscrizioni tombali e ciò perché nell’epoca in cui Urbino è stata soggetta allo Stato Pontificio anche qui è stato applicato l’editto di papa Pio VI, che vietava di apporre lapidi nelle sepolture anche con il solo nome, in modo che dell’estinto si perdesse ogni traccia. Solo le sepolture di rabbini e sapienti erano esentate da questo decreto. A Roma questo decreto restò in vigore sino al 1848.
Quello più antico era situato poco lontano, ma, essendo il terreno franoso, fu abbandonato; risaliva alla fine del 1300.
Tutte le cerimonie, liete o tristi, che coinvolgono la famiglia, e pertanto private, debbono essere celebrate in seno alla Comunità e lo svolgimento del rito e la preghiera pubblica possono avvenire solo in presenza del miniàn (numero), cioè dieci maschi adulti.
La Pasqua e le altre principali festività ebraiche
Della Pasqua si parla nel seconto libro della Torà (Pentateuco) e precisamente nell’Esodo, al Cap. 12, 2.11, quando Dio dà a Mosé l’ordine della partenza dall’Egitto. Se ne parla ancora nel Levitico, Cap.23,5, a proposito delle feste solenni la Pasqua è seconda per importanza dopo il Sabato: lo Shabbat infatti è così importante che rientra nei Comandamenti, è il III.
Nei Numeri, al Cap 9, si precisa che il primo Séder (= Ordine, cioè il rituale delle prime due cene pasquali) sarà celebrato a partire dal secondo anno dopo l’uscita dall’Egitto, il 14 del mese di Nissan al tempo stabilito, all’imbrunire. (È la prima luna piena di primavera).
Il significato della parola ebraica Pèsach (in ebraico è maschile per cui si dice “buon Pesach) è passaggio e rievoca i tre momenti della storia: 1° – passaggio dell’angelo del Signore che passò oltre le case degli ebrei allorché colpì quelle degli egiziani con la morte dei primogeniti (in segno di lutto gli ebrei primogeniti digiunano nel giorno che precede la Pasqua), 2° – passaggio del Mar Rosso, e 3° passaggio dalla schiavitù alla libertà.
La festa è preceduta da un’accurata pulizia della casa (le pulizie di Pasqua) per eliminare ogni traccia di sostanze lievitate, anche le stoviglie dovranno essere rese kascèr (=adatto) con un particolare lavaggio. Per evitare questo lavoro molti usano tenere in un armadio pentole e piatti da usarsi esclusivamente negli otto giorni di Pesach. Nella metà del ‘500 c’erano a Pesaro ceramisti ebrei (successivamente anche in Urbino), giunti dalla Spagna, quali Josef Azulai e Abraham Cohen, producevano anche le “zudiole”, piatti di varie misure da utilizzarsi per Pesach, conservate ora al museo della ceramica di Faenza.
La Pasqua, come tutte le feste pubbliche, può essere celebrata anche soltanto in casa (a differenza delle feste private come una milà, un bar-mizvà o un matrimonio che debbono essere celebrate con la presenza della comunità).
Anche nel Vangelo di Matteo (cap.26, 7) un discepolo, rivolgendosi a Gesù, dice “Rabbi, dove vuoi che prepariamo per mangiare la Pasqua?”.
Al centro della tavola troneggia la “canestrella” o il “piatto” per il Sèder (Ordine) in cui sono disposti: uovo, sedano ed erbe amare, un osso tolto dallo zampetto del capretto arrosto, un impasto di miele e frutta e una tazzina di aceto, oltre a tre azzime intere. Ciascuna di queste cose ha il suo significato: ricordano l’agnello che veniva sacrificato quando esisteva il sacro Tempio, l’impasto di calce e paglia per fare i mattoni, le erbe amare di cui gli ebrei si cibarono nel deserto e i pani che non fecero in tempo a lievitare.
Il vino rosso, kascèr, cioè di uva e preparato sotto il controllo del rabbinato, e il pane azzimo costituiscono gli elementi della Benedizione della mensa. Durante la cerimonia, il padrone di casa, o chi per lui, procede con ordine (Sèder) nelle varie fasi: benedetto il vino e spezzata l’azzima li distribuisce ai commensali.
Grandi e piccini seguono la lettura del racconto dell’Esodo, ciascuno sul proprio libro chiamato Haggadà. È l’unico libro ebraico che contenga illustrazioni proprio perché anche i bambini, non ancora in grado di leggere, possano seguire le fasi del rito, al quale del resto debbono partecipare con precise domande. A tavola è sempre apparecchiato un posto in più perché ” Chi ha fame venga e mangi, e faccia Pésach con noi”.
Verso la metà di settembre, il 1° del mese di tishrì, è il Capodanno (Rosh hashanà), è chiamato anche il giorno del ricordo perché vengono ricordate tutte le azioni compiute durante l’anno e per dieci giorni si cercherà via via di ricordare i peccati commessi, chiedendo perdono a Dio e al prossimo. Questi dieci giorni di penitenza culminano con il giorno del digiuno (Jom Kippur) che dura circa 25 ore (ci si astiene dal mangiare un’ora prima del tramonto e non si tocca né cibo né acqua sino ad un’ora dopo il tramonto del giorno seguente,quando in cielo sono apparse almeno tre stelle). È una giornata dedicata alla preghiera e alla confessione dei peccati, direttamente a Dio, il quale, se il pentimento è sincero, può perdonare quelli compiuti verso di Lui, ma non quelli verso il prossimo se prima non si è provveduto a riparare i torti commessi.
Seguono poi, ai primi di ottobre, la festa di Sukkot (le capanne si fanno intrecciando rami di palma, cedro, mirto e salice) un invito all’umiltà, e quella di Chanukkà (ricorda la riconsacrazione del Tempio profanato dai greci nel 165 a.e.v.) per otto giorni, verso la fine di dicembre, si accendono, ogni sera una in più, le luci della lampada ad olio. Questa festa, che segna una rinascita del culto, è anche chiamata la festa delle luci e non a caso cade, come del resto il Natale cristiano, proprio nel periodo più buio dell’anno, quando il giorno è più breve (ma nella stanza in cui brillano le luci della kanukkìa, la lampada a otto luci, deve restare accesa un’altra luce).
La festa di Purim (=sorti),verso la fine di febbraio, è l’unica allegra, una specie di carnevale dei bambini che usano mascherarsi indossando gli abiti dei personaggi del libro biblico di Ester. Cade un mese prima della Pasqua e si usano dolci di marzapane e i tipici dolci fritti di carnevale. Si legge il libro di Ester.
Pésach, Schavuòth (Pentecoste) e Sukkòt sono feste di pellegrinaggio poiché, quando esisteva il Tempio, usava recarvisi in pellegrinaggio. Esse rappresentano tendono al raggiungimento di uno degli obbiettivi fondamentali di tutti i precetti e cioè l’educazione al rispetto della libertà di ogni uomo in quanto essere creato ad immagine di Dio.
(Pésach = libertà fisica, intesa come libertà da ogni forma di dittatura; Pentecoste= libertà spirituale, grazie alla conoscenza derivata dal dono della Torà e quindi libertà di esprimersi ciascuno nella propria cultura; Sukkòt =libertà economica, intesa come libertà dal bisogno ma al tempo stesso un invito all’umile vita dei Padri che, nel deserto, vivevano sotto le stelle).
Ma la principale festività ebraica è lo Shabbàt, inizia al tramonto del venerdì e termina al tramonto del Sabato. Alla donna il compito di accendere le candele e di recitare la benedizione cui farà seguito, da parte del capofamiglia, il kiddush (benedizione) sul vino e sulle challoth (i bianchi pani del Sabato) alla presenza di tutti i membri della famiglia.
Come è scritto nel terzo Comandamento in quel giorno ogni ebreo deve astenersi da qualsiasi lavoro. Per sei giorni deve obbedire al precetto di lavorare, e di Sabato a quello di riposare. Questo precetto è esteso anche alle persone di servizio, all’ospite e persino agli animali. L’astensione riguarda anche la preparazione dei cibi, che debbono perciò essere preparati il giorno precedente, come nell’Esodo è rimarcato il fatto che la manna cadeva in quantità doppia nel giorno precedente lo Shabbàt.
Perché tutti potessero godere della gioia del Sabato era, ed è, un precetto per chi ne ha la possibilità, dare, cioè fare zedachà, intesa non come carità ma come giustizia.
L’esortazione a santificare il Sabato è ripetuta dodici volte nella Torà.
È scritto che la gioia del Sabato è un sessantesimo della gioia del mondo a venire.
Il ruolo della donna nella famiglia e nella società come emerge dalla lettura della Bibbia
“Se vuoi essere un re a casa tua, tratta tua moglie come una regina” in questa massima popolare ebraica è ben sintetizzata la posizione della donna nell’ebraismo, sancita del resto nel precetto della Torà che impone al marito l’obbligo di garantire alla moglie cibo, abbigliamento e diritti coniugali (Es. 21: 10).
C’è anche il detto “L’ebraismo può sopravvivere senza la sinagoga, ma non senza la famiglia”.
Questa infatti è intesa come luogo di santificazione (il termine ebraico per indicare il matrimonio è qiddushin = santificazione) in quanto spazio naturale in cui si manifesta il “divino” (shekhinà) attraverso l’amore umano autentico. Ancora oggi in Israele lo sposo è dispensato dal servizio militare perché possa trascorrere a casa il primo anno di matrimonio “per far lieta la moglie che ha sposato” (Deut. 24:5) e gettare quindi le basi per una solida unione. Entrambi, uomo e donna, intesi come coppia, furono creati ad immagine e somiglianza di Dio (spesso invocato non solo come “padre” ma anche come “nostra madre e guida”).
Questi vide che la coppia è “cosa buona” e i figli all’interno di essa sono quindi una “benedizione” (Gen. 1, 27). C’è anche il detto “Un uomo che non ha moglie vive senza gioia, senza benedizione, senza bene” per questo, visto che Adamo era solo, Dio disse “Gli farò un aiuto adatto a lui (Gen.2, 18)” e nel termine “adatto” è la chiave del rapporto tra i due e cioè ” se egli lo merita, lei sarà per lui un aiuto, altrimenti, lei sarà contro di lui”. Infatti “Un uomo deve sempre onorare sua moglie perché le benedizioni scendono sulla casa di un uomo solo per merito di sua moglie” così come “Israele fu liberato dall’Egitto per i meriti delle donne”.
Tuttavia, nonostante la sacralità della famiglia, poiché è riconosciuta la possibilità di sbagliare nella scelta del compagno/a, esiste da sempre il divorzio, sia pure subordinato a precise procedure e solo quando il tribunale rabbinico ha accertato l’assoluta impossibilità di un accordo.
Nell’ambito della famiglia, il ruolo della donna è di tale importanza che da lei dipende il rispetto di tutte le mizwoth (precetti) cui deve uniformarsi la vita quotidiana, in primo luogo la cura dei figli. Per questo la donna è esentata da tutte le pratiche del culto in sinagoga, pratiche legate ad orari stabiliti e quindi spesso incompatibili con quelli della cura della famiglia. È scritto “Quando si è impegnati nell’adempimento di un precetto, si è dispensati dagli altri”.
“È ebreo chi nasce da madre ebrea”, ciò non esprime solo una consanguineità biologica, ma attesta il particolare rapporto che si stabilisce tra madre e figlio/a sin dal concepimento. Lei è la prima a dare testimonianza di fede con gesti e con parole collegando il nascituro prima e il piccolo poi, alla tradizione.
Anche se la madre deve essere affiancata dal padre, in quanto entrambi sono responsabili dell’educazione religiosa che è come dire anche sociale e civile, dei figli, tuttavia è la prima ad essere chiamata in causa.
Allorché il Signore si rivolse a Mosè, esordì dicendo “Così diraialla casa di Giacobbe, e racconterai ai figli d’Israele” (Es.19,13): dirai e racconterai non sono un’inutile ripetizione poiché nell’esegesi ebraica la casa è la donna. Se ne deduce che Dio stesso, con dirai, si rivolge per primo alla donna e al suo particolare ruolo nella trasmissione della tradizione in seno alla famiglia. Successivamente si rivolge, con racconterai, all’uomo che è chiamato ad educare le nuove generazioni a una vita ispirata alla luce della Torà. Poiché il momento più solenne della celebrazione di quasi tutte le feste avviene in famiglia, i genitori ne sono una sorta di “ministri del culto” in questa liturgia domestica che non è altro che catechesi messa in pratica, cioè vissuta e interiorizzata giorno dopo giorno. Alla chiamata del Signore Mosè aveva risposto ” Faremo e ascolteremo” (Es.19, 3.6), la pratica precede quindi, lo studio.
Dalla prima istruzione religiosa all’osservanza dei doveri sociali e dei precetti, tutto è affidato alla donna.
Anche se per la donna non era un precetto lo studio approfondito della Torà (per questo l’uomo nella preghiera del mattino ringrazia Dio di non averlo fatto nascere donna) tuttavia non ne era esclusa, ma solo dispensata. Le sue conoscenze infatti dovevano essere tali da permetterle una prima istruzione religiosa dei figli; si racconta che scrivessero con il miele, su di un piatto, le lettere dell’alfabeto ebraico invitando i più piccoli a percorrerle con la lingua abbinando così dolcezza e lettura.
In quanto alla purezza rituale, oltre alla propria, deve abituare anche i figli alla cura del corpo inteso come contenitore dell’anima, tanto più che questo è stato creato ad immagine di Dio. Quindi all’uso del mikwè (bagno di purificazione ad immersione totale come in antico il Battesimo) e alla netilàt yadàim (lavaggio delle mani) prima delle preghiere e quindi anche prima di portare il cibo alla bocca.
Ciò, in epoche lontane quando i bagni erano tutt’altro che frequenti, suscitava non poca diffidenza. Anzi questa pratica in epoche di grandi pestilenze, preservava, almeno nelle prime fasi dell’epidemia, dal contagio, per cui gli ebrei finivano con l’essere accusati di essere i propagatori della peste e diventavano vittime di stragi terribili come a Colonia nel 1349 ove furono chiusi a centinaia in case di legno e bruciati vivi, mentre in altre città della Germania i “roghi di ebrei arsero ininterrottamente da San Giovanni ad Ognissanti”.
In quanto all’osservanza della kasherùt (regole alimentari) questa non rappresenta solo un mezzo di sopravvivenza biologica, ma anche culturale. La donna deve essere attenta: 1°) all’uso di animali permessi (ruminanti, pollame, pesci con pinne e squame Lev. 11,2.12 e Deut.14,3.9); 2°) al modo come sono stati uccisi (la shechitàh vuole che l’animale non soffra, che il sangue defluisca completamente e che la difficoltà collegata all’atto stesso dell’uccisione riduca al massimo il consumo delle carni) e 3°) al modo di cucinare. (tutto ciò sarà apprfondito nell’incontro sulla kasherùt)
In quanto alla zedakà, è la madre che deve provvedere ad infondere nei figli il senso della pietà verso il prossimo meno fortunato, che si traduce non in un atto di elemosina, ma di giustizia e con la dovuta forma. È così importante l’osservanza di questo precetto (il precetto per eccellenza) che si dice “vale quanto tutti gli altri messi insieme”.
Anche l’ospitalità verso il povero o il forestiero (secondo la tradizione potrebbe essere il profeta Elia) è affidata alla donna che sempre apparecchia un posto in più nella mensa dei giorni di festa ricordando che “anche tu fosti straniero in Egitto” (Es. 22,21).
È sempre la donna che all’entrata del Sabato accende le candele e pronuncia su di esse la benedizione rituale, seguita dal capofamiglia che recita il kiddùsh (benedizione) sul vino e sul pane in presenza di tutti i membri della famiglia. Se grazie alla donna tutte le regole saranno state osservate e il padre avrà raccontato e discusso coi figli almeno un passo della Torà, la mensa assurge al valore di altare: il rito infatti è importante alla stregua del sentimento interiore. Poi durante il pasto, qualsiasi discorso la famiglia voglia trattare, troverà l’animo di ciascuno particolarmente disposto al dialogo,specie su temi di attualità visti alla luce della Torà. Ai membri più anziani dovrà essere sempre riconosciuto un posto di assoluta preminenza sia nel posto occupato a tavola sia nelle opinioni espresse. È scritto “Alzati dinanzi al capo canuto e onora il vecchio” (Lev.19,32).
Pertanto, poiché l’ebraismo si trasmette per linea femminile, sta alla donna far sì che i figli siano come anelli di una catena attraverso la quale il patrimonio religioso, ereditato dalle generazioni passate, si trasmetta a quelle future.
Al Rotary Club di Ancona- novembre 1998