Odiati per invidia? No, la follia antisemita ha nelle sue radici qualcosa di più profondo
Abraham Yehoshua
Si intitola Il labirinto dell’identità il volume di scritti politici di Abraham Yehoshua che esce oggi da Einaudi (pp. 122, e11). Raccoglie sette saggi, quasi tutti inediti, in cui lo scrittore israeliano – autore di romanzi celebri come L’amante, Il signor Mani, Un divorzio tardivo, Viaggio alla fine del millennio, Il responsabile delle risorse umane, Fuoco amico – si interroga sulla natura dell’identità ebraica, sulle sue componenti, sulle sue particolarità, sui cambiamenti ai quali è andata incontro in Israele rispetto a quella consolidatasi nei secoli della diaspora. Ne anticipiamo uno stralcio, dal saggio «Un tentativo di riconoscere e di comprendere la radice dell’antisemitismo».
Fra tutti i tentativi di comprensione dell’antisemitismo ritengo che quello di Leo Pinsker – secondo il quale alla base dell’odio per gli ebrei sta la paura – si avvicini di più alla verità. Il fatto che Pinsker fosse medico gli permetteva forse una visione più equilibrata dei fattori scatenanti dell’antisemitismo, in cui, intuitivamente, riconosceva i sintomi di una malattia mentale del singolo, prima che motivazioni religiose, sociologiche, economiche e politiche. Pinsker riportò quindi il problema su un piano individuale, ponendolo solo in un secondo tempo su uno collettivo. È infatti facile constatare che in una società in cui sussistono condizioni socio-economiche equilibrate vi sono individui animati da sentimenti piú antisemiti di altri. Persino nella Germania nazista, dove vigeva una politica ufficiale di odio e di persecuzione verso gli ebrei, molti cittadini, stando alle testimonianze, disapprovavano e rifiutavano quell’ideologia e le fantasie antisemite, per quanto non osassero ammetterlo apertamente. Allo stesso modo, per esempio, per secoli, cristiani devoti e osservanti sono rimasti immuni dal virus dell’antisemitismo, mentre altri loro correligionari, altrettanto devoti e osservanti, ne sono stati contagiati. Questo significa che il Cristianesimo non è in sé causa di antisemitismo (per quanto possa rinfocolarlo) ma vi sono altri motivi, derivanti dall’interazione tra l’ebreo (vero o immaginario) e il gentile. Motivi che agiscono a livello individuale prima che a livello sociale. Nel suo famoso trattato Autoemancipazione, pubblicato a Berlino nel 1882 (solo tre giorni dopo che Wilhelm Marr coniasse per la prima volta il termine «antisemitismo» per definire l’odio verso gli ebrei), Pinsker parla della paura suscitata da questi ultimi. E così scrive con accento un po’ lirico: «L’ebreo è considerato morto dai vivi, straniero dai cittadini, vagabondo dagli stanziali, mendicante dai ricchi, ricco sfruttatore dai poveri, apolide dai patrioti e odiato antagonista da tutti».
Il punto di questo brano non è a mio avviso nelle sue descrizioni retoriche ma nel fatto che Pinsker ritenga che gli ebrei possiedano qualcosa di indefinito (anche per loro) che fa sì che i gentili proiettino su di loro le fantasie (raramente positive e più spesso negative), stimolandole persino.
Torniamo ora all’affermazione secondo la quale all’origine dell’antisemitismo è la paura nei confronti degli ebrei. Di primo acchito questa affermazione può apparire strana, inconcepibile, soprattutto per chi come noi sa che non solo gli ebrei non rappresentano una minaccia ma che nel corso della storia sono sempre stati deboli e vulnerabili. Eppure sembra che Pinsker abbia colto nel segno e tutte le analisi dimostrano, soprattutto in casi estremi e brutali di antisemitismo, che è proprio la proiezione di paure a provocare reazioni tanto violente.
La paura degli ebrei, e non l’invidia nei loro confronti, è dunque la causa principale e determinante dell’antisemitismo. Gli ebrei fanno fatica ad accettarlo perché prediligerebbero di gran lunga la seconda ipotesi: essere invidiati dai credenti per essere i prescelti da Dio e dai laici per i nostri successi in vari campi. Chi è odiato, infatti, preferirebbe attribuire il livore nei suoi confronti a ciò che ritiene essere i suoi successi, materiali o spirituali oppure, se questi non sono evidenti, per lo meno alla sua «grande levatura morale».
L’invidia nei confronti degli ebrei come motivo principale, e non collaterale, dell’antisemitismo, è però una delle ipotesi meno plausibili.
Questa ipotesi appare ridicola e assurda anche alla luce del fatto che per moltissimi anni gli ebrei sono stati poveri e umiliati, soggetti a dure sanzioni e a innumerevoli divieti. Cosa c’era da invidiare? Cosa si poteva invidiare ai sopravvissuti della Shoah che, dopo aver visto il loro mondo e le loro vite distrutti, di ritorno in Polonia al termine della Seconda guerra mondiale si imbatterono in un immutato odio furibondo? Cosa si può invidiare agli israeliani che da lunghi anni vivono in un permanente stato di guerra e sono vittime di spietati attacchi terroristici? L’ondata di antisemitismo che spazza ora l’Europa è forse conseguenza dei loro recenti e considerevoli «successi» morali?
E in generale, può forse l’invidia per i comprovati successi del prossimo portare gli esseri umani a simili accessi di follia omicida? Talvolta è vero il contrario: il successo spinge gli uomini ad avvicinarsi a chi lo ha, per impararne i segreti ed emularlo. No, alla radice della follia antisemita c’è qualcosa di più profondo: la paura, che spesso porta gli uomini a reazioni dissennate.
L’esempio forse più evidente e inverosimile di questa paura assurda si trova nelle parole dello stesso Hitler, scritte alla vigilia del suo suicidio nel bunker bombardato di Berlino nell’aprile del 1945. Così scrive il Führer agli amici: «Il mio più grande errore è stato di sottovalutare l’influenza decisiva degli ebrei sugli inglesi, sotto il comando di Churchill».
E al termine del suo testamento politico, aggiunge: «Passeranno anni, ma sulle macerie delle nostre città si riattizzerà la fiamma dell’odio per la razza responsabile di tutte le nostre tragedie: gli ebrei e i loro fiancheggiatori ».
In altre parole, il più grande criminale della storia, consapevole di quanto fosse debole e vulnerabile il popolo ebraico e di come gli fosse stato facile annientare sei milioni di suoi appartenenti senza incontrare alcuna reale resistenza, dopo la terribile catastrofe causata a quei poveracci mostra ancora di temere la loro «immane» forza e attribuisce la sua tremenda sconfitta non ai russi o alle forze alleate ma all’ebraismo internazionale, dimostratosi impotente a salvare i propri connazionali da uno sterminio senza uguali nella storia umana.
Ma qual è la natura di questa paura assurda, folle, la cui eco si propaga ora nel mondo musulmano e che talvolta è causa di sciagura anche per chi la prova? Da cosa deriva e come si trasforma in fantasie così bizzarre e pericolose? Tutto questo deve essere oggetto di studio. E al di là dell’analisi della problematica personalità di ogni antisemita, occorre anche chiarire cosa nell’identità degli ebrei provoca reazioni tanto violente.
A questo punto è necessario chiarire che quando parliamo di violenza antisemita non ci riferiamo a episodi di xenofobia. Innanzi tutto, in molti casi, gli ebrei non sono affatto stranieri nei luoghi in cui risiedono ma cittadini di lunga data e spesso non hanno nemmeno un aspetto «esotico». In secondo luogo, secondo recenti ricerche condotte in Europa fra esponenti dell’estrema destra, esiste una chiara e marcata differenzazione tra xenofobia e antisemitismo. Le fantasie che hanno per protagonisti ebrei e le accuse maligne rivolte contro di loro sono di gran lunga più inverosimili e feroci di quelle rivolte ad altre minoranze etniche e talvolta provengono da persone istruite e civili, solitamente illuminate e liberali in altri campi. Per esempio dal compositore greco Mikis Theodorakis, che ultimamente ha dichiarato che «gli ebrei sono all’origine di tutti i mali del mondo», o dallo scrittore portoghese vincitore del premio Nobel José Saramago, secondo il quale «ciò che avviene a Ramallah è paragonabile a quanto avveniva ad Auschwitz». O ancora dal capo del governo malese, convinto che gli ebrei dominino il mondo (mentre invece non riescono neppure a dominare un popolo debole e misero come quello palestinese). Tutto questo esige un’analisi particolare che ci conduce, attraverso l’esempio della paura assurda degli ebrei e delle loro intenzioni «malvagie» di assoggettare altri popoli per annientarli, alla base di ciò che proietta tali sentimenti e pensieri irrazionali.
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