Tanto per schiarirci un po’ le idee sui farisei citati a sproposito da papa Francesco. Un vecchio testo di rav Somekh ne parla a proposito di ebrei riformati
Ho letto con interesse sull’ultimo H.K. la presentazione “Riformati come i Farisei” di Simeon J. Maslin, già Presidente dell’Assemblea dei Rabbini Riformati americani, nella traduzione di Filippo Levi. Provenendo, in quanto Rabbino italiano (ortodosso), da una concezione dell’Ebraismo totalmente divergente per ideologia e sensibilità, troverei ozioso tentare in poche righe una confutazione filosofica dei principi della Riforma. Mi sento invece di soffermarmi sulla tesi storica di fondo dell’articolo, già anticipata nel titolo. Non è certo la prima volta nella storia delle religioni che colui che ritiene di avere delle idee innovative da proporre all’umanità pretenda di ispirarsi, o addirittura di identificarsi, con illustri exempla del passato anche a costo di stravolgere la Storia. È accaduto con i Padri della Chiesa, i quali non si sono peritati di ribaltare l’identificazione midrashica tradizionale Giacobbe=Israele, Esaù=Roma per presentare se stessi, eredi morali dell’Impero d’Occidente, come successori di Giacobbe, avendo carpito la primogenitura al “fratello maggiore” Esaù-Israele.
Ora succede con i Riformati, che pretendono di riallacciarsi alla corrente farisaica che fra i duemila e i 2500 anni fa gettò le basi dell’Ebraismo Rabbinico. Per rendersi conto di quanto tale tesi sia pretestuosa e destituita di ogni ragionevole fondamento storico basta una conoscenza basilare di chi siano realmente stati i Farisei. La migliore monografia in italiano sull’argomento resta ancora, a mio avviso, I Farisei che R. Travers Herford scrisse nel lontano 1924. Pastore della Chiesa riformata di Scozia, fu tra i primi esponenti della Cristianità a rendersi conto dei limiti del pregiudizio evangelico che identificava nei Farisei, per pretese forme di comportamento, un sinonimo di ipocrisia etica e religiosa. Proprio allo scopo di confutare tale luogo comune scrisse il suo saggio, che in Italia è tuttora disponibile, attraverso successive ristampe, nientemeno che nella traduzione di Dante Lattes (Ed. Laterza).
Come lo stesso Travers Herford esordisce, i Farisei sono in buona sostanza gli eredi della dottrina che Ezra e Nehemia, al ritorno dall’Esilio di Babilonia, espressero in uno degli ultimi libri del Tanakh (Bibbia ebraica). Sarà sufficiente confrontare alcuni capisaldi della dottrina farisaica con l’Ebraismo Riformato di Maslin per evidenziarne le differenze: per ogni dettaglio rimando i lettori al volume citato.
1) Decime e purità. I Farisei (lett. “separati”, prima e meglio che “interpreti”) nacquero come una associazione di dotti che si proponeva di riaffermare l’osservanza di alcune norme rituali che all’epoca del Secondo Tempio erano cadute in disuso a livello popolare: fondamentalmente il prelievo delle decime e le regole della purità (Chaghigah 2,7; Qiddushin 66a). Già su questo punto il paragone con la Riforma moderna mi pare debole. Non conosco alcun argomento della Tradizione Ebraica che gli Ebrei Riformati oggi abbiano inteso riaffermare per essere nel frattempo caduto in disuso né mi risulta, a differenza degli ortodossi, che essi siano particolarmente dediti a purificarsi nel Miqweh! Più in generale. se i Riformati ritengono in buona misura obsoleta la Halakhah tradizionale, con che cosa l’hanno sostituita che vada oltre la pura e semplice rimozione della Halakhah stessa?
2) Matrimoni misti. Sappiamo bene da reiterate testimonianze bibliche (Ez. cap. 9 e 10; ancora Neh. cap. 10 e 13) quanto Ezra e Nehemia abbiano affrontato di petto questo doloroso argomento, giungendo al punto di imporre al popolo il “congedo” di tutti i coniugi non ebrei sposati durante la “cattività babilonese” come presupposto di una rinascita culturale e spirituale in Terra d’Israele. Su questo tema, che affligge oggi non meno di allora il mondo ebraico, non mi pare che Maslin la pensi allo stesso modo, se dichiara che, a sue vedute, “un ebraismo vibrante e vitale… deve dichiarare che la nascita non porta con sé alcun privilegio o casta e che non può essere un impedimento al matrimonio”.
3) Lingua ebraica (Leshon ha-qòdesh). Una delle ragioni che spinsero Ezra a dichiarare guerra ai matrimoni misti fu il fatto che “I loro figli parlavano mezzo asdodeo e non sapevano l’ebraico” (Neh. 13,25). È vero che egli promosse la traduzione pubblica della Torah in aramaico (l’inglese di allora) per diffonderne la conoscenza tra il popolo (Neh. 8,8), ma va pur detto che questa veniva recitata da esperti, rigorosamente a memoria, dopo la lettura del Sefer Torah in ebraico per evitare che assumesse la stessa sacralità dell’originale (Meghillah 4,4). È parimenti nota l’avversione dei Maestri del Talmud per la recitazione di preghiere in una lingua che non fosse l’ebraico (Shabbat 12a; Sotah 33b). Chissà cosa direbbero del fatto che l’attuale Union Prayer Book dei Riformati è quasi completamente ufficiato in inglese! Eppure l’importanza della lingua ebraica è a tutt’oggi pienamente riconosciuta come denominatore comune della nostra identità anche negli ambienti “laici”.
4) La Torah orale (Torah she-be-’alpeh). Una delle grandi innovazioni dei Farisei è stata l’interpretazione della Torah scritta al di là della lettera del testo (Sukkah 48b), culminata nella letteratura talmudica e midrashica, vasta e profonda ad un tempo. La lex talionis (Bavà Qammà 83b) è soltanto l’esempio più celebre di questa metodologia ermeneutica ed è citato da Maslin a proposito. Quello che tuttavia non si capisce dal suo articolo è ancora una volta con che cosa concreta egli si proponga di sostituire tale metodologia e la letteratura su di essa costruita nei secoli dopo averle implicitamente dichiarate “superate” attraverso la sua critica all’Ortodossia.
5) Il Mondo a Venire (‘Olam ha-bà). La tradizione farisaica non si è limitata a stabilire le regole per l’interpretazione della Torah e a codificare la Halakhah valida tuttora. Essa ha elaborato anche una Hashqafah (lett. “visione del mondo”che comprende fra l’altro la fede nel Mondo a Venire e in una ricompensa ultraterrena (Berakhot 9,5). Una vera e propria dottrina filosofica, anche se non del tutto sistematica, di cui abbiamo un’esposizione nei famosi Pirqè Avot.
Ora mi risulta che la Riforma ebraica, forse sulla scorta di certe teorie relativistiche di scuola protestante, tenda oggi a negare la Provvidenza e forse la stessa Divinità.
Ritorna nuovamente la stessa domanda: in che cosa i Riformati hanno saputo rinnovare l’apparato filosofico tradizionale, su cui l’Ebraismo si è basato per secoli, dopo aver negato validità all’apparato stesso? Da questa pur breve disamina credo di poter trarre due ordini di conclusioni.
1) Nella storia dello spirito i processi innovativi non sono tutti uguali né di conseguenza paragonabili fra loro. C’è chi procede per “rimozione”, spesso illudendosi di ricostruire ex novo dopo, e c’è chi preferisce procedere per “ristrutturazione”. È per guardarsi dai primi che il Chatam Sofer di Pressburg diceva chadash assur min ha-Torah. Ed è in riferimento ai secondi che Basil Herring, un altro noto Rabbino americano vivente (ortodosso) dice invece: “La varietà delle fonti e la possibilità di diverse interpretazioni da parte delle autorità più recenti porta ad una Halakhah responsabile e dinamica, al tempo stesso critica e conservatrice nel mantenere i valori tradizionali”.
2) Non è cauto, per propagandare le proprie idee, cercare a tutti i costi paralleli fra movimenti spirituali che operano a distanza di secoli, laddove tale continuità non sia suffragata da una Tradizione consolidata: si rischia di non produrre altro che abbaglianti slogan. Se volessi a mia volta ricercare per i Riformati di oggi un paragone nel mondo antico, penserei immediatamente agli Ebrei Alessandrini. Pregavano in greco, amavano i dibattiti dei sofisti, ne sposavano le figlie e allevavano i loro “bambini instillati di amore per l’Ebraismo” alla Maslin. Sono durati un paio di secoli o poco più. Giusto il tempo di quietare la vanità di qualche coscienza tormentata. Poi non ne abbiamo saputo più nulla.
Pressappoco nella stessa epoca nasceva anche l’Ebraismo in Italia: ma a Roma, rispetto ad Alessandria, le cose andarono diversamente. Nel cuore della latinitas un erede dei Fari sei ebbe il coraggio di parlare ebraico e di insegnare la Torah she-be-’alpeh, aprendo una yeshivah all’ombra del Colosseo. Il suo nome era R. Matyà ben Charash. Il suo insegnamento si condensa in una massima, così riportata nei Pirqè Avot: “Sii coda dei leoni, ma non essere testa delle volpi” (4,20). Tanta umiltà contribuì certamente a preservare una tradizione orgogliosa fino ad oggi.
Tanto orgogliosa della sua antichità da non aver mai avuto bisogno di chadashim mi-qarov bau, “nuovi dèi venuti di recente, che i vostri padri non avevano venerato” (Dev. 32,17). Noi Ebrei Italiani possiamo invece ben dire: Ki lo ke-tzurenu tzuram. “La loro rocca non è come la Nostra” (Dev. 32,3 1).
Hakeillah – Febbraio 1999
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