Menzogne, antisemitismo e ragion di Stato, ecco come la Francia di fine Ottocento condannò un innocente: Alfred Dreyfus, solo perché ebreo.
Il 22 dicembre 1894 Alfred Dreyfus, capitano dello Stato Maggiore francese di origini ebraiche, è condannato ai lavori forzati da un tribunale militare: è solo l’inizio di un processo ingiusto che scuoterà l’opinione pubblica. Diamo uno sguardo a come il militare divenne un capro espiatorio attraverso l’articolo “L’affare Dreyfus” di Roberto Roveda, tratto dagli archivi di Focus Storia.
LA COLPA. Rennes, 7 agosto 1899: nella cittadina bretone sta per riunirsi il Consiglio di Guerra convocato per il secondo processo al capitano Alfred Dreyfus (1859-1935). L’accusato ha l’aria provata, e ha solo quarant’anni: gli ultimi cinque li ha passati all’Isola del Diavolo, la terribile colonia penale della Guyana Francese. Era l’ottobre 1894 quando venne casualmente scoperta la “prova” che gli rovinò la vita: un foglietto indirizzato all’addetto militare dell’ambasciata tedesca vergato con una grafia che assomigliava alla sua. Quella somiglianza bastò ad accusare il giovane capitano di voler vendere segreti militari alla nemica Germania e a mandarlo a processo. Nel dicembre 1894 arrivarono la condanna per alto tradimento, la degradazione con infamia e i lavori forzati a vita.
SENTENZA “MITE”. Per molti però la sentenza era stata troppo mite, e pochi erano disposti a schierarsi con il condannato. Come ci racconta Agnese Silvestri, autrice del volume Il Caso Dreyfus e la nascita dell’intellettuale moderno (Franco Angeli): «Dopo la sconfitta di Sedan del 1870 e la conseguente perdita dell’Alsazia e della Lorena a favore della Germania, la Francia era attraversata da un vento patriottico e il fatto che Dreyfus, di origine alsaziana ed ebreo, fosse accusato di intesa con il nemico alimentò il nazionalismo e infiammò l’opinione pubblica».
CAPRO ESPIATORIO. Lo Stato Maggiore dell’esercito, inoltre, con in prima fila il ministro della Guerra, il generale Auguste Mercier, aveva tutto l’interesse a mettere a tacere rapidamente uno scandalo che rischiava di coinvolgere le alte sfere militari. E Dreyfus era il capro espiatorio ideale perché, prosegue Silvestri, «era ebreo, e negli ambienti dell’esercito, ma anche in buona parte della Francia monarchica, cattolica e conservatrice, pesava moltissimo il pregiudizio antisemita. Solo da poco tempo gli ebrei erano stati riconosciuti come cittadini a tutti gli effetti, ma il loro ingresso in molte professioni, e a maggior ragione nell’esercito, era vissuto come un attacco all’integrità della nazione francese».
SPIONAGGIO MILITARE. La fretta della condanna, tuttavia, aveva suscitato non pochi dubbi soprattutto tra i familiari del capitano, tra gli intellettuali progressisti e tra gli esponenti della Francia repubblicana.
Ma ogni tentativo di riesaminare il caso si scontrò con la ragion di Stato. «Riaprire il procedimento avrebbe significato sconfessare l’operato dell’esercito», spiega Silvestri. «Ogni dubbio emesso sul Consiglio di Guerra che aveva frettolosamente – e illegalmente, come si rivelò poi – condannato Dreyfus, veniva additato come un attacco alla patria».
SCAMBIO DI PERSONA. Il capo dello spionaggio militare, George Picquart, nel 1896 presentò una relazione in cui dimostrava l’innocenza di Dreyfus e la colpevolezza di un altro ufficiale, il maggiore Ferdinand Walsin Esterhazy (era effettivamente lui la spia). Risultato: Picquart venne immediatamente trasferito in zona di guerra, in Tunisia, ed Esterhazy fu assolto da ogni accusa. Intanto però l’opinione pubblica era sempre più divisa tra innocentisti e colpevolisti.
DIFESA PUBBLICA. Il fronte dreyfusardo crebbe enormemente dopo che nel novembre 1897 Émile Zola fece pubblicare il suo famoso J’accuse in cui attaccava apertamente l’antisemitismo dell’esercito e la condanna senza prove di Dreyfus. Lo scrittore per questo finì sotto processo, ma ottenne comunque un grande risultato. Spiega Silvestri: «Dreyfus era stato giudicato in un procedimento militare a porte chiuse. Zola portò il caso in un procedimento civile, dove tutti potevano ascoltare le udienze, leggere sui giornali il resoconto stenografico dei testimoni militari interrogati dalla difesa, capire come si erano svolti i fatti. Dal processo a Zola emersero così le illegalità commesse contro Dreyfus nel 1894».
TRADIMENTO E SUICIDIO. A qualcuno saltarono i nervi: nell’agosto del 1898 il maggiore Hubert- Joseph Henry, uno dei grandi accusatori del capitano, confessò di avere costruito prove contro il condannato. Pochi giorni dopo si suicidò con un rasoio lasciatogli molto opportunamente in cella. Ma la Corte di Cassazione aveva ormai abbastanza elementi per ordinare un nuovo processo.
MEZZA VITTORIA. Eccoci quindi a Rennes. In un clima, tra i dreyfusardi, di grande ottimismo. In realtà, anche questo secondo processo fu disseminato di trappole. Spiega Agnese Silvestri: «Fu ancora un procedimento militare e quindi, almeno in parte, a porte chiuse, e comunque svolto in un’atmosfera pesantemente inficiata dal peso dell’autorità delle gerarchie militari. Inoltre, si creò una situazione per cui assolvere il capitano avrebbe significato automaticamente accusare i militari e soprattutto il generale Mercier. Il timore di uscire dalla crisi con un esercito delegittimato e un ministro incriminato era un grave ostacolo alla serenità e imparzialità dei dibattimenti».
SECONDO ATTO. Nuovamente la verità dovette cedere il passo alla realpolitik e Dreyfus rivisse l’esperienza di quasi cinque anni prima. Racconta Silvestri: «Trovò a giudicarlo militari che obbedivano ai suoi principali accusatori, che erano anche i loro superiori. Venne di nuovo schiacciato da un profluvio di allusioni e illazioni orchestrate dalle gerarchie militari e dal generale Mercier in persona. Nessuno chiese ai militari di provare quello che dicevano».
TRAGICA BEFFA. La rivincita del capitano si trasformò così in una beffa. Se nel primo processo lo avevano condannato per alto tradimento e la pena era stata il carcere a vita, ora la condanna era a dieci anni: era colpevole di tradimento ma gli venivano riconosciute alcune non ben definite circostanze attenuanti. Era chiaramente un assurdo giuridico perché o si è traditori o non lo si è e la sentenza, naturalmente, venne accolta da un coro d’indignazione in patria e anche all’estero. Per salvare capra e cavoli venne proposto a Dreyfus di presentare domanda di grazia, cioè di umiliarsi dichiarandosi colpevole anche se non lo era. Spinto dai familiari, sostenuto da alcuni dreyfusardi e prostrato dalla prigionia, il capitano capitolò.
ANTISEMITISMO E XENOFOBIA. La vera riabilitazione però si ebbe solo nel 1906, quando Dreyfus ottenne la riammissione nell’esercito con il grado di maggiore. L’odio nei suoi confronti non era però scemato, tanto che nel 1908 venne ferito, anche se leggermente, in un attentato. Qualcosa di positivo, la sua vicenda, l’aveva comunque portato, come conclude Agnese Silvestri: «L’Affaire Dreyfus fece sì che una parte dell’opinione pubblica, guidata dall’azione di molti intellettuali, si ergesse a difesa dei valori di verità e giustizia, di uguaglianza di tutti i cittadini. La Francia provò a fare i conti con l’irrazionalità della xenofobia e dell’antisemitismo, a difesa di un’idea inclusiva di nazione».
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