Tratto da “Che cos’è il Talmud – Adin Steinsaltz”, Giuntina 2004
Uno dei principi fondamentali dell’ebraismo è costituito dallo Shabbàth. A partire dal libro di Bereshìth (Genesi) con la descrizione della Creazione e del relativo riposo nel settimo giorno, fino ai Dieci Comandamenti, tra i quali è espressamente menzionata la mitzvà di astenersi da qualsiasi attività nel giorno di Shabbàth, il concetto viene sottolineato in tutta la sua importanza. La mitzvà fondamentale dello Shabbàth è costituita dal principio che «il settimo giorno è giornata di cessazione dal lavoro dedicata al Signore tuo Dio e non compirai alcun lavoro» (Es. 20: 10), stabilendo un divieto che viene più volte ripetuto nella Torà e così pure nelle parole di ammonimento dei Profeti.
Questo concetto basilare dello Shabbàth quale giorno di riposo è in apparenza assai semplice, tuttavia, quando si viene ad applicarlo nella vita quotidiana, nasce una lunga serie di problematiche a partire dalla definizione stessa di melakhà (lavoro proibito di Shabbàth) (TB, Shabbàth 73a). Da un lato potrebbe essere considerato melakhà un qualsiasi atto che richiedesse una fatica eccessiva, o una qualsivoglia azione per la quale si ricevesse un pagamento, o molte altre attività ancora, e ognuna di queste definizioni porterebbe a individuare una diversa configurazione del divieto, e così un diverso modo di osservare lo Shabbàth.
La tradizione orale, basata su un’analisi approfondita delle fonti, giunge a un’altra conclusione riguardo all’essenza dello Shabbàth, molto legata al concetto di «imitazione di Dio» accennato in molti passi della Torà stessa. Il lavoro vietato di Shabbàth non è legato al concetto di fatica fisica o alla ricompensa in denaro ma, sostanzialmente, al compiere atti di creazione volontaria nel mondo della natura.
Così come il Signore si riposò di Shabbàth dalla sua attività, quella della Creazione del mondo, ugualmente agli ebrei è richiesto di non compiere, di Shabbàth, attività creative nel mondo.
Questa definizione generale non la si ritrova così formulata nel Talmùd, in quanto il Talmùd rifugge dalle definizioni teoriche e astratte. Per di più non esiste un’unica definizione in grado di gettare luce su tutti i numerosi e complessi aspetti della questione, che possono emergere nel corso del tempo. Il Talmùd presenta invece un modello di «lavoro proibito» di Shabbàth formulato espressamente nella Torà, ossia quello relativo alla costruzione del tabernacolo nel deserto con tutte le attività ad essa collegate. La maggior parte delle discussioni halakhiche riportate nel Talmùd riguardo alle attività vietate e permesse di Shabbàth rappresenta un’applicazione e un ampliamento di questo modello, allo scopo di trarne conclusioni pratiche.
Innanzitutto fu necessario analizzare i tipi di lavoro che furono messi in atto per costruire il tabernacolo. L’analisi venne poi riassunta in un elenco di «trentanove avòth melakhà» (TB, Shabbàth 73a), ossia trentanove generi di attività fondamentali, che senza dubbio vennero allora compiute e che costituiscono degli «avòth» (padri), ossia prototipi di quanto è vietato compiere di Shabbàth. La mishnà in cui compare questa lista raggruppa i generi di attività in base alloro scopo, elencandole a partire da quelle legate alla preparazione e alla coltivazione degli ingredienti (per le tinture), fino alla lavorazione delle pelli, dei metalli e dei tessuti legati alla costruzione del tabernacolo.
Trentanove sono solo gli «avòth» (TB, Shabbàth 73a), ossia le categorie fondamentali, ma ciascuna di esse ha delle toledòth (discendenze), cioè azioni simili per la loro essenza, anche se non identiche alle prime in tutti i loro aspetti particolari. II carattere peculiare della letteratura talmudica emerge palesemente proprio dalle modalità con le quali vengono interconnessi argomenti tra loro diversi e distanti. Per esempio, la mungitura è considerata una toledà (discendenza) dell’av melakhà (protitipo o categoria) della «trebbiatura» (TB, Shabbàth 73a). In apparenza la relazione tra le due azioni sfugge e sembra priva di significato, ma essa diviene comprensibile analizzando la struttura logica sottostante: la trebbiatura è un’operazione volta a estrarre il contenuto edibile da un oggetto che, di per sé, non lo è affatto, e la mungitura esplica una funzione assolutamente analoga, anche se riferita a un oggetto del tutto diverso.
La discussione di questi aspetti «strutturali» è solo una delle facce del problema, ma ne esiste un’altra, di natura quantitativa. Affermare che una certa attività è vietata di Shabbàth rimane un’espressione teorica, che indica ciò da cui ci si deve astenere. Ma è necessario stabilire quando un certo atto può essere considerato irrilevante dal punto di vista pratico, di modo che, seppure ci fosse stata una cattiva intenzione nel compierlo, non si è tuttavia giunti a concretizzarla, e per questo l’atto non può essere considerato un «lavoro proibito» nel pieno senso del termine. Per esempio, la scrittura è vietata di Shabbàth, ma bisogna chiedersi quale sia il limite al di sotto del quale non si tratta ancora di vera «scrittura». Qui, ad esempio, i chakhamìm stabilirono che già due lettere rappresentano un’unità dotata di significato, e per questo è proibita, ma scrivere una sola lettera non venne considerato un lavoro compiuto. La definizione contiene anche aspetti qualitativi: è chiaro, ad esempio, che, in linea di principio, rovinare, danneggiare e distruggere non sono azioni considerate «lavoro», a meno che non facciano parte di un progetto che ha lo scopo di ricostruire o riordinare. Distruggere una costruzione non è considerato un «lavoro», a meno che ciò non serva all’edificazione di qualcos’altro, servendosi dei materiali o costruendo un altro edificio al posto di quello distrutto.
Un ulteriore aspetto è quello della kavvanà (intenzione, volontà) con la quale si compie un’azione: secondo il Talmùd è vietato dalla Torà compiere di Shabbàth un «lavoro
intenzionale», di conseguenza quel lavoro su cui non si è riflettuto non è considerato un’attività creativa. L’uomo che compie un’azione distrattamente, e si rende conto che senza volere ha compiuto un atto creativo, non è considerato alla stregua di chi ha compiuto un lavoro, in quanto manca l’elemento dell’intenzionalità. Non si tratta di una questione facile da definirsi, in quanto rimarrà sempre l’interrogativo su quale sia l’essenza di quell’intenzione necessaria perché un certo atto venga considerato come un lavoro.
Alcuni chakhamìm limitarono molto la portata del termine kavvanà (intenzione) in questo contesto, affermando che per «atto intenzionale» si deve intendere quello compiuto da un uomo che ne conosce a priori le conseguenze, mentre altri sostennero che il termine ha un significato ben preciso, e che chiunque non intendeva a priori compiere un’azione esattamente nel modo in cui la tal cosa è stata fatta non deve essere considerato alla stessa stregua di chi ha compiuto un lavoro proibito di Shabbàth. Una posizione estrema in questo senso è quella del tannà rabbi Shimòn bar Jochài, per il quale l’uomo che intendeva cogliere un grappolo d’uva e invece ne ha colto un altro, anche se dal suo punto di vista non c’è alcuna differenza, dal momento che non intendeva fare quello che ha fatto non ha compiuto un lavoro vero e proprio. Le controversie e le discussioni in merito sono talvolta assai acute e le sottili differenze di opinione in materia di kavvanà, conoscenza, conseguenze volontarie e involontarie vengono affrontate estesamente nella letteratura talmudica nel corso dei secoli.
Il complesso dei divieti espressi esplicitamente nella Torà e di quelli che ne derivano, seppure assai esteso, venne ulteriormente ampliato fin dall’antichità, attraverso l’introduzione di numerosi sejaghìm (siepi), cioè restrizioni con le quali si intendeva preservare la cornice dello Shabbàth impedendo di compiere atti che di per sé non erano esplicitamente proibiti dalla Torà. Ciò avvenne fin da tempi assai remoti, e in certi casi senza dubbio fin dai tempi in cui venne data la Torà stessa.
Nel Talmùd è riportata l’osservazione che in epoche precedenti l’osservanza dello Shabbàth era estremamente rigorosa, o per effetto di una concezione più severa della santità dello Shabbàth o per la sensazione che fosse necessario imporre maggior rigore su questioni che il popolo tendeva a trascurare. Nel corso del tempo, si tese a limitare la portata di alcune di queste restrizioni, in quanto vi era la sensazione che il popolo avesse già recepito l’osservanza dello Shabbàth e che non fosse quindi più necessario erigere ulteriori «siepi» a difesa di qualcosa che, sostanzialmente, era già ovunque rispettato. Ciononostante rimase sempre in vigore l’osservanza di quelle restrizioni, chiamate nel periodo mishnico shevùt (astensione per disposizione rabbinica), che concorrevano a dare allo Shabbàth la tipica sensazione di giorno di riposo e di astensione. Un esempio tipico di un divieto antico di questo genere è quello di commerciare di Shabbàth. Il commercio di per sé non può essere incluso nella categoria del «lavoro creativo», in quanto non produce niente di concreto dal punto di vista fisico; tuttavia sappiamo che fin dal periodo dei primi Profeti il commercio era vietato di Shabbàth e perfino nel Regno di Israele, in cui molti cittadini erano pagani, i negozi erano chiusi di Shabbàth e non era neppure immaginabile di svolgere commerci in quel giorno.
Ai tempi di Nechemia, all’inizio del periodo del Secondo Tempio, veniva posta grande cura a che non venisse compiuta alcuna negoziazione commerciale di Shabbàth, anche nei confronti di non-ebrei che certamente non erano obbligati a rispettare la mitzvà del riposo sabbatico. Questo complesso di divieti dello shevùt è molto esteso e costituisce uno dei primi esempi di restrizioni e di proibizioni supplementari volte alla difesa di un nucleo centrale di mitzvòth: si tratta di azioni non vietate di per sé ma per il fatto che, quasi necessariamente, possono indurre a compierne altre, rigorosamente proibite. Così, per esempio, è vietato praticare la medicina di Shabbàth, se non in caso di pericolo di vita, o suonare uno strumento musicale. E interessante notare che il Tempio costituiva una specie di «zona
extraterritoriale» in materia di shevùt, in quanto molti di quei divieti non vi venivano osservati, e questo per due ordini di motivi: in primo luogo si confidava che i sacerdoti del Santuario ponessero grande attenzione all’osservanza delle mitzvòth e che non rischiassero quindi di trasgredirle; secondariamente per il fatto che le necessità del Tempio stesso erano sacre e richiedevano pertanto di essere permissivi in altri campi.
Tra i divieti che per molte generazioni furono al centro di discussioni, protrattesi per centinaia e forse migliaia di anni, va sottolineato il concetto di muqzé («messo da parte»). Si tratta sostanzialmente della proibizione di maneggiare oggetti e strumenti che non servono per azioni permesse di Shabbàth. L’ipotesi era che chi maneggia di Shabbàth uno strumento di lavoro rischia, per dimenticanza o per abitudine, di compiere un «lavoro proibito».
Secondo la tradizione talmudica, la proibizione venne applicata in modo assai rigoroso all’inizio del periodo del Secondo Tempio, ai tempi della kenésseth ha–ghedolà, mentre più tardi tornò ad essere controversa. Si tentò di creare delle categorie distinguendo tra cose vietate e altre sulle quali si poteva essere meno rigorosi, tra oggetti che non hanno alcun utilizzo essenziale di Shabbàth e altri che possono essere comunque utilizzati senza violare lo Shabbàth. Si cercò anche di introdurre un’altra distinzione, relativa allo scopo per il quale si tocca un oggetto muqzé. Anche qui vi furono dei chakhamìm che tendevano ad alleggerire i divieti, e altri che li volevano preservare nella loro forma originaria, e anche qui vi fu ampio spazio per sottili discussioni e differenziazioni tra oggetti e azioni diversi.
L’essenza dello Shabbàth non si limita al campo delle proibizioni, e in un certo senso si basa sul fatto che non è un giorno triste tutto caratterizzato dai divieti, al contrario di alcune imitazioni sorte presso altri popoli e in altri contesti culturali. L’espressione del profeta «chiamerai lo Shabbàth letizia» (Is. 58: 13) divenne una sorta di catalizzatore per una serie di usi che vanno sotto il nome di òfleg Shabbàth, gioia dello Shabbàth. Venne stabilito che di Shabbàth si consumassero tre pasti completi e che si indossassero abiti festivi. Anche la mitzvà dell’accensione dei lumi di Shabbàth trae la sua origine dall’esigenza di avere di Shabbàth un pranzo pieno di luce, di gioia e di serenità.
La mitzvà della Torà «ricorda il giorno di Shabbàth per santificarlo» (Es. 20: 8), che fondamentalmente ed essenzialmente è l’imperativo di sottolineare con parole e con gesti specifici l’entrata dello Shabbàth, assunse anch’essa una forma codificata e definita, come le altre benedizioni e preghiere. Si dette così vita al qiddùsh (consacrazione) di Shabbàth, in cui viene pronunciata una benedizione particolare bevendo un bicchiere di vino per la santificazione della festa. A questi usi festivi, incluso perfino «il sonno festivo di Shabbàth», vennero affiancati alcuni aspetti più spirituali, come l’obbligo di leggere una certa porzione della Torà nella mattina di Shabbàth e durante la preghiera p0meridiana, che nel corso delle generazioni prese il nome di parashàth ha–shavùa (brano della settimana). Ai tempi del Talmùd, la lezione pomeridiana del-costituiva parte integrante dell’essenza della giornata. Insomma, i chakhamìm conferirono a questo giorno il carattere di un giorno di santificazione, di riposo e di festa.
Un altro aspetto delle norme dello Shabbàth ha lo scopo di definire le aree, all’interno delle quali l’uomo vive e agisce, in cui si può muovere durante lo Shabbàth. Il principio generale che sottintende a questa visione restrittiva del concetto di riposo, inteso come mancato spostamento fisico, è già stato esposto. In effetti, si tratta della prima mitzvà prescritta dalla Torà in materia di Shabbàth, precedente perfino a quanto indicato nei Dieci Comandamenti: «che nel settimo giorno nessuno si allontani dal proprio luogo» (Es. 16: 29).
Questo precetto venne interpretato da varie sette e in specie dai Caraiti in senso letterale, presupponendo quindi il divieto di uscire di casa nel settimo giorno per qualsivoglia motivo. La Torà Orale è invece qui meno rigida, ma, proprio per questo, più complessa. Una prima definizione dell’area in cui all’ebreo è permesso spostarsi di Shabbàth è contenuta nel concetto di techùm Shabbàth (confine dello Shabbàth). Esso venne definito in larga misura in base alle opinioni dei tannaìm dell’epoca in cui gli ebrei abitavano nella loro terra, dove le nonne relative alla divisione del territorio ammettevano talvolta l’esistenza di aree attigue ai villaggi, estese duemila cubiti per ogni lato. La realtà di tutti i giorni poi, con i cambiamenti nelle condizioni di vita e i trasferimenti in abitati non più cinti di mura o in grandi città costruite in modo disorganizzato, fece sorgere numerosi problemi, e si resero necessarie regole più flessibili perfino nella definizione di «confine dello Shabbàth».
Il divieto di trasportare oggetti di Shabbàth riguardava invece una zona più ristretta in senso territoriale, ma assai rilevante in rapporto alla vita di ogni giorno. Si tratta di una proibizione antica che si sviluppò in modo significativo ai tempi del Secondo Tempio, quando fu necessario creare un modello analitico, non semplice ma coerente, che comprendesse ogni genere di costruzione, strada e cortile e risolvesse così le decine di casi dubbi che potevano insorgere. Tutto ciò doveva conciliare i divieti, espressi dalla Torà, con le restrizioni e le aggiunte più tarde dei chakhamìm del periodo del Secondo Tempio e dei loro discepoli, intese a semplificare la vita corrente.
In linea generale vennero definiti quattro reshujòth di Shabbàth (domini di Shabbàth)» (TB, Shabbàth 30a), ossia quattro tipi di territorio individuati sulla base dei loro confini e del loro utilizzo. Il primo tipo è il maqòm patùr (luogo aperto), per il quale non esiste alcuna limitazione dal punto di vista delle nonne del trasporto di Shabbàth. Quindi viene la karineilt (TB, Shabbàth 6a), un’area parzialmente edificata, campi e acque sui quali esistono determinati vincoli; poi la reshùth ha–jachìd, la proprietà privata, ben individuata e definita; infine la reshùth ha-rabbìm, la proprietà pubblica (TB, Shabbàth 4a), gli ampi luoghi pubblici di cui si serve sempre la moltitudine delle persone. La precisa definizione di queste aree, e l’individuazione del rapporto tra loro intercorrente, è già un argomento complesso di per sé, ma lo diventa ancor di più con l’introduzione del concetto di erùv (letteralmente «mescolanza»). L’erùv è in sostanza un ampliamento del concetto di confine e di demarcazione, che il Talmùd fa risalire allo stesso re Salomone. È chiaro che l’erezione di recinzioni ben costruite che effettivamente dividono proprietà diverse è di estrema importanza da ogni punto di vista per la definizione di quei luoghi, sia sotto l’aspetto delle nonne dello Shabbàth, che dei rapporti tra proprietà privata, pubblica ecc.
Con l’erùv si amplia la definizione di confine e di demarcazione per applicarla anche a forme di divisione non tanto evidenti, anche se altrettanto concrete per gli scopi che qui interessano. Si superano così i limiti di una concezione concreta e semplicistica di «recinzione» per giungere a un’altra più astratta e moderna, simile a quella di confine tra Stati, entità pubbliche, private ecc., ove il confine non è più una divisione fisica, ma un simbolo e un valore riconosciuto. Per questo motivo la massékhet Eruvìn nel Talmùd, che si occupa ampiamente ditali questioni, consiste di un insieme di controversie concrete e di analisi teoriche riguardanti l’essenza del confine.
In linea estremamente generale, si può dire che tutte le norme dello , così ricche di dettagli, rappresentano un sistema complesso di piccoli fattori e sottofattori, che traggono origine da alcuni semplici principi fondamentali e che alla fine danno vita a una costruzione quasi gotica formata da migliaia di elementi ben cesellati, che circondano un nucleo di base assai semplice.