Il Midràsh e la ricerca
Anna Arbib Colombo
“Sette settimane conterai per te” (Deut. 16, 9)
Durante il periodo che va da Pésach (festa che commemora l’uscita degli ebrei dall’Egitto) a Shavu’òt (tempo in cui fu data la Torà), ogni singolo ebreo è tenuto a mettere in pratica un precetto molto particolare: contare, cioè, i giorni e le settimane che intercorrono tra queste due solennità.
Tale precetto, tra l’altro, ha lo scopo di sottolineare l’importanza di una preparazione graduale, essenziale per poter accedere nel giusto modo alla Scrittura, e il compito di mettere in evidenza la necessità che tale preparazione sia personale ed individuale.
Ogni ebreo ha una sua strada per arrivare alla Torà e il suo dovere è quello di cercarla, di perseguirla e, poi, di trasmettere agli altri ciò che di nuovo ed essenziale egli ha sicuramente imparato. Solo la ricerca individuale può portare ad un rinnovamento e non può esserci vero studio senza una vera ricerca.
Il mondo del Midràsh (dalla radice DRSH, investigare, studiare a fondo) ha appunto il difficile compito di scoprire il senso più profondo della Scrittura, per rendere il messaggio in essa racchiuso sempre attuale e vitale per l’intera umanità e per il popolo ebraico in particolare.
Il termine “Midràsh”, dunque, indica il risultato di un’indagine esegetica del Testo sacro che venne praticata dai Maestri dell’epoca talmudica e dai loro continuatori.
I Midrashìm (plurale di Midràsh), che inizialmente dovevano essere tramandati oralmente (forse per distinguerli dal testo biblico, fisso ed immutabile) e che successivamente vennero esposti in varie raccolte, si possono distinguere in Midràsh Halakhà e Midràsh Aggadà.
Il Midràsh Halakhà è di contenuto giuridico e attraverso di esso i rabbini hanno fatto scaturire dal Testo tutte le norme che permettono l’applicazione della legge biblica nella vita quotidiana del singolo ebreo e della collettività. Il Midràsh Aggadà (di cui ci si occupa in questo volume), invece, riguarda tutto ciò che non è strettamente rituale e cerca di trovare il modo di rendere la Torà più vicina all’uomo, sensibilizzandolo verso problematiche inerenti il rapporto tra gli uomini e tra questi e Dio.
Molti di questi Midrashìm cercano di usare un linguaggio semplice, che colpisce, che incuriosisce e che spinge il lettore a porre questioni spesso essenziali per la vita sociale e spirituale dell’individuo. A tale proposito è a nostro avviso emblematico che spesso siano i bambini che con il loro modo diretto e intuitivo riescono a porre domande corrette e rilevanti circa il contenuto delle parabole dei Maestri e a fornire di frequente risposte di grande profondità e di grande valore.
I. Heinemann nel suo “Darché Hahalakhà” scriveva: “I Maestri del Midràsh non affrontano i problemi in maniera schematica e filosofica… bensì in maniera concreta e reale. L’idea astratta è resa con una immagine viva e reale”.
Il Midràsh, dunque, è uno studio che può unire genitori e figli, maestri ed alunni, ma deve essere trattato nel giusto modo, cercando di scoprirne il senso originale voluto dai Maestri. Accostarsi al Midràsh come ad un opera archeologica o come ad una semplice fiaba equivale di fatto a perdere la vera profondità del messaggio in esso racchiuso e a perdere inoltre gran parte dei significati della Torà.
Ci sembra essenziale concludere questa breve introduzione proprio con un breve Midràsh:
Nel trattato di Sanhedrìn è scritto: “Il Messia verrà in una generazione completamente colpevole”.
Il Midràsh, per spiegare questa problematica affermazione, usa una metafora:
“Un re aveva una figlia con la quale parlava quando la incontrava per strada. Divenuta ormai grande, il re capì che non era decoroso parlare con lei in pubblico e decise di costruire un palazzo perché continuassero a comunicare fra di loro in privato”.
Questo comportamento è paragonabile al rapporto tra Dio e il popolo d’Israele, che, all’inizio della sua storia, aveva bisogno di grandi manifestazioni divine. Dopo aver ricevuto la Torà, e perciò essere divenuto una nazione completa, il popolo costruì il Santuario, simbolo di un rapporto intimo con Dio e basato sull’interiorità, sul “cuore”. Così scrive infatti la Torà: “Farete per Me un Santuario e Io risiederò in mezzo a loro”.
Quando però, dopo la distruzione del Tempio, si perse questo rapporto così interiorizzato, si ebbe di nuovo bisogno delle grandi rivelazioni esteriori. E noi, che siamo la generazione completamente “colpevole” che vede sparire una così grande parte dei suoi figli a causa dell’assimilazione, noi che non riconosciamo più i miracoli, abbiamo bisogno delle rivelazioni intellettuali, di approfondire il rapporto con Dio attraverso lo studio; studio della Torà che, secondo i Maestri, porterà la venuta del Mashìach.
Tratto da “Midrashìm – Antichi racconti ebraici dal giornale “Per Noi”, Morashà 1999 – Esaurito
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