Tempio di via Eupili – Milano
Qual è l’atteggiamento ebraico nei confronti delle parole? La grandezza del popolo ebraico si manifesta attraverso le parole. Non essendo mai stato un popolo numeroso, il suo messaggio al mondo è stato trasmesso solo attraverso il potere della parola. Da quando Yitzchak disse: “La voce è la voce di Yaakov e le mani sono le mani di Esav” (Bereshit 27:22), la tradizione sostiene che la forza e la potenza del popolo di Israele giace nella sua bocca, nelle sue parole. Il messaggio della Torà è indicato come “le parole del patto” (Shemot 34:28). Ciò che il mondo occidentale chiama i Dieci Comandamenti, la nostra tradizione chiama “aseret hadibrot” – le “dieci parole”, e quando gli ebrei parlano di una gemma spirituale, dicono in ebraico un “devar Torà”, “una parola della Torà”. Ma le parole, nella nostra concezione, hanno una funzione ancora più universale.
Le parole sono la malta che lega l’uomo con i suoi simili. Senza l’ampio uso delle parole, gli esseri umani non si raggrupperebbero mai in una società, non ci può essere comunicazione, studio, scuola, società, civiltà, impresa o commercio. Onkelos, il grande traduttore aramaico della Torà, aveva questo in mente quando offrì una traduzione insolita del versetto della Torà in cui si riferisce che D-o soffiò l’alito della vita in Adamo: “Vayehi ha’adam lenefesh chaya”, che di solito traduciamo con “E l’uomo divenne un’anima vivente” (Bereshit 2:7). Onkelos lo traduce: “Ed esso (il soffio di D-o) divenne nell’uomo uno spirito parlante”. L’anima vivente dell’uomo è il suo spirito parlante. L’unicità dell’uomo, il suo intelletto, sarebbe muto e silenzioso se non fosse per la sua capacità di usare le parole e quindi articolare le sue idee razionali e i sentimenti del suo cuore.
Una parola ha una vita, una biografia, un carattere e un’anima propri ma la parola può anche dare vita o togliere vita all’essere umano. Una parola può ripristinare e una parola può uccidere. Una parola può dare a un uomo la reputazione di saggezza o contrassegnarlo come uno sciocco. Per questo motivo, l’ebraismo considera le parole qualcosa di più di semplici unità verbali, qualcosa di più di un’altra forma di comunicazione. Le parole sono – o dovrebbero essere – sante.
Quando la Torà ordina di non infrangere la propria parola, dice: “Lo yachel devaro” (Bamidbar 30:3). I Chachamim notano nel Talmud Yerushalmi (Nedarim 2:1) che yachel è una parola insolita e la spiegano come il divieto di profanare la propria parola. Solo ciò che è santo può essere reso profano, quindi le parole dell’uomo quindi devono essere sante.
Nella nostra Parashà leggiamo: “E Avraham venne a piangere per Sara”. La parola “livkotà”, piangere, (Bereshit 23:2) nel Sefer Torà è scritta con una lettera kaf che è più piccola del normale. È un kaf ketana, un kaf in miniatura. Perché?
Il Ba’al haTurim spiega che Avraham non pianse né parlò troppo. Naturalmente Avraham ha detto qualcosa, ha fatto un’elegia funebre, quasi sicuramente ci sono stati pianti, lutti ed elogi. Di sicuro Avraham ha dato un’espressione articolata al dolore che gli sgorgava dal petto perché un uomo che non può esprimere il suo dolore e i suoi sentimenti è come un uomo che mantiene il veleno dentro. Non piangere può essere psicologicamente pericoloso, ma anche il pianto non deve essere esagerato. Avraham ha capito che troppe parole sono una fuga dal confronto con la realtà, che usando troppe parole avrebbe dissipato i veri sentimenti che aveva dentro di sé. Voleva che rimanesse qualcosa, qualcosa di deliziosamente privato, dolorosamente misterioso, qualche residuo di memoria e amore e affetto per Sara che non voleva condividere con il resto del mondo. E così la kaf ketana ci viene ad indicare che Avraham sapeva come limitare lo sfogo delle sue parole.
Nel mondo d’oggi siamo dominati da un’industria delle comunicazioni. Viriamo costantemente tra incontri e discussioni, simposi e forum, conferenze e sermoni, pubbliche relazioni e propaganda. Siamo perseguitati continuamente da radio, televisione e telefono, siamo la civiltà “più parlante” di tutta la storia. Abbiamo disperatamente bisogno di quella kaf ketana. Lo stesso Moshè era un balbuziente e a causa di questo pronunciò poche parole, ma qualunque cosa dicesse fu incisa in lettere di fuoco sulla coscienza del popolo. Shammai nei Pirkè Avot ci ricorda: “Parla poco, ma fai molto” (Pirkè Avot 1:15). Altri Chachamim hanno detto che “La via per la saggezza passa attraverso il silenzio” (Pirkè Avot 1:17). Il Ba’al Shem Tov, intende la stessa cosa in un commento relativo al comando che D-o dà Noach: “Farai luce per l’arca”. La parola ebraica usata per l’arca costruita da Noach – Tevà – significa non solo “arca” ma anche “parola”. Il comando che Noach riceve, quindi può essere inteso in questo modo: Rendi ogni parola brillante, viva, splendente, scintillante e illuminante. Usa la parola per illuminare, non per confondere.
Le parole sono importanti e potenti, quindi sono sacre e, poiché sono sacre, devono essere usate con grande, estrema cautela. Le parole comunicano il nostro stato d’animo, ma possono comunicare molto di più. Possono essere un supporto, un incoraggiamento, un elogio ben speso delle qualità uniche del prossimo. La comunicazione è molto importante, la comunicazione corretta lo è molto di più. Attraverso l’uso corretto della parola possiamo stabilire relazioni durature e costruttive, possiamo creare benessere e armonia. Possiamo in definitiva, attraverso l’uso corretto della parola, contribuire a creare un mondo migliore.