Nei giorni di Chanukkah si legge la parashah relativa alle offerte dei capi-tribù in occasione dell’inaugurazione dell’Altare del Mishkan nel deserto ai tempi di Moshe (chanukkat ha-mizbeach; Bemidbar 7). Il capitolo è preceduto dai versetti della Birkat Kohanim e si conclude con le istruzioni date ad Aharon il Kohen Gadol su come accendere la Menorah. Sul piano cronologico, va ancora osservato, questo resoconto nella Parashat Nassò non è che il seguito di ciò che la Torah aveva già cominciato a narrare nella Parashat Sheminì (Wayqrà 9; Abrabanel). Lì veniamo a sapere che l’inaugurazione ebbe luogo il 1 Nissan. Il Midrash spiega che il Mishkan sarebbe già stato pronto il 25 Kislev ma il S.B. preferì posticipare la cerimonia all’inizio del mese in cui ricorreva il primo anniversario dell’uscita dall’Egitto ovvero, secondo un’altra versione, in cui erano nati i Patriarchi. “E’ il mese in cui la Shekhinah illumina il mondo e il Mishkan aveva il compito di dar luce al mondo” (Seder ‘Olam Rabbà, 7). Il S.B. “risarcì” Kislev della Chanukkah mancata ai tempi di Moshe dedicandogli più tardi un’altra Chanukkah sotto gli Asmonei. Da allora continuiamo a illuminare il mondo con l’accensione della Chanukkyah nelle nostre case nonostante la distruzione del Bet ha-Miqdash.
A ben vedere la relazione fra le due inaugurazioni va assai oltre la coincidenza di nome e, in un certo senso, di data. Entrambe vedono protagonisti i due rispettivi Kohanim Ghedolim dell’epoca: Aharon da un lato, nell’atto di assumere per primo l’incarico e Mattatyah ben Yochanan dall’altro. Nel duplice racconto della Torah non solo Aharon accese per la prima volta la Menorah (anticipazione profetica della Chanukkyah), come testé ricordato, ma offrì il suo primo sacrificio nell’ottavo giorno (ba-yom ha-sheminì) al termine dei “sette giorni di preparazione” (shiv’at yemè ha-milluim). Il numero otto avrà un’importanza centrale nella Chanukkah più tarda, quella che tuttora festeggiamo.
Per capirne il significato prendiamo in considerazione i sacrifici con cui ai tempi di Moshe suo fratello Aharon inaugurò il Mishkan nel deserto. Fra gli animali immolati a vario titolo, egli portò sull’altare due offerte espiatorie (chattat): un vitello (‘eghel) che mise a disposizione di tasca sua e un capro (se’ir ‘izzim) offerto dai Figli d’Israel (Wayqrà 9, 2-3). Il Mishkan iniziava una nuova era nella storia del popolo ebraico ed era necessario che ciascuno facesse i conti con il passato. Ad Aharon fu richiesto di espiare la trasgressione del vitello d’oro di cui si era reso responsabile (Rashì ad loc.). Gli ci vollero otto giorni, di cui sette di segregazione, per ottenere il perdono della colpa di idolatria. Analogamente e parallelamente al tempo dei suoi successori Asmonei ci sarebbero voluti gli otto giorni di Chanukkah per superare le impurità provocate nel Bet ha-Miqdash dai Greci politeisti e dai loro sostenitori ellenizzanti (mityawwenim) e ristabilire, attraverso il miracolo dell’ampolla d’olio ritrovata intatta, l’idea della superiore Provvidenza dell’Unico D. Il miracolo sancì la vittoria definitiva del monoteismo sull’idolatria.
Resta da comprendere il senso del secondo animale offerto a suo tempo da Aharon: il capro. Egli lo sacrificò, si è detto, a nome del popolo questa volta. Quale “peccato originale”, nel senso di trasgressione all’origine della nazione, avrà commesso il popolo? Quale peccato avrà pesato sulla coscienza della collettività con una gravità parallela alla colpa del vitello d’oro per Aharon? Infine quale colpa avrà avuto per protagonista un capro? La risposta è nella Parashat Vayeshev che quest’anno leggiamo proprio nello Shabbat di Chanukkah. Dopo aver venduto Yossef in Egitto, i fratelli ne simularono lo sbranamento per far credere al padre che era morto accidentalmente. A questo scopo “scannarono un capro (se’ir ‘izzim) e intinsero nel sangue la tunica” a strisce che Ya’aqov aveva donato a Yossef come segno distintivo (Bereshit 37, 31). Se a Aharon toccò lavare la trasgressione di idolatria, peccato capitale nelle relazioni fra l’uomo e D., il popolo dovette fare i conti con la colpa non meno grave della fratellanza mancata, peccato capitale nei rapporti fra l’uomo e il suo prossimo (Kelì Yeqar ad loc.). Dall’episodio del capro prese le mosse tutta la storia successiva, incentrata sulla discesa della famiglia in Egitto, la schiavitù e la successiva liberazione.
Dove ritorna il tema della fratellanza, questa volta recuperata, a proposito della festa di Chanukkah? In almeno due vicende centrali. Nella storia dei sette figli di Channah che, costretti dai Greci con la tortura a mangiare carne proibita, preferirono farsi uccidere tutti piuttosto che cedere (2Maccabei 7; cfr. Ghittin 57b), leggiamo un fulgido esempio di fratellanza nel martirio. Nella successiva rivolta ordita dai cinque figli di Mattatyah l’Asmoneo (1Maccabei 2) troviamo un altrettanto fulgido esempio di fratellanza nella riscossa. Non è escluso che il messaggio sia intenzionale. È noto che a differenza di altre feste Chanukkah non ebbe un trattato nella Mishnah a essa dedicato. Fra le tante motivazioni addotte vi è chi insiste sul fatto che Chanukkah, bene o male, fu il prodotto di una guerra civile, che vide ebrei contrapporsi ad altri ebrei: a prescindere dalle rispettive ragioni delle parti resta un fatto profondamente negativo (cfr. Gerald Blidstein, Hanukkah in HaZaL, The Missing Players, in “Tradition” 35, 2001, p. 20-23). Il richiamo all’attualità è drammaticamente evidente. Chanukkah ci insegna che se vogliamo dare seguito al nostro sublime compito di essere luce per le nazioni (or ‘ammim), la saldezza nella fede è certamente un prerequisito necessario e imprescindibile, ma non ancora sufficiente: dobbiamo saperci presentare uniti davanti al mondo.
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