Ci avviciniamo ormai a Chanukkah ed è tempo di soffermarci, sia pur brevemente, sui Piyutim del Chag ha-Urim, la Festa delle Luci. Il più famoso è certamente Ma’oz Tzur che peraltro fino a non molti anni fa era cantato subito dopo l’accensione dei lumi solo nelle Comunità di rito askenazita dove, come vedremo, ha avuto origine, mentre era del tutto sconosciuto altrove. La Shoah e soprattutto la creazione dello Stato d’Israele hanno da un lato risvegliato il nostro orgoglio nazionale che si è identificato con la festa di Chanukkah e il suo messaggio di autodeterminazione nei confronti dei persecutori di ogni tempo e luogo. Contemporaneamente si è venuta a creare una sorta di melting pot all’interno del popolo ebraico per cui Ma’oz Tzur è stato accolto anche in altri riti come quello italiano. Avrà contribuito a ciò anche la sua melodia, che è a sua volta riconducibile a ben precisi motivi musicali popolari tedeschi del Quattrocento ed è ormai l’unica nota in tutto il mondo (sebbene nelle Comunità ashkenazite in Italia fosse cantata in altro modo).
La versione originale del testo che noi conosciamo è costituita da sei strofe. Solo la prima (Ma’oz Tzur Yeshu’atì) e la quinta (Yewanim niqbetzù ‘alay) parlano del miracolo di Chanukkah e non a caso sono le più conosciute. Le strofe centrali ripercorrono le altre liberazioni di cui ha beneficiato il nostro popolo, rispettivamente quella dall’Egitto che festeggiamo a Pessach (Ra’ot save’ah nafshì), quella dalla Babilonia (Devir qodshò heviani) e quella da Haman di Persia che ricordiamo a Purim (Kerot qomat berosh biqqèsh). La sesta strofa, infine, riprende il tema della speranza nell’avvento del Mashiach e nella redenzione di Israel cui già si alludeva nella prima. Il Piyut presenta dunque la storia ebraica come un cammino graduale, sofferto, ma coerente verso la Gheullah.
Dell’autore conosciamo solo il nome, Mordekhay, grazie all’acrostico delle lettere iniziali delle prime cinque strofe, mentre le iniziali delle prime tre parole dell’ultima strofa (Chassof zeròa’ qodshekha) formano la parola chazaq (“sii forte”), corrispondente all’augurio/complimento che il pubblico rivolge a chi termina la lettura di ciascuno dei cinque libri della Torah nel BHK e più in generale a chi abbia appena compiuto una Mitzwah. Alludere a questa espressione al termine di un acrostico negli ultimi versi è abitudine largamente attestata nella poetica ebraica medioevale. Non sappiamo con esattezza chi sia questo Mordekhay. Leopold Zunz, lo studioso ottocentesco, lo identifica con Mordekhay ben Itzchaq compositore della Zemirah di Shabbat Mah Yafit, vissuto in Germania verso il 1250, ma è una pura congettura. Qua e là nel corso del Piyut vi sono allusioni dotte alla figura biblica di Mordekhay e non solo nella strofa dedicata a Purim, dove la parola berosh (“cipresso”) ricorda l’appellativo rosh che il Talmud dà proprio a Mordekhay chiamandolo “capo delle essenze profumate” (perché mor significa a sua volta “mirra”; cfr. Shemot 30,23; Meghillah 10b). Gli Ebrei sono a un certo punto chiamati Shoshannim (lett. “rose”). Commentando il versetto: siftotaw shoshannim notefot mor ‘over, “le sue labbra sono rose che stillano mirra” (Shir 5,13), il Talmud spiega che si riferisce alle persone dedite allo studio della Torah (Shoshannim = she-shonim, “che studiano”) come Mordekhay a suo tempo (Shabbat 30b). Adoperando questo termine il poeta allude qui al fatto che il miracolo della salvezza è avvenuto per merito di questi.
La rima, largamente introdotta nella poesia ebraica medioevale, si presenta qui con caratteristiche molto sofisticate. Ogni strofa è costituita da otto brevi versetti. I primi quattro rimano ABAB, il quinto, il sesto e l’ottavo (conclusivo) BBB, mentre il settimo è diviso in due parti che rimano fra loro CC. Il testo è come sempre intessuto di citazioni e reminiscenze bibliche intrecciate fra loro già a partire dall’espressione iniziale Ma’oz Tzur Yeshu’atì (“Roccaforte della mia salvezza”) con cui il poeta si rivolge al S.B., che richiama Yesha’yahu 17,10 (We-Tzur Ma’uzzekh lo zakhart, “E non ti sei ricordata della Tua Roccaforte”) e ancor più Tehillim 31,3 (Heyeh li Tzur Ma’oz lehoshi’eni, “Sii per me una Roccaforte per salvarmi”), ma lo stile è in genere molto più intenso, diretto e talvolta persino crudo nell’affrontare i temi del rapporto con il nemico rispetto al tono medio della poesia ebraica e ciò fa pensare che sia stato scritto in un’epoca buia.
A questo proposito vale la pena di soffermarci sull’ultima strofa, che già nel XV secolo alcuni omettevano (R. Moshe Isserlein in Leqet Yosher, Orach Chayim), tanto da non essere più riportata in molti Siddurim, ed è stata persino oggetto di riscritture. Essa contiene di fatto un anatema: “Denuda il Tuo braccio Santo –dice l’autore rivolgendosi a D.- e avvicina il compimento della salvezza. Vendica la vendetta del sangue dei Tuoi servi sulla nazione malvagia (che l’ha versato)”. L’ultima parte è criptica. “Respingi il Rosso (appellativo che allude probabilmente a Esaù-Edom, cioè a Roma e alla Chiesa) nell’ombra della morte (dove la parola tzalmon è forse un adattamento della parola tzalmàwet alla rima con admon –cfr. Tehillim 23,4, 68,15) e fa’ sorgere per noi i Sette Pastori”. Quest’ultima è un’immagine significativamente tratta da Mikhah 4,5: “Allorché gli Assiri giungeranno nel nostro territorio e calpesteranno i nostri palazzi –afferma il Profeta- faremo sorgere contro di loro sette pastori che pascoleranno la terra d’Assiria con la spada”. L’immagine è poi reinterpretata in chiave messianica nel Talmud Sukkah 52b, che identifica i Sette Pastori nel re David circondato da Adam, Shet e Metushelach da un lato e da Avraham, Ya’aqov e Moshe dall’altro: simboli rispettivamente dei Giusti fra le Nazioni e dei Giusti del nostro popolo.
Yom Tov Levinski ha ritenuto di trovare negli ultimi due versetti la chiave per ricostruire la genesi dell’intera poesia che sarebbe stata composta, a suo dire, intorno al 1190, anno della morte di Federico Barbarossa. L’imperatore di Germania si era fatto promotore della III Crociata contro Saladino, che era riuscito a rimpadronirsi di Yerushalaim dopo 88 anni di dominio cristiano. La strofa rivelerebbe che l’inno è espressione degli Ebrei tedeschi esasperati dalle violenze perpetrate dai Crociati nei loro confronti sulla via della Terra Santa. Per comprendere il testo, occorre ancora aggiungere che tzalmon deriva da tzelem (“immagine, icona” in greco) e andrebbe riletto così: “Respingi il Barbarossa all’ombra di Iconio”. In effetti in questa località dell’Asia Minore l’Imperatore batté i Saraceni, ma trovò egli stesso la morte poco dopo, annegato misteriosamente nelle acque del fiume Salef in Cilicia. Il quadro storico spiegherebbe anche perché la strofa sia stata presto “archiviata”, per non suscitare ulteriori ire dei “vicini di casa” cristiani i quali nel frattempo rielaboravano il lutto della scomparsa improvvisa del loro imperatore immaginando una sorta di sua resurrezione alla fine dei tempi. Gli Ebrei tedeschi, d’altronde, vissero quei momenti come una sorta di nuova Chanukkah: essi appoggiavano Saladino e videro nella sconfitta dei Crociati, paragonati ai Greci, un intervento Divino a difesa di Yerushalaim assimilabile a sua volta a quello che ci salvò al tempo degli antichi Maccabei, che cacciarono gli invasori idolatri e riconsacrarono il Tempio.