La laicissima rivista Ha Kehillah rasenta il misticismo quando si interroga sull’identità ebraica dettata dall’antisemitismo. Bel numero da leggere con attenzione
Anna Segre
Perché ci odiano? Manuel Disegni sul numero scorso di Ha Keillah ci ha messo in guardia da questa domanda con argomentazioni assolutamente stringenti. Cercare una caratteristica peculiare comune a tutti gli ebrei, sia pure positiva, che spieghi l’antisemitismo significa fare il gioco degli antisemiti. Eppure è una trappola in cui cadiamo spesso: ci odiano perché siamo colti, ci odiano perché amiamo lo studio, ci odiano perché siamo anticonformisti, ci odiano perché combattiamo tutte le idolatrie, ci odiano perché siamo così, ci odiano perché siamo cosà.
Peraltro, sarà poi vero che gli ebrei nel corso della storia sono stati odiati/perseguitati/discriminati più di altri gruppi che si trovavano in condizioni analoghe? È mail esistita nella storia dell’umanità una religione o etnia che sia vissuta per secoli come minoranza in un luogo senza essere prima o poi perseguitata o per lo meno malvista? Sospetto di no. Il fatto è che noi ebrei siamo stati odiati e perseguitati molto, e da molti popoli diversi; ma questo ovviamente accade perché esistiamo da millenni e siamo stati presenti in molti luoghi e contesti storici diversi. Molti popoli sono stati odiati solo per periodi brevi, al termine dei quali sono stati completamente annientati, o costretti a forza ad assimilarsi alla cultura egemone. Insomma, hanno smesso di essere odiati perché hanno smesso di esistere. Non mi sembra un grande vantaggio.
Dunque la specificità degli ebrei sta nella durata?
Però a questo punto sarebbe opportuno porre un altro problema: quanto c’è di vero in questa immagine di un popolo che attraversa i secoli e i continenti rimanendo sempre fedele a se stesso e sostanzialmente sempre uguale? Possiamo davvero affermare che noi siamo proprio quegli stessi ebrei di 3500 anni fa più di quanto un greco di oggi possa legittimamente sentirsi appartenente allo stesso popolo di Ulisse e di Pericle? O più di quanto un peruviano si senta inca, un messicano si senta azteco, un rumeno si senta discendente dei Daci (ricordo alcuni anni fa un allievo rumeno sinceramente indignato contro Traiano e i Romani che “hanno rubato il nostro oro!”), un italiano di oggi (compresi noi ebrei italiani) si senta il legittimo erede di Giulio Cesare, di Virgilio, di Dante o di Giotto?
La risposta a questa domanda non è affatto scontata. Cos’abbiamo davvero in comune con gli abitanti di Eretz Israel di tremila anni fa? Il modo di vestire? I cibi? O forse la lingua? Ma quanti ebrei della diaspora oggi parlano ebraico? O lo parlano in modo sufficiente a fare qualcosa di più che ordinare un falafel (che peraltro è un cibo palestinese, che non ha niente a che fare con la tradizione ebraica)? E quanto l’ebraico di oggi somiglia a quello di allora, con la tet e la tav che avevano due pronunce diverse, per non parlare della alef, della he e della ain?
Be’, si dirà, abbiamo in comune la religione, le tradizioni, i riti; celebriamo le stesse feste nelle stesse date, digiuniamo a Kippur, ci asteniamo dai cibi lievitati a Pesach, ecc. Non è un miracolo? Sì, ma vale la pena di ricordare che allora celebrare Pesach significava andare a fare sacrifici al Tempio di Gerusalemme, osservare lo Shabbat non voleva dire usare la plata e il timer, la poligamia era non solo legittima ma normale. Senza contare che molti ebrei di oggi non osservano affatto le mitzvot. D’accordo, abbiamo in comune i principi etici: ama il tuo prossimo come te stesso, non seguire la maggioranza per fare il male, chi uccide un uomo uccide un mondo, chi salva la vita di un uomo è come se avesse salvato il mondo intero, ecc. Ma quale tra le grandi religioni di oggi non fa propri questi principi? Anzi, ciascuna ritiene di esserne la sola autentica depositaria e custode.
Insomma, viene il sospetto che il nostro orgoglio di esistere ancora mentre gli altri popoli antichi sono scomparsi possa essere più un’autorappresentazione che una realtà oggettiva.
Quindi forse la domanda corretta da fare non dovrebbe essere “Perché gli ebrei nel corso della storia sono stati sempre odiati?” e neppure “Perché gli ebrei esistono da millenni mentre gli altri popoli antichi hanno cessato di esistere?” ma “Perché esiste un gruppo di persone che per millenni si è sempre autorappresentato come popolo – e così è stato visto quasi sempre dagli altri – pur vivendo quasi sempre come minoranza in luoghi e contesti diversissimi tra loro?”
Non credo sia facile dare una risposta razionale a questa domanda. Ma è poi davvero una domanda corretta? Siamo proprio sicuri che nessun altro popolo o gruppo di persone al mondo si autorappresenti in questo modo, vantando una continuità di millenni che viene dimostrata esaltando le somiglianze e glissando sulle differenze?
Finora ho cercato di ragionare in termini razionali. Ma quanto siamo capaci di essere razionali quando è in gioco la nostra identità? Io, lo confesso, quasi per nulla. C’è una parte di me che in fondo non crede neppure a mezza parola di quanto ho scritto finora. C’è una parte di me che ad ogni Pesach si considera personalmente uscita dall’Egitto, convinta che “in ogni generazione si levano contro di noi per distruggerci”, che pensa con orgoglio e divertita compassione a Orazio che derideva l’osservanza dello Shabbat mentre si augurava di essere letto “finché il pontefice salirà con la vergine silenziosa al Campidoglio” (per sua fortuna gli è andata meglio di così), che si sente investita della missione di convincere l’umanità ad abbandonare ogni forma di idolatria.
E quanto è facile trovare spiegazioni razionali per questa irrazionalità! Quanto è facile trovare dati oggettivi che la sostengono! Non è forse sconcertante la somiglianza tra il discorso di Hamman nella Meghillat Ester e quello che Tacito scrive sugli ebrei nelle Historiae? Non è straordinaria la persistenza dell’antisemitismo anche in paesi senza ebrei? Non è incredibile la quantità di ebrei tra i rivoluzionari, gli innovatori, i creatori di nuove teorie? Non è eccezionale la percentuale di Premi Nobel ebrei?
D’altra parte, in quanto italiani non siamo forse orgogliosi dei ponti e degli acquedotti romani che resistono ancora qua e là per l’Europa, il Nord Africa e il Medio Oriente? Non è forse vero che nessun altro popolo ha prodotto così tante opere d’arte (e in tante epoche diverse) come gli italiani? Non è forse vero che le città italiane sono le più belle del mondo? Non è forse vero che la cucina italiana è la più diffusa e apprezzata?
Il nostro orgoglio di italiani forse ci aiuta a relativizzare il nostro orgoglio di ebrei (e viceversa). Perché i casi sono due: o abbiamo avuto l’incredibile fortuna di appartenere ai due popoli più eccezionali di tutti (inutile dire che la mia parte irrazionale mi dice che è proprio così che stanno le cose), oppure dobbiamo ammettere che questa convinzione di eccellenza è probabilmente comune a tutte le culture e a tutti i gruppi umani. Ognuno ha le proprie ragioni di orgoglio, secondo i propri criteri, e per fortuna le possibili motivazioni per essere fieri sono innumerevoli e ce n’è per tutti.
La convinzione di appartenere a un gruppo eccezionale per qualche ragione – e magari odiato proprio per questo – a mio parere, se presa nelle giuste dosi, non è dannosa, anzi, genera un utile senso di responsabilità. Però credo che dovremmo imparare a tenere nella nostra testa ben distinti il piano della storia e quello della leggenda, il piano delle convinzioni razionali e quello delle autopercezioni simboliche. Le confusioni tra realtà e mito sono pericolose se non altro perché legittimano le confusioni altrui. Se cerchiamo di spiegare razionalmente la nostra presunta superiorità secondo alcuni criteri non possiamo poi lamentarci se qualcun altro, sulla base di altri criteri, proclama la propria; se ci sentiamo in diritto di interpretare la storia ebraica secondo categorie teologiche, non abbiamo poi più argomenti contro chi fa altrettanto con la propria storia. Se noi ebrei cerchiamo di spiegare razionalmente che siamo diversi ed eccezionali non abbiamo poi più armi contro chi ci considera diversi ed eccezionalmente pericolosi.