«È stata un’esperienza dolorosa e credo andasse ricordata in altro modo». A cinquecento anni dalla sua fondazione, parla l’autore della «Storia del ghetto di Venezia», Riccardo Calimani «La sua costruzione non un problema ebraico ma del mondo cristiano»
Claudio Madricardo
Che Riccardo Calimani non abbia bisogno di presentazioni per quanto attiene la sua figura di scrittore di storie d’ebrei conosciutissimo in Italia e, tramite le traduzioni, in molte parti del mondo, è a dir poco lapalissiano. Non si contano i titoli che ha sfornato nel corso di decenni dalla sua fortunatissima Storia del Ghetto di Venezia. Sfuggono però a un normale lettore che non abbia avuto la ventura di essersi almeno una volta imbattuto nell’uomo Calimani tutte quelle sfumature che provengono dalla sua persona. E sono tante. Dall’apparente ruvidezza del tratto, innanzitutto. A una certa sbrigatività nel comportamento che a poco a poco cangia in giovialità e calore umano. Alto sguardo sempre attento e divertito. Percorso da curiosità e autoironia che non l’hanno abbandonato per un solo istante durante tutta la nostra lunga conversazione.
Lei ha lavorato molto sia sugli ebrei italiani sia su quelli veneziani. Esiste una specificità degli ebrei veneziani rispetto agli altri?
“Ho scritto la Storia del Ghetto di Venezia trent’anni fa e devo dire che mi sono stupito che se ne accorgano adesso perché cadono i cinquecento anni della sua apertura. Quando proposi il mio libro la prima volta, tutti mi dissero che era un argomento che non interessava nessuno. Dopo di che il libro si è venduto per tanti anni e ora tutti sembra che se ne occupino. Il Ghetto di Venezia é importante per due motivi. In primo luogo perché è a Venezia. E Venezia rende tutto speciale. In secondo luogo il Ghetto è nato e si è strutturato nei decenni alI’inizio con la nazione tedesca i cui membri erano prestatori. Facevano cioè attività bancaria ed erano obbligati a prestare. pena l’allontanamento dalla città. Poi con i levantini che erano mercanti che avevano grandi legami internazionali e spagnoli cacciati dalla Spagna nel 1942. Quindi con i ponentini che erano marrani cattolici in Spagna che una volta giunti in Italia avevano riabbracciato l’ebraismo. In pratica erano tre gruppi diversi per lingua, mentalità e cultura che una volta messi nel Ghetto hanno saputo dare una fusione particolarmente interessante. Sono stati uno strumento importante nelle mani della Serenissima Repubblica soprattutto da un punto di vista economico. Il Ghetto nasce come privazione della libertà ma poco a poco all’interno si crea un regime giuridico di massima libertà. Perché la Repubbllca faceva sì un accordo duro sulla condotta degli ebrei, ma lo rispettava. Tanto che non li ha mai espulsi per trecento anni. La condotta era un accordo che si basava sul reciproco interesse».
Quali fonti e archivi ha studiato nelle sue ricerche?
“Essenzialmente le opere già uscite come prima base. Per il ‘700 sono andato in cerca di fonti dirette come tutti gli atti emessi dalla Serenissima nei confronti del Ghetto. Io non sono uno storico di professione, sono un curioso di professione. Il che mi ha permesso una Iiibertá di ricerca che gli storici non hanno. In genere gl i storici studiano un periodo di trent’anni. Io invece ne ho studiato uno di trecento».
Veniamo alla ricorrenza del quinto centenario. Cosa sta facendo la comunità ebraica veneziana?
“Non lo so perché non andrò nemmeno all’inaugurazione perché ritengo che non ci sia nulla da celebrare. L’idea di andare a sentire i discorsi ufficiali un po’ pomposi per mettersi in mostra non mi piace. II Ghetto di Venezia è stato un’esperienza dolorosa e credo che avrebbe dovuto essere ricordato con un livello di attenzione un po’ più basso e più maturo. Non c’era nessun bisogno di farla diventare una celebrazione. La nascita del Ghetto non é un problema ebraico, è un problema del mondo cristiano. Come per l’Inquisizione, il mondo cristiano dovrebbe domandarsi perché é stato fatto questo».
Comunque la cosa ha assunto un rilievo internazionale.
“Io non sono un antipatizzante del Ghetto ma non c’è nulla da esaltarsi, e questa esïbiztone è sbagliata. Non é corretta storicamente ed è frutto dl un desiderio degli ebrei di mettersi in mostra. Non abbiamo santi da esibire? Esibiamo la segregazione di cinquecento anni nel Ghetto. A me l’esperienza del Ghetto nella quale credo fermamente m’insegna alcune cose che non sono quelle che magari sono comunemente pensate. Essendo minoranza nella comunità cristiana, mi posso permettere anche di essere minoranza nella comunità ebraica. Comunque quando trenta anni fa ho fatto il libro, il Ghetto non lo conosceva nessuno. Ora il Ghetto é un simbolo».
Che differenze ha rispetto a quello di Roma?
“Fondamentali. Il Ghetto di Venezia nasce per questioni economiche. La Repubblica dice “mi servi per l’economia, va bene facciamo degli accordi”. Con i banchieri e con i mercanti. A Roma la filosofia che comanda è quella di Sant’Agostino che prescrive di tenere in vita il popolo di Israele perché è il popolo di Gesù, e concuIcarlo perché non ha conosciuto la vera fede. A Roma c’erano le prediche coatte, che qui non si facevano. Le conversioni forzate. Insomma l’atmosfera a Roma era molto più cupa che a Venezia. Da un punto di vista delle classi sociali, a Roma gli ebrei erano strazzaroli e ambulanti. Anche a Venezia c’era molta povertà, s’intende, ma anche la presenza di classi sociali più alte. Comunque il primo Ghetto a nascere è quello di Venezia. Roma la segue nel 1555».
Poi l’ipocrisia dei cristiani ha fatto sì che nell’immaginario collettivo l’ebreo finisse per essere associato alla flgura dell’usuraio.
«Marghera ci insegna che è molto più facile inquinare che disinquinare. È evidente che anche le menti si possono inquinare di false idee. Il fascismo, la propaganda dell’antigiudaistno nel corso dei secoli e dell’antisemitismo moderno dalla fine dell’800 in poi hanno inquinato le menti».
Sta lavorando a qualcosa in particolare in questo momento?
«Si, sto concludendo una storia degli ebrei di Roma, per scrivere la quale ho dovuto leggere un centinaio di libri su Pio XII. E non ne posso più».
E poi?
«Poi mi piacerebbe finalmente fare una storia di Venezia. Ma questa volta senza gli ebrei».
L’Unità 17.3.2016