Il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) citando la mishnà in‘Eduyòt (2:10), scrive che le piaghe d’Egitto durarono un anno. La prima piaga, quando l’acqua del Nilo si trasformò per sette giorni in sangue, ebbe luogo nel mese di Av. Seguirono le rane nel mese di Elul, i pidocchi nel mese di Tishrì, animali feroci in Cheshvan, la mortalità degli animali in Kislev, le ulceri in Tevet, la grandine in Shevat, in Adar le locuste e in Nissan i tre giorni d’oscurità, e a mezzanotte tra il 14esimo e il 15esimo giorno dello stesso mese, la morte dei primogeniti.
In questo periodo di “negoziati” tra Moshè e il Faraone, la risposta di quest’ultimo alle piaghe divenne gradualmente più arrendevole. Dalla prima risposta in cui disse: “Chi è il Signore che lo deva ascoltare?” a quella all’arrivo della piaga delle locuste, avvennero sostanziali cambiamenti.
Annunciando la piaga delle locuste, Moshè disse al Faraone: “Se tu rifiuti di lasciar andare il mio popolo, ecco, domani farò venire delle locuste in tutta l’estensione del tuo paese” (Shemòt, 10:4). Il Faraone, che all’inizio non aveva neppure voluto ascoltare quello che Mosè gli diceva, a questo punto mostrò che era disposto a trattare dicendo: “Andate, servite l’Eterno, l’Iddio vostro; ma chi sono quelli che andranno?” (Ibid., 8). Moshè gli rispose: “Noi andremo coi nostri giovani e coi nostri vecchi, coi nostri figli e con le nostre figlie; andremo coi nostri greggi e coi nostri armenti, perché dobbiamo celebrare una festa all’Eterno (ibid., 9). Il Faraone cercò tenere i giovani come ostaggi e disse: “Andate voi uomini, e servite l’Eterno; poiché questo è quel che cercate” (ibid., 11). L’incontro terminò a quel punto perché Moshè non era disposto a lasciare i bambini come ostaggi in Egitto.
R. Joseph Pacifici (Firenze, 1932-2021, Modiin Illit) in Hearòt ve-He’aròt (p.71) utilizza la risposta di Moshè al Faraone per commentare che non possiamo rinunciare all’educazione dei nostri figli e abbandonarli all’indottrinamento del regime che si trova al potere. Questo è il motivo perché li vogliamo prendere con noi.
Alla fine del Settecento vi fu una proposta di modificare l’educazione dei bambini ebrei per adattarla ai nuovi venti ideologici dell’epoca. R. Yishma’el Hakohen, al secolo Laudadio Sacerdote (Modena, 1724-1811), rav di Modena, si oppose a quella proposta. Egli rispose (Responsi Zera’ Emet, II, 107) che non bisognava cambiare il sistema tradizionale degli studi in Italia. Egli scrisse che ai bambini bisogna insegnare a leggere l’ebraico e poi ogni settimana insegnare la parashà spiegandola in italiano con il commento di Rashì. E poi introdurli man mano allo studio della Mishnà e della Ghemarà. Un’ora al giorno deve essere dedicata allo studio della lingua italiana e dell’aritmetica. Arrivati all’età di tredici anni, chi è più portato agli studi ebraici, può continuare a studiare anche le opere del Maimonide e degli altri maestri, mentre gli altri possono dedicarsi a trovare un’occupazione.
R. Yishma’el si rendeva conto che lasciare che gli studi ebraici diventassero secondari significava condannarli all’assimilazione. Nel suo responso egli sottolineava che gli studi delle cose ebraiche devono essere primari e gli altri, secondari. La storia degli ebrei in Italia ha confermato i suoi timori.