Bo el parò” con questo imperativo inizia la parashà.
Essa narra delle ultime tre piaghe, quelle che definitivamente hanno piegato l’Egitto e gli egiziani, portando così il faraone a liberare tutti gli ebrei indistintamente; racconta degli ordini impartiti da
D-o al popolo riguardo la preparazione per uscire dall’Egitto e l’uscita stessa, in modo da non essere mai considerata nella storia una fuga, ma un vero e proprio esodo con tutta la dignità dovuta a un popolo.
I grammatici fanno notare che non è scritto “lekh el parò – va dal faraone” ma “bo el parò – vieni dal faraone”; questo ci conferma ciò che il Signore promette a Mosè, nell’episodio del “Roveto ardente” in cui è detto: “Vaerèd le hazzilò – E io scenderò a salvarlo”.
La salvezza del popolo dall’Egitto e la liberazione dalla schiavitù non arriva al popolo da Mosè o da Aharon ma direttamente dal Signore il quale, insieme a Mosè e ad Aharon, si presenta al faraone e a tutta la sua corte, mostrandosi con tutta la Sua potenza, affinché nella storia tutta l’umanità testimoni questo magnifico evento.
La parashà si conclude con la mizvà ripetuta per due volte, di indossare i tefillin:
“Ukshartam le ot al jadekha ve hajù le totafot ben enekha – Li legherai come segno sul tuo braccio (Rashì commenta – braccio debole) e saranno come frontale fra i tuoi occhi”.
I tefillin hanno la funzione di ricordarci che l’osservanza delle mizvot rende liberi; è per questo motivo che noi li indossiamo, soprattutto quello del capo, come espressione di orgoglio. La mizvà dei tefillin è esistente prima ancora che fosse data la Torà e, insieme a SHABBAT e MILÀ, formando con le loro iniziali, la parola SHEMOT (shabbat – milà – U Tfillin), rendono il popolo meritevole di essere finalmente libero.
Shabbat shalom