Tempio di via Eupili – Milano
Il libro di Bamidbar inizia con un censimento. “Fate un censimento di tutta la comunità del popolo d’Israele, secondo le loro famiglie, rispetto la casa dei loro padri, contando individualmente i nomi di tutti i maschi” (Bamidbar 1:2) A D-o, a quanto pare, piace davvero tenere i conti. Il censimento viene comandato non solo qui, ma anche all’uscita dall’Egitto e dopo il grave peccato del Vitello d’Oro. Rashi descrive questo comandamento paragonando D-o ad un giovane genitore: Mitoch chibatan lefanav mone otam, D-o li ama, quindi li conta.
Ma è veramente così? In Shemot D-o dice a Moshe: “Quando fai un censimento dei figli di Israele per contarli, ognuno deve dare una moneta al momento in cui viene contato, di modo che nessuna piaga li colpirà quando li conterai”. (Shemot 30: 11-12). Questo sembra un atteggiamento in realtà più spaventoso che amorevole. Nella Parashà di questa settimana è scritto “Fai il censimento di tutta la comunità di Israele…” In questo pasuk, il termine utilizzato è “seu et rosh”, tradotto come “contare” o “fare un censimento”, ma la sua traduzione letterale è “alzare la testa”. Questo è un termine insolito per trasmettere la necessità di contare. Limnot, lispor, lifkod, persino lachshov sono i termini più comuni che la Torà usa per indicare il conteggio. Che cosa ha a che fare “alzare la testa” con il contare? Sappiamo che nella Torà nessuna parola o frase è superflua. Cosa ci viene ad insegnare questo termine?
Per quanto possiamo essere diligenti nella nostra pratica di quantificare, a volte, quando i numeri diventano troppo grandi, l’inesattezza si infiltra nel nostro conteggio. Quando rappresentiamo qualcosa con un numero molto grande – una popolazione di mezzo miliardo, le migliaia di dipendenti impiegati in una multinazionale e perfino i sei milioni di anime perse durante l’Olocausto – usiamo i numeri per rappresentare un aggregato. I nostri numeri valorizzano un gruppo, una nazione, una forza lavoro. Non parliamo di quel numero di individui con esperienze, amori, desideri e paure specifici e unici. Parliamo del tutto. In questo tutto l’individuo è in qualche modo assorbito, come un nuotatore che si tuffa sotto le onde dell’oceano. Gli individui si perdono nella folla, sia in senso figurato che letterale. Rav Jonathan Sacks in un saggio proprio su questo argomento mostra come le folle esercitino un’ “influenza magnetica” che trasmuta il comportamento degli individui ad una “mente di gruppo” collettiva. Dice: “Un individuo in mezzo alla folla è un granello di sabbia in mezzo ad altri granelli di sabbia, che il vento solleva a volontà”. Un individuo in mezzo alla folla è spesso perso e messo a tacere. D-o comanda a Moshe, seu et rosh, conta gli individui ma, nel contarli, alza la testa. Tramite questo comandamento, D-o dice a Moshe che ogni individuo è importante. Dopotutto, la testa non è solo la sede dell’intelletto, ma anche delle emozioni, dei sentimenti, del sé stesso. D-o sta in questo modo sta comunicando di non perdere l’individuo nel conteggio.
L’ebraismo è incentrato sull’individuo. Rav Soloveitchik insegna il vero potere di un minyan sostenendo che, anche se dobbiamo avere un quorum per pregare, recitare la Kedusha, leggere dalla Torà, i dieci individui necessari per il minyan non vengono inghiottiti nella collettività. Il gruppo non esiste se non per i singoli. Seu et rosh, non lasciare che l’individuo si perda nella moltitudine. Ogni essere umano è unico, speciale. “Alzare la testa” è fare di più che contare; è onorare e amare. Il Chidushe haRim commenta: “Nell’ Halacha c’è il principio molto importante che davar shebeminyan lo batel – qualcosa che viene contato, venduto singolarmente piuttosto che a peso, non può mai essere annullato anche se mescolato tra mille altri. Sotto questa luce, fare un censimento, contare, significa assicurarsi che nessun individuo possa mai essere perso. D-o desidera che rimaniamo come un davar shebeminyan…” Come possiamo assicurarci che, in questo mondo grande e impersonale, a ciascuno venga garantito il suo spazio, la sua dignità, il suo diritto?
Ramban nel suo commento cita una ragione, tra le altre, per la quale D-o comanda il censimento che affronta questo problema. “Ogni membro della nazione aveva il diritto di beneficiare dell’attenzione personale di Moshe e Aharon, e il censimento era una grande opportunità per ogni individuo che veniva davanti a questi due grandi Maestri, dove il più grande tra i profeti e suo fratello, il Cohen Gadol, pronunciava il suo nome e lo considerava come individuo dal grande valore personale. Sicuramente, aggiunge il Ramban, in quel momento, Moshe e Aaron davano ad ognuno una berachà.
La Parashà descrive in modo dettagliato l’istituzione del campo. Ogni persona aveva la sua tribù. Quando la Torà descrive la struttura del Campo, divide le 12 tribù, in quattro formazioni, a nord, sud, est e ovest. Ogni formazione aveva al suo interno tre tribù ed il proprio stendardo. Il Chizkuni spiega che la prima lettera di ogni stendardo compone il nome di Avraham, le seconde lettere il nome di Itzchak e le lettere finali il nome di Yaakov. Questo ci insegna l’importanza non solo dell’individuo ma anche della comunità. Ogni comunità è composta da individui che, con le loro peculiarità, permettono di farla fiorire e crescere. Quello che è importante è non perdere l’individuo nel mare della collettività, permettere ad ognuno di crescere, permettere la collaborazione tra individui e tra comunità, meritando così la berachà e il successo dei nostri patriarchi e la berachà di D-o stesso.