Nel commercio è accettata l’idea secondo la quale il compratore ha il diritto di cambiare la merce acquistata. Il cambio viene effettuato in base ai criteri stabiliti dal venditore. Questa costruzione discende dalla constatazione che gli uomini spesso cambiano idea, ma al contempo questo sistema favorisce gli acquisti, perché allontana nel compratore la paura dell’errore.
Per certi beni di un certo valore non si può pretendere la sostituzione. La decisione è da considerarsi definitiva e irrevocabile.
Parte della parashah di Bechukkotai si interessa della possibilità o meno di sostituire dei beni connotati da una certa qedushah. Ad esempio un sacrificio non può essere sostituito con un altro animale. Nel momento in cui viene consacrato, acquisisce una sua santità, collegata al corpo stesso del sacrificio, alla sua fisicità.
Se qualcuno, sebbene la Torah abbia escluso questa possibilità, volesse sostituire un sacrificio con un altro animale, in questo caso entrambi gli animali sarebbero consacrati. La santità anziché trasferirsi, come avremmo immaginato, si moltiplica. Nel linguaggio informatico, non avviene un “taglia e incolla”, ma un “copia e incolla”.
La stessa tecnica viene applicata per i frutti dell’anno sabbatico, che hanno una qedushah particolare, che ricade sui frutti stessi, essendo destinati al consumo. Se qualcuno volesse trasferire questa santità su altri frutti, nuovamente avrebbe come effetto una duplicazione, e sarebbe vietato smerciare o distruggere questi secondi frutti.
Questa logica però non è utilizzabile per qualsiasi entità. Per esempio, se volessi duplicare la santità di Yerushalaim, potrei trasferirla su un’altra città? Oggi certamente no, anche se i chakhamim nel Midrash (Shir ha-shirim Rabbà 7) ritengono che alla fine dei giorni la santità di Yerushalaim arriverà sino a Damasco.
Se invece volessimo attribuire della santità ad un’entità che non può averla, ad esempio un animale difettoso, che non può essere sacrificato sull’altare, il padrone secondo la Torah ha diritto di acquisirla nuovamente in seguito ad una valutazione effettuata dal Kohen e il riconoscimento della somma prevista, aumentandola di un quinto. La santità non attecchisce quindi sull’animale, ma sul suo valore economico, che è un elemento trasferibile. Al termine di questa operazione, l’animale è nuovamente pienamente fruibile per il padrone, e il denaro invece è consacrato. Troviamo la stessa tecnica per i frutti dell’albero del quarto anno (neta’ reva’i) e quelli della seconda decima (che viene prelevata nel primo, secondo, quarto e quinto anno del ciclo della shemittah), che secondo la Torah devono essere consumati dai padroni a Yerushalaim. In questo caso i padroni sono autorizzati a riscattare quei frutti, trasferendo la loro qedushah sul denaro e acquistando altro cibo a Yerushalaim.
I frutti del quarto anno vengono chiamati “qodesh hilulim – sacri per ringraziamento”. I Maestri spiegano però questa espressione come chilulim – frutti che è possibile rendere chol, profani. Non c’è solamente una somiglianza linguistica fra questi due termini. Secondo R. Aqiva nel Talmud in Berakhot (35a) da questo verso deriva l’obbligo di recitare la berakhah quando mangiamo un cibo. Quando recitiamo una berakhah lodiamo di certo H., ma d’altra parte affermiamo che tutta la terra appartiene ad H., e nel momento in cui mangiamo qualcosa senza recitare la relativa berakhah, ci impadroniamo di qualcosa che non è nostro, più nello specifico qualcosa che è stato consacrato ad H. Attraverso la berakhah possiamo rendere profana, e quindi utilizzabile, un’entità sacra. In base al ragionamento che abbiamo portato avanti, quando recitiamo la berakah, dove viene trasferita la santità del frutto? Tutta la creazione è un canto di lode ad H. Una mela per via del suo colore, del suo sapore, dell’unione delle sue cellule, è un canto ad H. Chi ci dà il diritto di mettere a tacere questo canto? Il nostro canto, la nostra berakhah, sostituisce il canto della mela. Questo canto è più grande del canto silenzioso della mela, perché non è automatico, ma è frutto di una libera scelta dell’uomo. La berakhah costituisce una salita di livello nella lode di H.
Anche se il canto della natura è di una bellezza impressionante, il nostro può superarlo. Chi mangia senza recitare la berakhah viene paragonato a chi depreda i propri genitori, in base ad un verso nel libro di Mishlè. Un bambino sa bene che quello che i suoi genitori posseggono è destinato a lui, ma i genitori non gradiscono di certo che il bambino ne usufruisca senza il loro permesso. E’ paragonabile ad una persona che intende fare un regalo ad un suo amico, prepara un bel pacchetto con l’idea di consegnarglielo all’indomani. Il destinatario del regalo nella notte si intrufola nella sua casa e prende il pacchetto, visto che in un modo o nell’altro gli sarebbe arrivato. Questo di certo è vero, ma in questo modo tutto l’onore che l’amico gli ha conferito viene di colpo cancellato. Questo è l’atteggiamento di chi gode di questo mondo senza recitare la berakhah: H. ha creato il mondo per l’uomo, per me, e quando ne usufruisco mi approprio di qualcosa che mi spetta. Ma H. vuole che questo avvenga in un modo onorevole, che è quello di pronunciare il nome di H. recitando la berakhah.