La Torà ci insegna a essere solidali. Cos’è la solidarietà? La Treccani da’ questa definizione: “È il rapporto di fratellanza e di reciproco sostegno che collega i singoli componenti di una collettività sulla base del sentimento di comune appartenenza a essa e di condivisione di un’identità collettiva, e in funzione della coscienza di comuni interessi e finalità da perseguire”.
Questa definizione riflette abbastanza bene quello che è scritto nella Torà: “Quando il tuo fratello si è impoverito e ha perso la capacità di sostenersi nella comunità, dovrai aiutarlo, sia egli un proselita o un residente. Non trarre da lui interesse, né usura; ma abbi timore di Dio, e fai sì che il tuo fratello viva presso di te. Non gli darai il tuo danaro a interesse, né gli darai i tuoi viveri per ricavarne usura. Io sono l’Eterno, il vostro Dio, che vi ho tratto dal paese d’Egitto per darvi il paese di Canaan, per essere il vostro Dio” (Vaykrà, 25:35-38).
R. Yitzchak Magrisso di Costantinopoli (XVIII sec. E.V.) in Me’am Lo’ez scrive che la Torà ci fa sapere quanto sia importante fare del bene a un nostro fratello quando si trova in difficoltà. In tali situazioni bisogna fare il possibile per aiutarlo a rimanere indipendente in modo che non subisca un crollo economico totale che lo porti a dover dipendere dalla beneficienza della comunità .
Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) spiega questo concetto nel Mishnè Torà (Hilkhòt Malvè Ve-Lovè) dove scrive: “Prestare ai poveri è una mitzvà positiva, come è detto: «Presterai denaro ai miei poveri, ai poveri del tuo popolo». Si potrebbe pensare che si tratti di un atto discrezionale. Ma la Torà insegna: «Apri la tua mano e prestagli quanto gli occorre» (Devarìm, 15:8). E questa mitzvà è più grande del [dare] la tzedakà al povero che la chiede, perché uno è già nella fase in cui deve chiedere, mentre l’altro non ha ancora raggiunto tale fase. E la Torà rimprovera specificamente chi si astiene dal prestare [ai poveri in questo modo], come è detto: «Se sei avaro con il tuo parente e non gli dai nulla, egli griderà a Dio contro di te, e tu sarai colpevole»” (Devarìm, 15:9).
Concedere prestiti a chi ne ha bisogno è quindi un atto di grande valore. Tutto questo a condizione che venga fatto senza richiedere un quid pro quo per il prestito.
R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (pp. 214-5) commenta che la Torà proibisce assolutamente di far pagare qualunque interesse per i prestiti. E questa proibizione è cosi grave che appare ben cinque volte nella Torà. La proibizione vale non solo per chi concede il prestito, ma anche per chi lo riceve (e per tutti gli altri coinvolti nel prestito, come testimoni, scrivani ecc.). In effetti si può pensare che non vi sia nulla di male nel riscuotere interesse per dei prestiti. Così come si paga per il noleggio di un’auto o per l’affitto di una casa, appare giustificato fare pagare chi riceve il prestito per “il noleggio” del denaro dato in prestito. E questo anche se chi riceve il prestito è disposto a pagare l’interesse, e anche se il tasso d’interesse è molto più basso di quello vigente nei mercati finanziari.
La proibizione deve essere vista alla luce del fatto che la Torà usa la parola “tuo fratello”. Anche se non c’è nulla di male nel fare pagare interessi, faresti pagare interesse a tuo padre o tuo fratello? Certamente no. La Torà vuole che nel considerare quello che un altro ebreo ha bisogno, venga considerato come un nostro fratello.