Alla fine della parashà è scritto che Miriam, sorella maggiore di Moshè, si rivolse al fratello Aharon dicendo “L’Eterno ha forse parlato solo con Moshè? Non ha parlato anche con noi?” (Bemidbàr, 12:2), volendo così affermare che il livello di nevuà (profezia) di Moshè non era superiore al suo e a quello di Aharon. L’Eterno apparve in profezia a tutti e tre con parole di rimprovero nei confronti di Miriam e di Aharon dicendo: “Ascoltate attentamente le mie parole; se qualcuno tra di voi ha un’esperienza profetica, quando mi rivelo a lui in una visione lo farò con un sogno. Non così con Moshè che è come un servitore fedele nella Mia casa. Con lui parlo senza intermediari con una visione che non contiene allegorie, ed egli vede chiaramente il risultato delle Mie azioni. Perché quindi non avete avuto timore di sparlare del mio servo Moshè?” (ibid., 12:6-7). Come punizione per aver sparlato di Moshè, la sorella Miriam venne colpita da una piaga della pelle detta tzara’at. Aharon pregò quindi Moshè di intervenire in modo che la loro sorella non fosse “come un morto”.
R. Chayim Shmuelevitz (Lituania, 1902-1979, Gerusalemme), capo della Yeshivat Mir a Gerusalemme, nella sua raccolta di derashòt (discorsi di Torà) intitolata Sichòt Mussàr (conversazioni etiche) fa qualche considerazione sull’affermazione dei Maestri secondo la quale colui che è affetto da tzara’at è considerato come un morto. Egli menziona il passo talmudico nel trattato Nedarìm (64b) nel quale i Maestri insegnano che quattro categorie di persone sono considerati come morti: il povero, colui che è affetto da tzara’at, il cieco e chi non ha figli. Quello che accomuna queste persone è l’isolamento e l’impossibilità di fare del bene.
Colui che era affetto da tzara’at era considerato alla stregua di un morto perché fino a quando non era guarito doveva uscire dalla società e rimanere isolato “al di fuori dell’accampamento” (Vaykrà, 13:46). Il cieco è considerato morto perché senza la visione è anch’esso isolato dagli altri. In modo simile chi non ha figli è anch’esso isolato perché gli manca la possibilità di dare di sé e di fare del bene. E così pure chi è povero e non ha nulla da dare al prossimo. R. Shmuelevitz scrive che dalla punizione che fu inflitta a Miriam possiamo derivare la gravità del peccato di sparlare del prossimo. Egli aggiunge che le punizioni divine sono commensurate al peccato (midà ke-nèghed midà) e il loro scopo è far sì che il peccatore si renda conto della propria colpa, si penta e corregga il proprio comportamento. Il maldicente, parlando male del prossimo, ha separato moglie da marito e una persona dall’altra e per questo motivo viene separato dagli altri (Rashi in Vaykrà, ibid., che cita T.B., trattato ‘Arakhìn, 16b).
Rav Israel Meir Kagan (Belarus, 1838-1933) nella sua opera Chafètz Chayìm (Le regole della maldicenza, ed. Morashà, Milano, 2015, p. 46) cita il Maimonide (Mishè Torà, Hilkhòt Tumàt Tzara’at, 16:10) e scrive: “Quando una persona sparla del prossimo trasgredisce anche la mitzvà prescrittiva «Ricorda ciò che ha fatto il Signore tuo Dio a Miriam» (Devarìm, 24:9). La Torà ci ha avvertito di ricordare e di ripetere a voce la severa punizione che il Signore diede alla giusta profetessa Miriam. Essa parlò di suo fratello Moshè che amava come se stessa e che aveva tirato su fin dalla nascita e per il quale aveva rischiato la vita per salvarlo dalle acque. Lei non disse nulla di reprensibile nei suoi confronti; lo paragonò solo agli altri profeti. Inoltre non disse nulla in sua presenza, cosa che l’avrebbe potuto imbarazzare, né in pubblico. Ella parlò solo con il suo santo fratello Aronne. Moshè non fu per nulla offeso, com’è scritto «E l’uomo Moshè era eccezionalmente umile» (Bemidbàr, 12:3). Con tutto ciò i suoi meriti non le servirono e fu punita con la tzara’at. A maggior ragione gli sciocchi che fanno grandi discorsi sul prossimo verranno di certo severamente puniti per questo peccato”.
Rav Riccardo Di Segni, nella sua presentazione ai lettori dell’opera Chafètz Chayìm pubblicata in lingua italiana nel mese di aprile 2015 dalla casa editrice Morashà, scrive: “La nostra parola, il linguaggio complesso che ci distingue dagli animali, è uno strumento essenziale di relazione, è una forza immensa di cui dispone ogni essere umano. Una forza che può essere usata per costruire ma il più delle volte serve a distruggere: una reputazione, un lavoro, una famiglia, una vita. Nell’esperienza comune non ci dedichiamo a capire quali e quanti possano essere i danni che un uso improprio della nostra parola possa produrre anche se con le migliori intenzioni o inavvertitamente. Le regole sull’uso corretto della parola compaiono nella Torà sotto forma di precetti e in fatti narrati; sono codificate nei testi rabbinici; hanno finalmente avuto, in tempi relativamente vicini, la loro esposizione sistematica in un testo, il Chafètz Chayìm, che è diventato patrimonio essenziale della nostra vita religiosa. Una guida alla costruzione e al mantenimento di una società basata sul rispetto reciproco”.
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